Vergogna e pudore da Grazia a Lawrence, di MICHELA DERIU.

 

 

 

 

 

 

 

Michela

Deriu

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vergogna e pudore da Grazia a Lawrence, di Michela Deriu.

 

“Cento lire rubate! Che avrebbe detto Margherita Carboni se avesse saputo che lui, Anania, lui, il figlio del mugnaio, lui, l’abbandonato, lui, il servo, verso cui la piccola padrona si degnava mostrarsi affabile e buona, aveva rubato cento lire e che queste cento lire erano nascoste nell’orto? Ladro! Egli era un ladro, e  di una somma enorme! Solo in quel momento percepì tutta la vergogna della sua azione, e sentì dolore, umiliazione, rimorso.”

Questi sono i pensieri di Anania Atonzu Derios.

Anania sente il peso della vergogna sotto lo sguardo virtuale di Margherita, Margherita non sa che è stato complice di un furto ma solo il pensiero del suo sguardo fa sì che Anania desista dal portare avanti il gesto vergognoso. E’ la prima parte di Cenere e questo è uno dei tanti passi dove la” vergogna “ è funzionale alla grande produzione narrativa di Grazia Deledda.

Senza la vergogna non starebbe in piedi la trama di “La  Madre”, mentre Marianna Sirca che difetta di vergogna è considerata quasi una posseduta, il suo innamorato Simone Sole in compenso prova una vergogna così cocente sotto lo sguardo dei compagni banditi che rinnega la promessa fatta a Marianna.

”Lo vedi? Ti ha ingannato. E chi sa se tu conoscendo tutta la verità, avresti pronunziato quella parola! Chi sa mai nulla? Tu credi che Simone ti lasci per amore o per debolezza, e invece ti lascia per vanità o per coraggio, forse….Chi sa mai nulla? Intanto io non ti ho detto tutto, disgraziata. Non ti ho detto che quei tre di un anno fa sono venuti ancora a cercare Simone, lo hanno lusingato, adulato, e il più giovane Bantine Fera, ha riso sapendo Simone innamorato, ed ha sputato in segno di disprezzo sapendo che Simone voleva sposarsi in segreto e presentarsi al giudice. Ecco perché Simone ti lascia: perché ha vergogna di amare.’‘

Dice così Costantino Moro compagno di Simone dinanzi all’immagine evanescente di una Marianna Sirca chiusa nel suo regno.

Volti lontani ma basta l’ombra dello sguardo perché la vergogna muova la trama del racconto.

Nel capolavoro Cenere la vergogna la fa da padrona tanto da portare all’olocausto Olì, madre di Anania, che si uccide per lavare l’onta del sangue bastardo che pesa come un macigno nella vita del figlio. La morte è l’unica soluzione che vede Olì perché il figlio possa riscattare l’eredità della sua vita perduta e poter sperare in un futuro migliore.

Inutile dire che gran parte della narrativa deleddiana ha la vergogna come movente.

Ma tra la vergogna deleddiana e un moderno disturbo della personalità passano secoli di storia e grazie alla nostra scrittrice anche fiumi di inchiostro.

Questo sentimento non si può attenuare con una giusta terapia psicanalitica, la vergogna che vive nelle pagine di Grazia Deledda è un imperativo profondo che segna gli animi dei protagonisti per portarli inevitabilmente verso un tragico destino.

I romanzi della scrittrice non costituiscono, per noi, solo un’eredità narrativa ma sono una testimonianza significativa delle dinamiche sociali che intercorrevano in Sardegna in quel tempo.

E’ bene ricordare che Grazia collaborò con la prestigiosa” Rivista delle tradizioni popolari italiane” diretta dal De Gubernatis, famoso orientalista e antropologo.

Oltre ai romanzi ha pubblicato delle scientifiche indagini linguistiche e ricerche sul campo che avevano come oggetto le tradizioni popolari di Nuoro e dintorni.

