La pedagogia dell’esempio di don Efisio Spettu ricordata, nella festa dell’Immacolata, presso il teatro di Sant’Eulalia con testimonianze dai suoi maggiori settori di lavoro, di Gianfranco Murtas
In prima fila l’ospedale Oncologico e la comunità Hanseniani, il seminario Regionale e l’UNITALSI, il liceo Dettori e la comunità di San Rocco.
All’insegna di “prete nostro, amico nostro”.
La pedagogia dell’esempio di don Efisio Spettu ricordata, nella festa dell’Immacolata, presso il teatro di Sant’Eulalia con testimonianze dai suoi maggiori settori di lavoro.
In prima fila l’ospedale Oncologico e la comunità Hanseniani, il seminario Regionale e l’UNITALSI, il liceo Dettori e la comunità di San Rocco. All’insegna di “prete nostro, amico nostro”
di Gianfranco Murtas
Soltanto la capienza di posti che è stata, per ragioni di sicurezza, ridotta, di recente, nel cine-teatro di Sant’Eulalia a Cagliari ha impedito i grandi numeri. Ma certamente non erano meno di 150-180 quelli che sono venuti all’appuntamento, molti dei quali si sono accontentati di stare a lungo in piedi, accanto alle diverse porte d’accesso dallo spiazzo aperto o dalla canonica: hanno raccolto l’invito passato attraverso le mailing list personali o associative, o hanno programmato la loro partecipazione dopo aver appreso la notizia dalle avare righe de L’Unione Sarda o da quelle più generose di qualche sito internet (cominciando da Aladinpensiero e proseguendo con NewsChorus). Don Efisio Spettu meritava – e l’ha avuta! – la partecipazione numerica, non soltanto quella sostanziale ed appassionata dell’amicizia e della riconoscenza, al memorial dei tributi promosso nella serata di domenica 8 dicembre. Cinquant’anni di immersione nella vita sociale – nelle scuole e nelle parrocchie, nei gruppi ecclesiali e nelle maggiori associazioni di volontariato assistenziale, nelle comunità di base e nelle istituzioni formative della Chiesa sul piano diocesano e regionale, nella complessa macchina della sanità pubblica e nei segreti luoghi della cura d’anime personale – lo avevano messo in relazione con migliaia e migliaia di persone. E di tanto s’era avuto plateale riscontro già nei giorni della camera ardente allestita, in pieno luglio, all’ospedale Oncologico, di cui per la seconda volta e per lunghi anni egli aveva retto la quotidiana fecondissima cappellania, ed ancora durante le funzioni funebri in Quartucciu e in Cagliari.
L’ospitalità premurosa offerta dalla parrocchia di Sant’Eulalia all’evento della comunitaria attestazione del grazie meritato – il grazie sociale di Cagliari e della Sardegna tutta – alla sua memoria ha consentito a molti di recare una testimonianza precisa contribuendo così a ricostruire, come in un mosaico di necessità ancora parziale, la complessa trama e il coerente percorso delle sue fatiche.
Mi permetto qui, prima di entrare nella pur rapida cronaca della serata, soltanto un breve cenno personale, integrativo di quanto riportato nella mia dispensa diffusa in occasione del suo cinquantesimo di messa – lo scorso 29 giugno – e vigilia anche, purtroppo, del suo decesso – il 14 luglio –, al termine di una bruciante infermità. Mi riferisco a “Don Efisio Spettu e la Chiesa come progetto di comunione” con sottotitolo “Mezzo secolo di servizio presbiterale nell’Archidiocesi di Cagliari, fra Ospedale Oncologico ed UNITALSI, Comunità di San Rocco e Seminario Regionale” e comprensivo di due testi: quello biografico titolato “Il prete nostro: don Efisio Spettu e i suoi cinquant’anni di messa” e quello dell’intervista sulle esperienze del Regionale nella sede di Cagliari (dopo quelle ultraquarantennali maturate in Cuglieri) “La mia Chiesa, semplice e complessa, talvolta complicata”.
