La resistibile ascesa e la caduta di Silvio Berlusconi: quali insegnamenti per la Sardegna? di Federico Francioni
Patrimonialismo. Trasformismo. Colate di cemento e gigantismo edilizio. La resistibile (contenibile) ascesa di Arturo Ui. Lo scempio delle donne. Il giudizio etico-politico: dal caso Imi-Sir al Lodo Mondadori. Trasversalità. Carisma (solo presunto). Conclusioni: su matessi?
Berlusconi esibisce un vocabolario italiano-sardo. Ma pare che pratichi meglio il dialetto siciliano.
(Da Federico Francioni, redattore della rivista “Camineras”, riceviamo e pubblichiamo)
La resistibile ascesa e la caduta di Silvio Berlusconi: quali insegnamenti per la Sardegna?di Federico Francioni
Patrimonialismo. Nei Condaghes ed anche nella Carta de Logu (al capitolo LXVII) viene tracciata una distinzione fra pegugiare, peculiare, particolare, cioè il patrimonio privato, compreso quello del giudice, da una parte, quanto invece è possessioni de su Rennu, cioè del Giudicato, dall’altra. La raffinatezza della Carta di Eleonora d’Arborea emerge inoltre laddove si afferma che privatizzare (dopo un determinato lasso di tempo) un terreno – dello Stato o della Chiesa – fin lì tenuto a giusto titolo, non deve mettere in discussione i diritti dei minori qui non acatarint tempus de dimandari sas raxonis issoru, che non trovassero cioè il tempo, l’età giusta per far valere le proprie istanze. La demarcazione fra i beni del singolo e quelli pubblici è un principio che contribuisce a collocare un monumento giuridico come la Carta alle origini dello Stato moderno.
Nella storia d’Italia che conduce dalla civiltà comunale alle Signorie, da queste ai Principati, fino ad oggi, sussiste invece un perverso intreccio fra dimensione statale e quella privata che si è ben materializzato nella personalità e nell’opera di Silvio Berlusconi. Il suo potere non ha quasi mai incontrato un argine costruito da chi avrebbe dovuto fare opposizione e rappresentare un’alternativa. L’egemonia berlusconiana costituisce una particolare declinazione – all’italiana – di ideologie trionfanti sul piano internazionale, imperniate sul liberismo selvaggio e su svariate forme di deregulation, ma nasce anche da sedimentazioni ed incrostazioni che affondano le loro radici in secoli di storia della penisola, caratterizzati da frammentazione politico-istituzionale, smaccato individualismo come risposta all’assenza delle istituzioni, scarsa coscienza – al Nord come al Sud – della cosa pubblica, spiccato spirito di cortigianeria, anzi, diciamolo pure, di lecchinaggio.
Trasformismo. L’Italia è il paese dove non si va certo in soccorso del più debole, ma si corre in aiuto del vincitore: il poverino! Così si esprimeva lo scrittore Ennio Flaiano: a lui possiamo fare ricorso per capire, per comprendere certe costanti che dominano nelle mentalità, nelle pratiche sociali della penisola. Da un punto di vista storico-politico il nodo vero però è la continuità del trasformismo – dai governi di Agostino Depretis in poi – che pure è stato (autorevolmente) giustificato da Benedetto Croce. Anche il compromesso storico è stato nei fatti una variante di tale deteriore fenomeno. Che lo si chiami consociativismo o in altro modo, indica la patologia di un sistema privo di schieramenti contrapposti, all’interno del quale prendono corpo corruzione, un sempre più accentuato degrado morale, passivizzazione dell’opinione pubblica e delle masse.
Parlare di Berlusconi significa affrontare alcuni, ben precisi tratti della cultura politica italiana dai quali, in Sardegna, dobbiamo guardarci. Occorre cioè andare oltre gli steccati di una certa visione che possiamo genericamente addebitare a vecchi schemi di tipo sardista-indipendentista, i quali si limitano – almeno così mi sembra – ad una critica generica, che sfiora il qualunquismo, di tutto quanto è “Italia”: di fronte a tale posizione non è superfluo ribadire che Berlusconi ha governato anche in Sardegna.
Toccherà alla magistratura, per esempio, fare chiarezza sugli incontri fra il presidente della giunta regionale Ugo Cappellacci e Flavio Carboni, legato, quest’ultimo, ad affari tra i più torbidi ed oscuri nella storia della penisola, che ebbero un culmine nel cadavere dell’impiccato penzolante sotto il Blackfriars Bridge di Londra. Tuttavia l’indagine storica, le chiavi interpretative ed il giudizio etico-politico sulle stagioni dello stragismo, nonché sulla loggia massonica Propaganda 2 (le sue articolazioni, i suoi sviluppi) non sono certo incombenza della magistratura: essa, per quanto atteneva alle indagini ufficiali ed alle sentenze, ha lasciato larghi vuoti ed interrogativi sui livelli più alti di responsabilità, su mandanti, esecutori, manovali e sulle coperture di cui tutti questi hanno di volta in volta goduto: ecco uno dei tanti motivi per non ripetere scimmiescamente espressioni univoche sull’operato dei giudici, secondo il ben noto andazzo berlusconiano.