Nei giorni più duri dell’(incongruo ed) autoritario episcopato di don Giuseppe Mani a Cagliari – che ebbe don Spettu fra le vittime più innocenti e più illustri, con la rimozione dal rettorato della maggiore istituzione formativa della Chiesa sarda – raccolsi da lui, amico da trent’anni, una lunga, lunghissima, intervista proprio sulle vicende del Seminario maggiore isolano fatto mutilo, nell’ultimo lustro e più, della componente cagliaritana, spedita all’intero presso le università romane. Un affronto alla Chiesa regionale che soltanto la debolezza personale dei vescovi messi a capo delle altre diocesi ha potuto ratificare, associandolo alla derubricazione, non meno colpevole, degli adempimenti previsti dal Concilio Plenario Sardo, inclusa la verifica nel decennale, formalmente stabilita negli atti e platealmente disattesa dai membri della CES. (Quando lo storico della Chiesa scriverà, fra cento anni, di questi ultimi che a noi è toccato di vivere, non innalzerà certamente monumenti ai vari presuli paurosi di tutto, in primis quelli che avevano firmato, il 1° luglio 2001, gli atti conclusivi del CPS e non hanno dopo saputo difenderli dallo sprezzo mostrato e imposto dal nuovo arrivato dalla Toscana e dalle supponenze castrensi. Con una eccezione: quella dell’arcivescovo emerito di Oristano Pier Giuliano Tiddia, cui piace qui dare pieno riconoscimento).
Sovviene, a proposito, il ricordo della manifestazione promossa – in supplenza di quella negata dai vescovi, e tanto più dall’arcivescovo Mani presidente della Conferenza regionale – dall’associazione Cresia il 13 giugno 2011 presso l’ostello della gioventù. Quella manifestazione convegnistica ebbe fra i protagonisti – insieme con chi adesso qui scrive ed al professor Bandinu – proprio l’arcivescovo Tiddia e il padre Turtas, il maggior storico della Chiesa sarda del nostro Novecento. Con loro numerosi altri che qui non citerò, con l’eccezione proprio di don Spettu, che non s’intimorì a venire e intervenire, con competenza e per esperienza, con capacità esplorativa ed argomentativa del tanto che meritava di essere riportato alla generale conoscenza e considerazione dei cento intervenuti. Fra i quali mancavano appunto gli impauriti dal presule tosco-cagliaritano: fra cui quelli delle ACLI – le ACLI della paura! ossimoro di una storia rovesciata – e, con la gloria associativa ridimensionata a contributo personale, quelli dell’Azione Cattolica. Nel contesto si potrebbero anche raccontare le furbe e ridicole, certamente non dignitose acrobazie dell’attuale metropolita di Oristano, interessato non a rafforzare nel popolo credente la responsabilità conciliare, ma al contrario a non scontentare i prepotenti della casta, come li avrebbe chiamati papa Francesco riferendosi ai funzionari di chiesa (al minuscolo) quale egli si è dimostrato nell’irrisione anche di suoi collaboratori partecipanti all’evento!
Al contrario, unitamente all’arcivescovo Tiddia – già segretario generale del Concilio Plenario Sardo (giusto negli anni in cui sedeva sulla cattedra antica e prestigiosa della Chiesa arborense!) – don Spettu venne e intervenne: con parola chiara e argomenti forti, come chiunque potrebbe personalmente verificare riascoltandolo nella registrazione presente nel sito di Fondazione Sardinia che ha immesso in rete quella testimonianza appassionata, veritiera, di prete con la schiena dritta, estraneo ad ogni patto di convenienza venale con chi scambiava il proprio servizio apostolico per un trastullo da palcoscenico.
Don Efisio Spettu. Emerse dunque, in quella circostanza, l’idea di preparare con lui un libro-intervista per il suo mezzo secolo di sacerdozio. Come avevo fatto con l’arcivescovo Tiddia e mi accingevo a fare con l’emerito di Cagliari Ottorino P. Alberti (testi poi rielaborati nel reading presentato il 10 settembre 2012 ancora in Sant’Eulalia). Nel contesto mi chiese, don Spettu, di avere il duplicato in dvd delle registrazioni effettuate fra estate ed autunno 1981, per l’emittente televisiva La Voce Sarda, da parte della comunità San Rocco con il coordinamento di Armando Mura, da lui con altri promossa tre anni prima ed animata. Il tutto era entrato all’interno del mio programma, in quattordici puntate, dal titolo “Vagabondo”. Provvidi e li portai i supporti, nel giorno della gran festa, a Cagliari, di Sant’Efisio, all’ospedale Oncologico. Egli li ebbe e ne rivide e riascoltò, la sera, i preziosi contenuti. Delle numerose puntate, due erano sue: davanti alla telecamera a commentare la Scrittura nel tempo liturgico dell’Avvento, una volta insieme con don Andrea Portas prete operaio prima al porto poi ai telefoni, un’altra con l’amico carissimo Osvaldo Pisu, proveniente dal ministero attivo e presto impegnato in sacrificate, intensissime e durevoli missioni di volontariato in Africa.
Ebbene, quelle due partecipazioni le abbiamo riproiettate sullo schermo gigante del cine-teatro di Sant’Eulalia, fra la commozione generale. Don Efisio poco più che quarantenne – ma fino all’insorgere della malattia la sua fisionomia serena e tranquillizzante, direi intimamente gioiosa per credito di speranza, non era cambiata per trent’anni! – porgeva le sue riflessioni sulle beatitudini e sulla prima pagina del racconto dell’evangelista Marco e la figura del Battista il Precursore. Ne applicava i contenuti profondi alla realtà della vita presente, calava esegesi e teologia nella concretezza della esperienza esistenziale di ciascuno.
Indubbiamente sono state quelle due proiezioni, e d’intorno quelle mute dei suoi pellegrinaggi in Terra Santa e con la compagnia dell’UNITALSI, in accompagno al canto, egregiamente eseguito da Dino Pinna (del gruppo quartucciaio degli Olatta), de is goccius composti da Salvatore Vargiu nel 1988 per il 25° di messa, a suscitare e direi misurare, nei partecipanti, il generale accoramento per l’amicizia spezzata dal lutto e insieme rinnovare l’intima e ineffabile relazione con chi della sua vita aveva fatto dono pieno, continuato e sempre discreto.
E’ stata indovinata, nella serata, l’associazione poetica delle pagine forse migliori di don Tonino Bello, consegnate al libro “Maria, donna dei nostri giorni” e lette da Maria Grazia Putzolu e Alessandra Agnesa. Perfetta l’associazione perché riflesso del condiviso indirizzo etico-morale, religioso e civico del “prete nostro, amico nostro” con il magistero dell’esempio del vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi. In coincidenza con la solennità liturgica dell’Immacolata, quelle pagine mariane parevano rappacificare, nel sentire corrente, un’icona restituita finalmente alla sua carnalità, alla sua umanità nel quotidiano della famiglia e del lavoro, delle preoccupazioni e delle aspettative, dei sentimenti e dei progetti.
In Sardegna, non soltanto nella cultura popolare, il culto della Vergine Immacolata ha storia antica. E se mi è consentito, vorrei qui replicare – omaggio speciale anch’esso alla memoria di don Efisio – appunto una pagina, una pagina soltanto che scrissi, materia, alcuni anni fa.
Giusto indugio sulla «protettrice». Se quella di Santa Caterina alessandrina, a sa Costa, era la chiesa che, a Cagliari, più di ogni altra riuniva, sui due fronti, cappelle e altari dedicati alla Madonna (dalla Vergine d’Adamo a quella delle Grazie, dalla Vergine della Misericordia a quella della città di Genova), certo è che tutto il capoluogo antico/medievale – ancora «tenditur in longum» – , ma poi anche quello barocco e quella moderno si sono distinti per la devozione alla madre di Gesù. Se ne contano numerose di chiese dedicate, nel corso dei secoli, a Santa Maria: ora del Cluso (la collegiata di Santa Gilla) ora de Portu de Gruttis (ai margini cimiteriali, dove poi sarebbe stato onorato San Bardilio), ora de Portu Salis (il tempietto vittorino in area forse di San Bartolomeo) ora de Scola (di cui scrive papa Gelasio II nel 1119), ora del Porto (sarà il primo nucleo di Sant’Eulalia?)… Ma ecco anche Santa Maria assunta in cielo – la cattedrale pisana, fatta e rifatta, di Castello –, ecco la Purissima, ecco Nostra Signora di Bonaria, ecco l’Annunziata, ecco il Carmine… e ulteriori titoli ancora nei tempi più recenti (dalla Medaglia Miracolosa alla Madonna della fede, e della salute, e della strada, e di Fatima…).