Si è parlato di schemi di matrice veterosardista ed indipendentista da discutere e superare. In ogni caso sarebbe profondamente sbagliato dimenticare che nel 2005 Gavino Sale – con un centinaio di aderenti a Indipendèntzia Repùblica de Sardigna – aveva pacificamente invaso Villa Certosa per rivendicare il sacrosanto diritto della nostra terra alla sovranità. Berlusconi da tempo si era dichiarato favorevole ad un ritorno del nucleare, ma il 15-16 maggio 2011 un referendum regionale consultivo – una campagna era stata avviata da Bustianu Cumpostu di Sardigna Natzione Indipendèntzia ed aveva ben presto riscosso vasti consensi – si esprimeva così: votava il 59,34% dell’elettorato che con la schiacciante maggioranza del 95% raggiungeva una bellissima vittoria contro la scellerata prospettiva di nuclearizzare la nostra isola (già diventata deposito segreto di scorie e di svariate immondezze). Con quel voto l’elettorato sardo dava la sveglia a quello italiano per altre significative battaglie ambientaliste.
Colate di cemento e gigantismo edilizio. Berlusconi non ha mai messo a punto alcun progetto per rilanciare l’economia – la carne ed il sangue dell’economia e cioè la produzione – se non il gigantismo edilizio degli appalti e dei subappalti (in grado di favorire l’inserimento della criminalità organizzata), le Grandi Opere o altre colate di cemento, dal ponte sullo Stretto di Messina al piano di Costa Turchese: un investimento, quest’ultimo, per 2.500 miliardi: allora molti olbiesi esultarono di fronte alla prospettiva di guadagni immediati; dal canto loro gli amministratori ridimensionarono le volumetrie di 1/5 e fecero arretrare le costruzioni dalla costa verso la collina. Non se ne fece nulla, ma Gian Piero Scanu, sindaco dal 1984, venne minacciato di morte: gli fu assegnata una scorta per un anno e mezzo (cfr. “La Nuova Sardegna” del 23 novembre 2013).
Gabriella Palermo, ingegnere di Nuoro, già direttrice del settore lavori pubblici nel Comune di Olbia, è stata reintegrata dal giudice civile di Tempio il quale ha ordinato inoltre che le vengano corrisposti tutti gli stipendi arretrati: in un libro la professionista ha ripercorso le sue tensioni con la giunta del sindaco olbiese Settimo Nizzi (che l’aveva allontanata dal suo posto) in anni di gestione dissennata del territorio che hanno condotto ai tanti ruscelli “tombati”, al dissesto idrogeologico, infine alla strage generata dal ciclone “Cleopatra”. I morti di Olbia ci richiamano severamente alla riflessione su una scala di responsabilità che parte dai vertici ed arriva ad una base sociale remissiva o compiacente – verso abusi, piani edilizi ed urbanistici, allegre e frettolose licenze – infine duramente provata dai disastri, non sempre in grado di interrogarsi consapevolmente sugli autori di scelte puntate al profitto, risultate assurde, demenziali, criminali verso la natura e verso le persone.
Berlusconi è andato avanti pressoché indisturbato, raccogliendo anche in Sardegna tanti consensi, avvalendosi di lodi sperticate, di tante solidarietà, di appoggi e connivenze d’ogni sorta, dall’alto verso il basso, arrivando addirittura al paradosso di accusare i propri avversari di un antiberlusconismo (viscerale!) che in realtà non ha mai preso corpo – in misura appena decente – sul piano partitico ed organizzativo. Elaborare un progetto per la liberazione economico-sociale, politico-culturale e linguistica della nostra isola, renderla davvero indipendente e sovrana, può avvenire in primo luogo proseguendo un serio dibattito chiarificatore su alcuni punti fondamentali. Un primo punto fermo dovrebbe essere in Sardegna il rifiuto del gigantismo, soprattutto edilizio, di monopoli incontrollati ed incontrollabili, per scelte puntate invece verso le piccole e medie strutture, nell’agricoltura come nell’industria, convertite o riconvertite in chiave ecocompatibile.