Nei giorni commossi della morte di Garibaldi in quel di Caprera, da noi si benediceva la statua monumentale dell’Immacolata (realizzata con una larghissima sottoscrizione popolare): quella statua che non cedette neppure davanti ai bombardamenti, i quali soltanto poterono rotearne la base e riorientarne il versante, per quanto essa sembrò poi vegliata alle spalle da quell’altra grande figura bronzea – ennesima opera religiosa di Franco d’Aspro, maestro d’arte e di loggia – a 50 metri d’altezza sul campanile carmelitano.
Cagliari e la Madonna cristiana: una storia che andrebbe raccontata, riunendo in bibliografia decine e decine di saggi ed articoli che nel tempo ricercatori d’ogni trascorso e d’ogni ideologia hanno depositato per la conoscenza diffusa e l’edificazione degli animi.
L’ipotesi teologica dell’Immacolata Concezione s’affaccia in qualche documento sardo già dal remoto 1394. Poco più d’un secolo dopo è a Castello – il centro direzionale cittadino – che sorgono chiese e cappelle mariane, è da lì che salgono vocazioni e invocazioni istituzionali: nel 1626 da parte della Università (la cosiddetta “professione della Pia Opinione”), l’anno dopo da parte del Comune (è la preghiera all’Immacolata Concezione); nel 1632 tocca agli Stamenti e un lustro più tardi ecco la consacrazione della città capitale, e nel 1656 – l’ultimo dei cinque anni orribili per la pestilenza passata da Alghero a Cagliari – un’altra consacrazione: quella del regno.
Nel 1854 saranno grandi feste per la proclamazione del dogma piino. Nel 1904 – anno cinquantenario – verrà indetto dall’arcivescovo Balestra il primo congresso mariano diocesano. Dopo un altro mezzo secolo sarà il sindaco Pietro Leo a bissare quanto, da giovanissimo studente, aveva allora consegnato alla meditazione di tutti, fra rimandi storici e intenzioni spirituali. Nello stesso 1954 saranno diversi i detenuti di Buoncammino, barbari convertiti, ad ispirarsi alla Vergine Madre per poesie e prose di rimonta esistenziale.
In quel medesimo autunno, sotto l’episcopato di mons. Paolo Botto, Cagliari vivrà alla grande le conferme di fede intorno all’ultimo dogma anticipato dal titolo del suo duomo: l’Assunta in Cielo nella declinazione bizantina. A fine anno ben 15mila cagliaritani e sardi anche d’altre provenienze chiuderanno l’anno mariano con messe e comunioni, discorsi e processioni. Tempi religiosamente robusti, d’una società povera e diversa.
Conclusione. C’era, e dovrebbe ancora esserci, nella Biblioteca comunale di Cagliari, una tavoletta in legno con l’effigie, ad olio, della Immacolata sopra il mondo e, dall’altra parte, con la preghiera in latino che i “magnifici consiglieri” della città capitale (pur se soltanto, allora, di 16mila residenti) dovevano recitare prima delle adunanze. Sotto l’immagine si ricorda il voto municipale del 1637 (maldestramente corretto in 1667 da alcuni restauratori). Era arcivescovo allora il mercedario padre Machin.
Alla pinacoteca sacra di San Mauro, in quel di Villanova dove officiano i minori osservanti, un piccolo quadro dell’Immacolata è riconducibile alla stessa mano dell’autore della tavoletta.
Don Efisio Spettu, prete nostro, amico nostro. Così dunque, in una dimensione certamente anche spirituale, in un contesto evocativo di responsabilità soprattutto ecclesiali, ma anche in una comprensione di sensibilità laiche orientate al concorso umanitario e solidaristico, si è svolta – lungo tre ore – la serata in memoria ed onore di un presbitero capace come pochi di larga empatia ed affiancamento. I tre minuti dati come regola generale ai testimoni in successione al microfono sono saltati, ed alla fine è stato necessario e forse giusto riconoscere a ciascuno il tempo che intime emozioni e personali modalità espressiva richiedevano. In più, la lettura di quattro composizioni in parlata cagliaritana di Franca Ferraris Cornaglia – per le quali ha prestato la sua voce Rosaria Floris – ha aggiunto e nuove emozioni e altri ricordi di coraggio personale e generosità partecipativa d’una gran donna che con don Spettu ha collaborato intensamente lungo svariati decenni sia nella scuola popolare “Mons. Oscar A. Romero” sia nell’UNITALSI.
Ad aprire la sequenza degli interventi è stata Anna Maria Serreli, fra le prime coinvolte da don Spettu, al tempo giovanissimo ed ancora chierico (prima cioè dell’ordinazione), nel gruppo di amicizia degli Hanseniani ricoverati in un reparto dell’Ospedale di Is Mirrionis. Cinquant’anni di fraternità rinnovata settimanalmente, il mercoledì pomeriggio, e ancor più solennizzata ogni 29 giugno, data anniversaria dell’ordinazione del presbitero, giovane “anziano” della micro comunità in ospedale, modesta nelle dimensioni (ma neppure tanto!) e vasta e vivace nello spirito. E’ cosa, questa, che ha una sua evidente rilevanza che supera il calendario e va direttamente ai significati delle tappe di vita. Per lui, come credibilmente per ogni altro prete degno del suo stato, quella della propria ordinazione costituiva il punto apicale di un’esistenza offerta gratuitamente. E condividere, appunto nella microcomunità hanseniana integrata dai partecipanti alla liturgia settimanale, il momento avvertito così centrale e prezioso ben esprimeva la natura autentica di quella fraternità.
E d’altra parte, a dire degli amici hanseniani – in testa a tutti Antonio Aste, scomparso novantenne giusto all’inizio di questo dicembre – sono stati incidentalmente anche altri, nella sequenza delle testimonianze in Sant’Eulalia. Perché il reparto dell’ospedale SS. Trinità valeva la tappa di Taizé o quelle altre entrate nel vissuto anche di giovanissimi liceali o universitari, cui hanno fatto commosso riferimento alcuni ex allievi dettorini di don Spettu: così Maurizio Dedoni e Marco Guicciardi, i quali, oggi professionisti di riguardo, hanno riportato, con spontaneità, la freschezza di quelle esperienze per le quali il professore di religione – al tempo poco più grande di loro – ne muoveva l’interesse. Un rapporto che si faceva, pur ancora in classe e nella distinzione dei ruoli, paritario secondo coordinate di discreta ma effettiva fraternità. E d’altra parte si sa quanto, negli anni fra ’60 e ’70, gli anni del Concilio e del postConcilio cioè, gli allievi delle scuole medie superiori della città erano coinvolti da uomini di Chiesa – si pensi a padre Puggioni e alla lega missionaria studenti – nei progetti sociali i più arditi, sostenuti da una frequentazione delle migliori idealità critiche (meravigliosamente postsessantottine) e insieme comunionali.
Sul medesimo orizzonte appunto ideale e sociale si è delineata la testimonianza di un altro ex dettorino, Angelo Brozzu, che, esaurita la parte dell’amarcord adolescenziale, ha collegato quella fase di vita ad una seconda ben più grave e penosa: alla malattia cioè della moglie deceduta infine all’ospedale Oncologico. Qui egli aveva ritrovato l’indimenticato professore, adesso in altre vesti, ma nella perfetta continuità dello stile: uomo della prossimità nel dolore e nella speranza estrema, interprete e medico dei sentimenti più squassanti nei tempi del lutto.
Della spiritualità dell’UNITALSI e anche della sua pratica associativa, ora nella preparazione liturgica ora nel pellegrinaggio viaggiante verso Lourdes ha riferito, con un testo molto elaborato e ricco di cronache, il presidente Tito Aresu. Egli ha molto insistito su alcune caratteristiche del servizio offerto all’Unione da don Spettu nei cinquant’anni di assistentato. Sopra ogni cosa la disciplina come manifestazione di piena consapevolezza dell’importanza della missione: così nelle fasi di allestimento dei viaggi come durante la traversata e la risalita e ridiscesa in treno. Disciplina di tutti, evidentemente dei barellieri e in generale degli accompagnatori con speciale impegno, perché chiave di una organizzazione da volgere integralmente al bene dei malati: assorbendo, per conto loro, molti degli inevitabili disagi del viaggio o della permanenza lontano da casa, e secondando il profitto spirituale nelle attese, anzi nelle necessità di tutti.