La resistibile (contenibile) ascesa di Arturo Ui. È il titolo di un’opera (non è fra le più note) del teatro di Bertolt Brecht che ambienta fra i gangster di Chicago le vicende che condussero Adolf Hitler al potere. Memorabile, per chi scrive, una rappresentazione al “Verdi” di Sassari, negli anni sessanta, con l’attore Franco Parenti. Nella ricerca storica e nel dibattito storiografico si è discusso – accanitamente – sul rapporto fra nazismo e fascismo; inoltre sono stati posti interrogativi e problemi su continuità e discontinuità fra il regime mussoliniano ed i vent’anni (o quasi) berlusconiani. Lo storico Stuart Woolf ha scritto autorevolmente che – sia pure con le debite cautele e con le opportune precisazioni – tracciare paralleli tra fascismo e berlusconismo non è scorretto. In riferimento a contesti indubbiamente diversi, l’avvento del fascismo e quello del berlusconismo risultano agevolati da due gravi “crisi di sistema”, cui i partiti non riescono a dare risposte convincenti; il personale politico del fascismo e quello berlusconiano si caratterizzano per un “basso livello di cultura, nel senso convenzionale della parola”, per manifesta insofferenza verso la dialettica democratica e le critiche – cui entrambi tendono a rispondere cun frastimos e irrocos, cioè con insulti e contumelie – per una concezione che vede nei cittadini delle “ombre”, meri “serbatoi di consenso” (così afferma lo stesso Stuart Woolf, sulle tracce di quanto hanno scritto Gianfranco Pasquino e Paul Ginsborg).
Con il Porcellum (solo di recente dichiarato incostituzionale) – che non è, lo sappiamo bene, prodotto esclusivo del leghista Roberto Calderoli (essendosi rivelato da subito troppo comodo, troppo funzionale alle logiche oligarchiche oggi dominanti nei partiti) – viene inferto un vulnus assai grave alla democrazia: gli elettori vengono privati del diritto (che dovrebbe essere inalienabile) di scegliere i propri candidati.
Certo, Berlusconi non viene dalla Marcia su Roma, ma non ha neppure bisogno di un colpo di Stato – o di eliminare fisicamente gli avversari – perché gli strumenti di cui dispone (da monopolista o oligopolista dell’impero dei mass-media), favoriscono quella sempre più spinta “colonizzazione delle coscienze”, indagata acutamente dal filosofo sardo Remo Bodei nei suoi studi sull’identità personale e collettiva (è stato protagonista di un convegno sulla responsabilità degli intellettuali isolani, organizzato dalla Fondazione Sardinia, tenutosi a Cagliari nel dicembre del 2011, con la partecipazione, fra gli altri, di Bachisio Bandinu, Placido Cherchi, Gianfranco Contu, Salvatore Cubeddu, Vindice G. Ribichesu, Nereide Rudas).
A mio avviso un punto in comune tra Hitler, Mussolini e Berlusconi è dato indubbiamente da una scalata non certo irresistibile – il riferimento è ancora al dramma di Brecht – in quanto supportata dalla non volontà di opporsi, da complicità degli altri gruppi dirigenti. Occorrerebbe indagare anche sulle pesanti responsabilità degli intellettuali italiani, soprattutto di quelli transfughi della sinistra, a cominciare da Lucio Colletti. Insomma le forze di Centro-sinistra si sono ben guardate anche dal tentativo di porre limiti al dilagare di un monopolio, di un partito-azienda che, da una parte, blaterava di liberalismo politico, di liberismo economico, di concorrenza, di efficienza, dall’altra praticava – in generale e nei territori – la corruttela e la corruzione, imponeva logiche monopolistiche, l’intreccio della dimensione economica con la sfera pubblica, imperniato sugli interessi di un privato mosso esclusivamente dall’obiettivo di sanare i suoi rilevanti debiti, di rilanciare e rimpinguare i profitti con ogni mezzo, di tutelarsi dalle indagini della magistratura (sulle origini e gli sviluppi della carriera di Berlusconi sarebbe interessante rileggere un libro di Giuseppe Fiori, nonché quelli di Peter Gomez, Marco Travaglio ed Elio Veltri).
Con l’ausilio delle analisi e delle categorie tipiche di Antonio Gramsci possiamo agevolmente collocare il percorso berlusconiano nel contesto storico di classi dirigenti mosse da una vocazione sostanzialmente eversiva, insofferenti di Statuto albertino e di Costituzione repubblicana, di leggi, regole e controlli. Ci sono indubbiamente elementi di continuità fra l’autoritarismo di Francesco Crispi (che tanti danni arrecò all’economia sarda con la “guerra delle tariffe” contro la Francia), il cosiddetto “colpo di Stato della borghesia” – tentato alla fine dell’Ottocento dall’allora capo del governo, il generale Luigi Pelloux – il ventennio mussoliniano e l’esperienza berlusconiana.
Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni è stato critico intransigente verso trasformismi e disinvolti salti della quaglia di quanti nel 1922 saltarono sul carro del vincitore. Nel profondo smarrimento politico-ideologico di quegli anni terribili, egli non fu certo indenne da incertezze e tentennamenti che non sfiorarono invece Camillo Bellieni e Luigi Battista Puggioni, antifascisti rigorosi dal primo momento. Ma tutto questo non impedì poi a Lussu di affrontare il fascismo con invidiabile coraggio fisico – a viso aperto, anche con le armi – e di lasciare un insegnamento che dovrebbe essere oggetto di meditazione da parte di sardisti e di indipendentisti. Una volta Franciscu Sedda (promotore ed animatore, con l’on. Paolo Maninchedda del Partito dei sardi), durante un’amichevole e stimolante conversazione, mi disse che – se proprio era necessario – si poteva costruire un apposito pantheon antifascista per Bellieni, Lussu e Puggioni, i quali comunque, rifiutando la prospettiva dell’indipendenza, avevano tradito (così proseguiva lo stesso Sedda che lo ha del resto scritto e ribadito nei suoi saggi) le speranze di riscatto dei sardi. Gli risposi che l’antifascismo di questi dirigenti non poteva essere considerato un qualcosa di scisso dalle loro più generali battaglie. Tempra davvero notevole di teorico, di storico e di organizzatore, nel secondo dopoguerra Bellieni – che quasi mai prese posizione contro la centralistica monarchia dei Savoia, anzi, almeno in un’occasione la esaltò (per mettere in risalto solo un aspetto, una contraddizione della sua prassi) – riconobbe comunque nell’indipendentista Antonio Simon Mossa il più degno e genuino erede del sardismo. Anche l’antifascismo di Simon Mossa non va certo considerato come una sorta di compartimento stagno rispetto alla sua azione complessiva.
Lo scempio delle donne. C’è comunque un punto decisivo che accomuna Hitler, Mussolini e Berlusconi ed è il rapporto di costoro con le donne. Quanti hanno preso le difese ad oltranza del cavaliere hanno parlato di giudici assatanati, in preda al voyeurismo più sfrenato, che nulla potevano sapere – tantomeno provare – dei festini consumati ad Arcore. D’altra parte, se egli vive nell’edonismo, nelle mollezze, non sono forse affari, fattacci suoi? Tuttavia quegli stessi oltranzisti si sono ben guardati dall’entrare nel merito delle lunghe, articolate motivazioni di una sentenza, in grado di focalizzare un autentico “sistema prostituivo” organizzato da chi, incallito, sembra delinquere quasi naturaliter, come i magistrati hanno adombrato, se non scritto: al riguardo essi sembrano quasi echeggiare, per certi versi, l’antropologia criminale di Cesare Lombroso!
Scendendo ai casi concreti: almeno tre donne che avevano allacciato una relazione sentimentale con Hitler sono infine approdate al suicidio. Altre due si sono ritrovate sull’orlo di tale disperata scelta, l’hanno tentata, ma sono comunque sopravvissute (sia pure per poco, come nel caso di Eva Braun). Tra i figli naturali di Mussolini bisogna ricordare Benito Albino, nato dalla relazione del duce con Ida Dalser: madre e figlio vennero rinchiusi in manicomio, dove perirono vittime di “cure”, cioè di una custodia feroce ed ingiustificata: al riguardo è stato illuminante il film Vincere di Marco Bellocchio (apparso nel 2009, interpretato da Giovanna Mezzogiorno e da Filippo Timi, ha riscosso giudizi della critica quanto mai favorevoli). Fra le amanti del duce – che, inoltre, era solito congiungersi, anche a palazzo Venezia, con donne a tal uopo prezzolate – va annoverata Margherita Sarfatti, donna colta, brillante giornalista, autrice della biografia Dux, di grande successo, che contribuì efficacemente a far conoscere il dittatore sul piano europeo ed internazionale (il libro fu tradotto anche in giapponese). Nel 1938 il governo fascista decise di varare i nefandi provvedimenti razziali contro gli ebrei: anche la Sarfatti lo era; fu costretta a fuggire in America latina.
Nel 1944 il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, marito di Edda, venne fucilato con l’accusa di tradimento (fra gli imputati nel processo di Verona, Emilio De Bono ebbe come difensore d’ufficio l’avvocato Riccardo Marrosu; ancora non moltissimi anni fa una targa col suo nome figurava a fianco dell’ingresso di un’elegante villa di viale Caprera a Sassari). Nel caso del duce allo scempio delle donne si aggiunge anche quello della figlia.