A questa stessa sensibilità verso una disciplina sostanziale, pur vestita di letizia e sorriso, ha fatto riferimento anche don Ettore Cannavera che si è riportato alla efficacia dell’esempio di don Efisio come fratello maggiore, data la disparità modesta di età e lo stacco temporale nelle ordinazioni (1963 don Spettu, 1968 don Cannavera). Ricordata la fase in cui entrambi, alla fine degli anni ’60 avevano convissuto al Diocesano (l’uno come direttore spirituale, il giovane come insegnante all’esordio), e nel 1970-71 a Roma – dove il cardinale Baggio li aveva indirizzati, con altri, per conseguire una specializzazione di premio ai talenti e di utile alla Chiesa locale –, egli ha quindi marcato l’importanza delle personali esperienze maturate con don Spettu sia a Taizè che a Gerusalemme e in Terra Santa: alla riscoperta o alla scoperta del gusto ecumenico e insieme alla bellezza delle fonti. Ciò negli anni in cui erano ormai cambiati i ruoli, e il direttore spirituale dei ragazzi del Diocesano era passato alle funzioni di animatore del Regionale ormai trasferito, non senza difficoltà, a Cagliari.
Né, nella testimonianza di don Cannavera, poteva mancare un accenno alle fasi di costituzione e conduzione “partecipata” della comunità di San Rocco, di cui più distesamente ha trattato Francesco Piras, attivo comunitario anch’egli fin dall’origine. Al centro del suo intervento questi ha messo il rigore della cura liturgica raccomandata e personalmente portata da don Spettu nelle messe e in generale nelle funzioni officiate nell’antica chiesetta di Villanova tornata ad essere, dopo lunghi decenni di abbandono, luogo d’accoglienza e festa. Dove i limiti imposti dall’angustia degli spazi solo potevano essere compensati dall’intensità della partecipazione per intanto ai canti in cui suole esprimersi il cor unum dell’assemblea celebrante unitamente al presbitero presidente.
Alle atmosfere umane, ecclesiali e spirituali della comunità di San Rocco hanno riportato anche le parole di Osvaldo Pisu, presbitero che ha quindi optato per la vita coniugale, rinunciando al ministero attivo e convertendolo in un appassionato e non meno prezioso volontariato in terra di missione, condiviso per lunghi anni dalla moglie e dalla figlia. Il suo intervento, onesto ed avvincente, ha rievocato le difficoltà del suo vissuto allorché dai vescovi e da numerosi confratelli s’era alzato nei suoi confronti un giudizio categorico (supponente e assai poco evangelico) tale da dedurne addirittura l’esclusione dai sacramenti. Perché allora proprio da don Spettu venne, in dimostrazione materiale di fraternità, la sua difesa: le ostie circolano fra le bancate di San Rocco, e chi in coscienza – la suprema istanza – sente di comunicarsi lo fa senza necessità alcuna di autorizzazione… Per gli uomini di Chiesa che comandano in ragione del codice invece che del Vangelo, poi, pazienza e pietà: capiranno un giorno anche loro.
Una dimensione di accoglienza, questa di San Rocco, presente anche nella testimonianza di don Marco Lai, oggi parroco di Sant’Eulalia e per diverso tempo e in più circostanze, in gioventù e in anni meno lontani, comunitario lui stesso. Fra i sacerdoti diocesani uno di quelli che con don Spettu ebbero un più stretto rapporto di fraternità cominciato già negli anni delle medie frequentate nel nuovissimo seminario di via mons. Cogoni (quando don Spettu era, come detto, direttore spirituale dei ragazzi). Un sodalizio umano ed ecclesiale proseguito successivamente al Regionale, e fattosi ancora più intenso quando dolorose circostanze di vita imposero a don Lai il “rifugio” nella fraternità di San Rocco. Qui infine – luogo d’asilo o sussidiario in ogni fase di necessità – egli è ritornato nel tribolato e pensoso passaggio dal parrocato di Sant’Elia a quello di Sant’Eulalia (estate 2010), trovando sempre l’ambiente ideale per le… ripartenze.