Il rapporto di Hitler e di Mussolini con le donne – considerate strumenti, esseri inferiori – non costituisce certo qualcosa di avulso dalla pratica complessiva del totalitarismo nazista e fascista. Carlo Emilio Gadda, in Eros e Priapo, ha presentato il ventennio mussoliniano come movimento inconsulto di uomini animati non da sano erotismo, ma in preda a priapismo, cioè a erezioni patologicamente prolungate, ancorché senili. Una tesi, se vogliamo, paradossale (sembra adattarsi di più al berlusconismo ed al celodurismo leghista) e, comunque, uno sguardo sul regime in chiave grottesca e satirica, che può spingere ad una disamina – senza reticenze – di mentalità, di culture a lungo dominanti e non solo, si badi bene, in ambito nazista, fascista o in quello più recente.
Nel dibattito al Senato del 27 novembre – sulla decadenza dal mandato di Berlusconi – gli esponenti del Pd si sono ben guardati dall’attaccare, hanno mantenuto un profilo paurosamente, penosamente basso; solo Paola Taverna (del Movimento 5 stelle) ha dato – meritoriamente – battaglia. In un’atmosfera quasi surreale, il leader del Centro-destra è stato difeso da una donna di nome Alessandra Mussolini, in grado di esprimersi con una rabbia, con un livore senza eguali. Da Berlusconi alla Mussolini: nell’Italia del 2013 il cerchio sembra chiudersi. Ma quel voto del Senato dovrebbe rafforzare l’esigenza di un’approfondita disamina retrospettiva.
Il giudizio etico-politico: dal caso Imi-Sir al Lodo Mondadori. Ma dobbiamo forse limitarci al piano giudiziario, riprendere solo accuse, prove (consistenti) e sentenze contro Berlusconi per enucleare un discorso critico sul suo quasi-ventennio? Prima di arrivare alla situazione attuale, non autorizzavano a dire alcunché – se non altro sul piano dell’etica – le sue frequentazioni, in particolare quelle con Marcello Dell’Utri, col mafioso Vittorio Mangano, con Cesare Previti? Agitare la questione morale – è stato detto – non paga sul piano politico e soprattutto elettorale: la corruzione, lungi dal suscitare rigetto, crea consenso (come ha scritto Franco Cazzola); tutto questo è vero se alla difesa intransigente di certi valori non si accompagna la messa a punto di un progetto alternativo.
Il nome di Previti è indissolubilmente legato ad una condanna per corruzione dei giudici. Nel 1979, com’è noto, era stato costituito il Consorzio per il risanamento del gruppo Sir-Rumianca, Consorzio guidato da Piero Schlesinger. Veniva ingaggiato un estenuante braccio di ferro fra tale organismo – che proponeva dei piani per il superamento della crisi, il rientro dai debiti – e l’ingegner Nino Rovelli che paventava l’estromissione e ne formulava altri, antitetici. In tale clima maturava nella mente dello stesso Rovelli (noto Clark Gable della Brianza) l’idea di citare in giudizio l’Imi per ottenere un “risarcimento”. Eppure l’Istituto mobiliare italiano aveva concesso un fiume di denaro in finanziamenti alla Sir, nonostante gli avveduti tecnici incaricati di gestire le pratiche avessero più volte posto in guardia i dirigenti dell’istituto, Giorgio Cappon ed altri, sulla solvibilità di Rovelli e sul rischio che l’Imi si trovasse pericolosamente esposto: cifre circostanziate al riguardo si trovano in una monografia di Vera Zamagni (storica dell’Università di Bologna), dove, fra l’altro, si afferma che i registri contabili, nelle aziende di Rovelli, erano spesso e volentieri vuoti, reticenti o nel caos.
Una sentenza scandalosa faceva in modo che venisse versata a Rovelli – capo del colosso chimico che tanti danni ha inferto alla Sardegna sul piano economico-produttivo, ambientale e sanitario – una somma colossale. Dopo la morte di Rovelli in Svizzera (1990), nel gennaio del 1994, com’è noto, l’Imi liquidava a favore degli eredi – il figlio Felice e la moglie Primarosa Battistella – quasi mille miliardi: per la precisione si trattava di 980.351.147.815 lire. Prima di morire Rovelli aveva ordinato ai suoi congiunti di corrispondere – senza fiatare – quanto sarebbe stato loro richiesto da certi personaggi. Tra marzo e giugno dello stesso anno i Rovelli ordinarono un bonifico in favore di Previti, ammontante a 18 milioni in franchi svizzeri, mentre per un altro avvocato, Attilio Pacifico, veniva versata un’altra cifra (sempre in franchi svizzeri): quantità folli di denaro, senza giustificazione o riscontro alcuno in attività di consulenza o di patrocinio legale. Contestualmente alla disponibilità di contante da parte di Pacifico, somme in franchi svizzeri venivano depositate sui conti esteri dei giudici Renato Squillante e Filippo Verde (quest’ultimo sarà infine assolto).
Una cosa è certa: una lobby creata da Previti, Pacifico e da un altro legale, Giovanni Acampora, condizionava l’operato della magistratura. Per il ruolo da essi ricoperto di avvocati occulti nella vicenda Imi-Sir, ricevettero complessivamente 68 miliardi di lire, cui vanno aggiunti 2.732.868 dollari Usa, bonificati nel 1991 in favore di Previti su un conto o da un conto riservato all’estero, intestato alla Fininvest di Berlusconi. Nel 2003 il Tribunale di Milano stabiliva che tale lobby aveva corrotto i giudici – Squillante veniva condannato a 8 anni e 6 mesi, un altro giudice, Vittorio Metta, a 13 anni – per ottenere la sentenza favorevole alla Sir nella causa contro l’Imi. Una corruzione che quantitativamente non trovava eguali nella storia d’Italia e, forse, del mondo, come si sostenne in sede di dibattimenti processuali, per i quali vennero esaminati ben cento faldoni di materiale documentario. Erano state letteralmente comprate – a forza di mazzette – due importanti cause: oltre al caso Imi-Sir, quella sul c.d. Lodo Mondadori, espressione con cui si è soliti fare riferimento alla battaglia, senza esclusione di colpi, combattuta fra Carlo De Benedetti e lo stesso Berlusconi per il controllo della Mondadori.
La vicenda di Rovelli dunque si conclude su di un piano, quello giudiziario, che vede protagonista – in negativo – Previti, già ministro di Berlusconi, con lui uno dei capi di Forza Italia. Non dice nulla questo? Da chi era costituita la leadership di Forza Italia? Rovelli ha usufruito delle protezioni di Antonio Segni, di Giulio Andreotti e di un uomo di sinistra come Stefano Siglienti (si vedano al riguardo le pagine della stessa Zamagni e di Sandro Ruju), dei gruppi dirigenti regionali; i soldi di Rovelli sono andati infine ad uno dei massimi esponenti del Centro-destra.
Le sentenze le scrivono i giudici, ma è essenziale altresì formulare un giudizio etico-politico di più ampio raggio: inutile però chiederlo a Uòlter Veltroni o a Massimo D’Alema, capi di oligarchie autoreferenziali, incapaci e/o ben decisi a non fare opposizione, in quanto estremamente bisognosi di colui che dovrebbe essere un avversario nella corsa alla reciproca legittimazione. Un imperativo categorico di tali gruppi oligarchici è il galleggiamento tra spinte potenzialmente opposte – come ha ben chiarito lo storico Piero Bevilacqua – che impone tassativamente la chiusura delle sezioni di partito, l’evitare i dibattiti, i congressi, il formarsi di maggioranze e minoranze intorno a tesi e tematiche ben precise, le verifiche nei rapporti con la base, umiliata, espropriata di ogni decisionalità, il considerare come pestilenziale la semplice parola “progetto”, la cui elaborazione e realizzazione potrebbe impedire gli accordi trasformistici, la continuazione dei singoli nel cursus honorum, insomma, la perpetuazione del potere degli oligarchi. In tale quadro le primarie vanno bene purché mantengano la verticalizzazione della politica, gli elettori nel ruolo di semplici fruitori passivi, buoni solo per applaudire il leader che di volta in volta viaggia sull’onda dei mass-media.
Perché è dunque indispensabile affrontare nodi cruciali della lotta politica italiana, senza peraltro limitarsi – ché sarebbe ben povera cosa – a condannarla in quanto, per l’appunto, italiana? Proprio per evitare che una certa prassi politica e determinati meccanismi entrino in funzione, inquinando così anche quelle forze che vogliano, per davvero, battersi in favore della liberazione socioeconomica, politico-istituzionale, linguistica, culturale e spirituale di donne, uomini e giovani di Sardegna. La giusta condanna del succursalismo – che quasi sempre umilia ed assoggetta le organizzazioni periferiche dei partiti alle centrali romane – va accompagnata da analisi e denunce puntuali, da programmi alternativi, senza i quali gli indipendentisti (spiace dirlo, sinceramente) saranno destinati a rimanere privi di larghi consensi.