Alla pastorale sanitaria hanno ricondotto gli interventi di due medici dell’ Oncologico che con il cappellano dell’ospedale avevano avuto infinite occasioni di dialogo e collaborazione. Pur da ottiche diverse – laica quella del dottor Alberto Desogus, piuttosto religiosa quella della dottoressa Maria Bernardetta Aloi – entrambe le testimonianze hanno valorizzato l’efficacia “forse maggiore di quella d’un farmaco” che una certa vicinanza fisica, lo scambio di qualche parola, la trasmissione di un segnale d’interesse sincero e d’affetto possono recare ad un malato. Don Spettu era nativamente capace e s’era fatto esperto di questo linguaggio d’amicizia, discreto ma distinguibile, integralmente percepibile, e l’intero staff sanitario del nosocomio gliene riconosceva il merito. Seppure ognuno potesse reagire, alla verità d’una diagnosi, con una risposta diversa, doveva essere prescrizione, ed era talento del cappellano quello di rispettare i tempi di elaborazione di ciascuno ma affiancando, con virtù umana di prossimità, chi era combattuto fra un prima e un poi forse ineluttabile.
Di più: a questo affiancamento riservato e sobrio, modulato con sapienza intuitiva e rispettoso dei diversi sentire, egli aggiungeva un ossequio pieno e convinto alla laicità della struttura ospedaliera. Come si dimostrò quando una certa circolare fece fuori i crocifissi dalle stanze dell’Oncologico. Essi finirono tutti, come in una assemblea straordinaria controconvocata per la prepotenza di burocrati, dentro un armadio dell’ufficio del cappellano. Il quale non inveiva né protestava, soltanto raccomandava ai rammaricati calma e serenità. Sarebbero venuti tempi migliori.
L’ultimo intervento, metà a braccio e metà letto su fogli braille, è stato quello di Pietro Puddu, comunitario anch’egli di San Rocco e legato da un personale e singolare rapporto a don Spettu. Dal suo peculiare spazio relazionale egli ha voluto dare conto e prova della cura dei dettagli che, nei rapporti interpersonali così come nella preparazione delle liturgie, costituiva per don Spettu un punto irrinunciabile da cui poi muovevano più intensi di prima gli intrecci di confidenza segreta e fuori standard.
Nel mezzo dei sedici interventi si sono posti quelli di don Nino Onnis, incaricato della pastorale missionaria dell’archidiocesi, e – extra scaletta – dell’arcivescovo emerito di Oristano Pier Giuliano Tiddia.
Entrambi di qualche anno più anziani di don Spettu – di sei e nove anni rispettivamente – essi hanno potuto trarre da più lunghe memorie temporali gli episodi che avevano stretto la loro vita e la loro missione ecclesiale al presbitero ora da tutti rimpianto. I ricordi sono volati infatti, per don Onnis, anche alle esperienze formative (da studenti) del seminario di Cuglieri (negli anni ’50) e di educatori/direttori spirituali nel Seminario diocesano di Cagliari (negli anni ‘60): circostanze, queste ultime, richiamate anche dall’arcivescovo Tiddia che al tempo ricopriva le funzioni di rettore.
Don Onnis ha aggiunto, di suo, le pagine di vita quotidiana condivisa verso la metà degli anni ‘70, e sia pure per breve tempo, nella missione brasiliana di Bacurì, e fra il 1992 ed il 2003 al Regionale di via mons. Parragues (lui educatore, don Spettu rettore).
Don Pier Giuliano Tiddia, per parte sua e fra i molti altri evocati (compresi quelli lourdiani), ha messo in luce due episodi di speciale rilievo che lo avevano associato a don Spettu: nel 1984, quando egli, vicario generale dell’arcivescovo Canestri appena arrivato a Cagliari, propose appunto a don Spettu l’incarico di cappellano all’Oncologico, in alternativa a quello di parroco in una qualche parrocchia certo “impegnativa” ma magari anche… gratificante per la risposta garantita agli sforzi compiuti. Oltre dieci anni dopo, al tempo del rettorato del Regionale, fu ancora lui, l’arcivescovo Tiddia, a curare tutte le complicate fasi di istruttoria della CEI per il finanziamento del nuovo edificio del seminario, attualmente in funzione.
Questi gli interventi a voce. La chiusura è toccata al messaggio inviato da don Pasqualino Ricciu, vicario generale della diocesi di Alghero-Bosa e collega di don Spettu al Regionale sia come animatori entrambi nella fase di trasferimento da Cuglieri a Cagliari, sia come educatore (di fianco a don Onnis) negli anni a cavallo fra ’90 del Novecento e 2000. Ai ricordi della colleganza studentesca, a Cuglieri, don Ricciu ha aggiunto quelli più recenti, sempre riconoscendo nell’amico scomparso la delicatezza del rapporto, diretta derivazione dell’appassionata sequela del Vangelo bisognosa appunto di espressione nella pratica di vita, nel ministero sacerdotale, nell’esercizio formativo del clero, nel servizio dei più deboli.