Trasversalità. Insieme al patrimonialismo, trasversalità è un’altra parola chiave per comprendere appieno in quale modo i meccanismi della pianificata affermazione berlusconiana siano stati oliati. Il già ricordato Ginsborg ha sostenuto che, se prassi riformistica ha mai ottenuto successi in Italia, essa va individuata specialmente nelle realizzazioni, nei risultati conseguiti – a livello di Welfare, ma non solo – dalle amministrazioni locali, soprattutto nelle Regioni storicamente “rosse”. Molte cose però sono cambiate, almeno a partire dagli anni ottanta / novanta (se non da prima). È mutata profondamente, in primo luogo, la base sociale di quello che fu il Partito comunista.
La scalata alla Banca nazionale del lavoro, tentata dal presidente di Unipol Gianni Consorte avveniva sul fronte della sinistra “ufficiale” e compromissoria; dal suo canto, sul versante del Centro-destra, il banchiere Giampiero Fiorani – che voleva dare un bacio, sia pure in fronte, al presidente di Bankitalia Mario Fazio (arbitro che non faceva il suo mestiere) – dava l’assalto alla Banca Antonveneta; intanto il mattonaro Stefano Ricucci tentava la mission impossible della conquista di via Solferino, storica sede del “Corriere della sera”. Uno dei mediatori, impegnato a cucire, a saldare gli interessi di tali gruppi era senza dubbio Emilio Gnutti, finanziatore, fra l’altro, delle campagne elettorali di Berlusconi. L’euforia dell’impresa durò poco: gli scalatori ed i “furbetti del quartierino” vennero fermati dalle inchieste giudiziarie. Si trattò di un disegno complessivo, trasversale – per cambiare i connotati del sistema – che non è finito lì: ad otto anni di distanza, Unipol non solo ha ripreso, ma sembra sul punto di realizzare il sogno di Consorte: entrare nei salotti del sistema bancario, speculativo e finanziario, non impadronendosi di una grande banca, ma di un’importantissima compagnia assicurativa (G. Barbacetto, Da Ligresti a Unipol storia dei furbetti delle assicurazioni, “Il Fatto quotidiano” del 27 novembre 2013).
Alle alterne vicissitudini giudiziarie che hanno coinvolto i suddetti personaggi – ed altri come Guido Leoni, già presidente della Banca popolare dell’Emilia Romagna – vanno collegati quei passaggi che hanno decretato la fine dell’autonomia del Banco di Sardegna.
Miti e “modelli” delle Regioni già “rosse” crollano inesorabilmente: Montepaschi è oggetto di indagini giudiziarie per l’acquisizione di una Banca Antonveneta sopravvalutata, per i derivati, per l’operazione “Alexandria”, cioè per gli accordi segreti con i giapponesi della banca d’investimento Nomura; l’istituto creditizio senese risulta afflitto da un deficit di 520 milioni (accumulato negli ultimi mesi) e da un aumento delle sofferenze; esso comunque è stato spolpato con una gestione trasversale, grazie alla quale potevano partire aiuti anche per Denis Verdini del Pdl, impegnato nella gestione di una banca di credito cooperativo dichiarata fallita. Ostacoli alla vigilanza, riciclaggio, falso in bilancio e false comunicazioni societarie sono ipotesi di reato già scritte nel fascicolo aperto dai sostituti procuratori su Banca Carige, già all’esame degli ispettori di Bankitalia. Carige è stata sottoposta, come Montepaschi, a logiche spartitorie che hanno accomunato, fra l’altro, il Centro-sinistra ligure ed il Centro-destra di Claudio Scajola, ma sarebbe errato sottovalutare il ruolo di dominus ricoperto nella politica ligure da Claudio Burlando, già sindaco di Genova, già ministro dei trasporti, con una carriera non esente da “incidenti” (anche clamorosi), attualmente presidente della Regione Liguria.
Senza la categoria della trasversalità sarebbe impossibile leggere ed interpretare le vicende che hanno condotto il Banco di Sardegna sotto il controllo della Banca popolare dell’Emilia Romagna: in una precisa gerarchia vanno collocate le responsabilità di uomini al vertice dello Stato, dei governi, di Fazio (allora governatore di Bankitalia), per arrivare ai gruppi dirigenti locali, composti da teracos di vari schieramenti. Il tutto, per anni, nell’assordante, complice silenzio della stampa, degli economisti accademici ed “ufficiali”, degli esponenti politici (fatta qualche lodevole eccezione), di gran parte dei vertici sindacali.
Dal suo canto Sassari, già negli anni ottanta, diventava un laboratorio sociopolitico, in negativo s’intende. S’imponeva infatti una Sacra Trimurti – composta da un esponente democristiano, un socialista ed un sardista – che esercitava un ferreo controllo innanzitutto sulle scelte edilizie. Ad Alghero la giunta del democristiano Mino Sasso veniva supportata da un Pci che alla fine di quella disastrosa esperienza si riduceva al 6% circa. Un autentico scandalo – alla luce delle cifre sempre conseguite dal partito ad Alghero, in Sardegna e nella penisola – su cui mai si è sviluppato un serio dibattito critico-autocritico. Alla base di quel compromesso storico (variante, come si è detto, del trasformismo) c’erano forse appetiti edilizi, una spartizione da effettuare sulla destinazione d’uso di determinate aree.
Carisma (solo presunto). Chi compare in pubblico con una vistosa bandana, chi si sottopone a trapianto di capelli, chi se li tinge continuamente, chi si impiastriccia il viso con strati di cerone, fino a diventare una maschera indefinibile, inqualificabile, non ha titolo alcuno per ambire al ruolo di capo carismatico: è tale invece chi appare come “aureolato”, destinato a grandi cose, a schiudere prospettive, a mobilitare, a scuotere, a far sentire le masse come un tutto, a far presagire un futuro di giustizia, di eguaglianza e di pace. Nessun carisma può essere attribuito – se non da giornalisti e commentatori compiacenti o totalmente privi di spirito critico – a un amico di mafiosi, a chi preme la pancia, i più bassi umori, i peggiori istinti di una folla indistinta, facendo intravedere i vantaggi derivanti dal non rispetto di leggi, norme e regole. Non occorre essere soriani per riconoscere che almeno il Renato Soru di un certo periodo è effettivamente apparso come fornito di carisma, se non altro per quell’attesa, quell’ansia di rinnovamento, quella tensione verso una svolta che si potevano cogliere, recepire nei luoghi in cui parlava.
Fare riferimento a Berlusconi e a Soru conduce quasi inevitabilmente a formulare un quesito: davvero un imprenditore – legittimamente spinto, quando e laddove osservi le regole, dalla logica e dalla prospettiva di una massimizzazione dei profitti – può, efficacemente e a tutto campo, tutelare l’interesse pubblico, il bene comune? La domanda va posta non solo e non tanto in relazione a Berlusconi, ma anche a Soru. Talvolta, per l’influenza di una subcultura discriminatrice, se non apertamente razzista, si afferma, per stigmatizzare determinati comportamenti: roba da Terzo Mondo! In effetti ciò che si è verificato in Italia con Berlusconi appare di gran lunga più grave rispetto alla presidenza, per fare solo un esempio, di Collor de Mello, che in Brasile aveva alle spalle un tycoon televisivo il quale tuttavia si era ben guardato dal presentarsi in prima persona per concorrere alla massima carica dello Stato.
Conclusioni: su matessi? Berlusconi è caduto, così almeno pare! In ogni caso sembra avviato a contare sempre meno nella scena politica; sarà diverso il ruolo che potrà ricoprire in ambito economico-finanziario? Sicuramente sarà ancora protagonista in campo giudiziario. Tuttavia i danni della sua politica di deregulation selvaggia, erede di quella reaganiana e thatcheriana, adattata al caso italiano, si avvertiranno nei prossimi decenni. Siamo davanti agli effetti duraturi di una rivoluzione passiva, per usare un’altra categoria gramsciana: una trasformazione calata dall’alto, con le masse destinate in prevalenza a subire. Basta pensare alla deriva culturale, alla torsione semantica del termine “riforma”, passato dall’indicare un provvedimento parziale – atto a migliorare, sia pure gradualmente, una situazione economico-sociale – al significato di privatizzazione, di negazione dei beni comuni, di politiche incentrate su tagli spietati nel settore pubblico: dalla scuola all’Università, dalla cultura alla sanità. Il Centro-sinistra è stato del tutto succube, al traino di questo processo di profondo cambiamento in negativo.
Ma per noi centro, destra e sinistra sono su matessi, sono tutte forze italiane. Alcuni appartenenti allo schieramento sardista e/o indipendentista che in Sardegna affermavano questo si sono alla fine schierati con il Centro-destra o propendevano talvolta per esso. Ma fare gli indipendentisti (senza limitarsi alle auto-proclamazioni) non significa forse essere, in primo luogo, per davvero indipendenti dalle due principali coalizioni, senza che ciò, beninteso, porti a cadere nel più trito e deleterio qualunquismo?
Su chi amus nadu fintzas a custu puntu disìgiat èssere una cuntierra, tzertu – ma sintzera, sena venenu – cun sa resessida de dare unu contributu pro fraigare unu fraile, unos cantos logos, mèdios e momentos de dibàtidu, pro fàghere bessire a campu unu progetu de liberatzione de sa Sardigna.