Così la successione delle testimonianze al microfono, all’insegna di «Don Efisio Spettu, prete nostro: presbitero, anziano cioè – riferimento – di comunità, e amico nostro – molti di noi hanno intrecciato la propria vita alla sua».
Ho cercato, per parte mia, pensando ed organizzando o coordinando questa straordinaria serata, di portare in emersione spicchi di vita vissuta e il sentire di molti per una vita – direi meglio – “convissuta” nella quotidianità insieme con un anziano di comunità che ha saputo darsi, frazionandosi e rimanendo però unità, saviamente feconda, autorevolmente carismatica nella relazione. Tale era la profondità del suo scavo esistenziale.
Non potevo forse evitare di dire la mia, quasi flash ed anch’essa comunque anticelebrativa. Non s’è prolungata più d’uno o due minuti quest’altra tessera d’un mosaico necessario e incompiuto, ho detto «incomponibile», data vocazione «multiradiale» dell’amico scomparso.
I miei riferimenti sono stati essenzialmente ai perché della scelta delle letture in alternanza alle testimonianze: da quel magnifico “Maria, donna dei nostri giorni” di don Tonino Bello, letto e riletto iniziando, nell’occasione, dalla fine, dal compimento: “Maria, donna dell’ultima ora”: le ragioni di un obbligato «traghettamento comunitario, associando al nostro Efisio – ecco le parole – l’indimenticato don Tonino, da lui tanto amato: il “mite Discepolo del Maestro mite”, secondo la definizione di Enzo Bianchi in capo ai testi degli esercizi spirituali da don Tonino predicati, a proposito di UNITALSI, a Lourdes, nel luglio 1991.
«A don Tonino e a don Efisio abbiamo aggregato la compagnia dolce, intelligente, colta, sapiente, umile e cagliaritana di Franca Ferraris Cornaglia che l’anno prossimo, qui stesso, onoreremo con una serata speciale di letture delle sue cose migliori».
Toccando a Dino Pinna, nella parte mediana del programma, di cantare a piena voce is goccius composti da Salvatore Vargiu per l’indimenticato 25° di messa, in quel 1988, a Quartucciu, avevo pensato di concludere stabilendo un ideale ponte fra quel centro dell’hinterland e la Marina cagliaritana.
Ecco le parole: «Ringraziando don Marco Lai per l’accoglienza ospitale e fraterna, ricordo appena, del molto che potrebbe dirsi, che proprio da Quartucciu venne nel 1901 il suo collega don Luigi Pinna, il parroco, poi presidente della Collegiata, che governò Sant’Eulalia nei primi vent’anni del secolo scorso, ed ebbe il merito dei grandi lavori realizzati per il restauro radicale della bellissima chiesa secentesca che conosciamo, in cui si svolsero, fra i grandi parrocati del Novecento, quelli benemeriti che meglio ricordiamo, anche per la durata, di don Mario Floris, don Ezio Sini, don Mario Cugusi.
«Quartucciu era frazione di Cagliari, nel 1938 e San Giorgio martire, riconsacrata tre anni prima dall’arcivescovo Piovella, entrava come parrocchia nel cosiddetto “rione del Campidano” dell’organizzazione diocesana. Efisio fu accolto al fonte dal parroco don Emilio Secci; era vivissimo in paese, allora, l’associazionismo laicale: maschile, femminile, dei giovani; le piccole suore degli orfani servivano all’asilo.
«Un ponte, questo fra la Quartucciu di don Efisio, di Salvatore Vargiu e degli Olatta, e la Marina che mi è sembrato bello evocare qui ripensando al mondo di affetti che accompagnò nella sua primissima formazione – tra famiglia, bixinau, parrocchia e scuola – il prete nostro, fino alla sua piena offerta di sé alla comunione diocesana e regionale».
Meritava di essere fissata sulla carta (e sia pure carta web!) una serata memorabile, e ancora merita un riconoscimento, nella circostanza, il regista tecnico Andrea Cao che ha favorito, con la sua abilità professionale, la più intensa partecipazione di tutti.