Ebbe un buon successo ma dovette smettere perché nella Nuoro di quei tempi era disdicevole e vergognoso che una ragazza andasse in giro, tra gente d’ogni genere, a raccogliere e pubblicare antiche leggende e pratiche arcane.

I sentimenti che governano l’ordito dove muovono i suoi personaggi vanno ben oltre il funzionale uso delle emozioni nella narrativa d’appendice. Per noi sardi sono una testimonianza palpabile dell’ ambiente dove affondano le nostre radici ed è anche una grande eredità sociale e storica da cui attingere per analizzare le dinamiche che interagivano in un microcosmo complesso come quello dei nostri paesi.

La definizione della popolazione in rigide caste sociali, l’ossequio rigoroso delle tradizioni, un’economia povera che lascia poco spazio all’inventiva fa si che si stabilisca una rigidissima censura sociale che come strumento coercitivo fondamentale ha proprio la vergogna.

Come nasce la vergogna?

La vergogna non si autogenera, la vergogna per sussistere deva contare su due protagonisti, l’osservante e l’osservato.

E’ lo sguardo dell’osservatore che produce nell’osservato la vergogna.

Anche nel rapporto intrapsichico il soggetto guarda se stesso da due prospettive diverse: come si vede e come nel suo immaginario vorrebbe essere.

E’ la dualità di sguardi che genera il sentire.

Esiste prima una ragione storica e successivamente una ragione sociale perché il nostro sia un mondo produttore di vergogna? O le parti si invertono? Difficile a dirsi.

La risposta più ovvia sarebbe quella che le due ragioni si alimentano vicendevolmente per arrivare all’estremo risultato che produce la vergogna che è la paralisi.

La sindrome di Gorgone, e’ un sentimento antico ma forse vive ancora come un eco nei nostri geni.

L’occhio della vergogna è l’occhio  della famiglia.

Il corrispettivo napoletano di”Ogni scarraffone è bello a mamma soja” in Sardegna non esiste. Il discredito come strumento educativo è estremamente più diffuso del sano riconoscimento del merito.

All’interno della famiglia al bimbo si insegna subito ad avere vergogna per censurare atti e comportamenti ritenuti non buoni, il discredito è feroce mentre il raggiungimento di obiettivi lodevoli viene minimizzato come atto dovuto.

Merito e demerito non si pongono sulla stessa scala.

Matematicamente parlando, se non fare i compiti vale 2 e fare bene i compiti vale sempre 1, la meta da raggiungere sarà sempre superiore alle tue capacità e ammesso che si raggiungano solo valori positivi, e si arrivi ad una discreta somma algebrica, il primo insuccesso renderà negativo ogni sforzo faticosamente raggiunto.

Non solo mentre con la vergogna si inculca il disprezzo di sè si insegna invece ad avere un aristocratico pudore del successo.

Valore e disvalore si pongono con peso diverso nella comunicazione sia all’interno della famiglia che nelle dinamiche che regolano i rapporti all’interno della comunità.

L’accento è sempre posto sul disvalore.

Difficilmente la famiglia sarda nel suo interno rafforza il seme del successo, sottostima e sminuisce il valore perché la famiglia non venga mal vista e sia oggetto di critica.

L’occhio che guarda con vergogna è l’occhio della comunità.

L’occhio della famiglia vigila su atti che possano essere visti da altri come comportamenti discordanti dal codice interno che stabilisce rigide regole sociali alle quali ci si deve attenere per non incorrere nella censura sociale della critica.

Quel che dice la gente non è un immaginario vago è una certezza definita. Ci si deve attenere scrupolosamente ai codici noti .

E’ una società che come matrice sensibile ha la paura .

Ci si nutre di paura, della paura di non essere accettati nella famiglia, della paura di essere mal visti nella comunità, con tutta questa paura come si affronta il nemico straniero più grande e più forte?

Dovremmo riflettere su quanto questa depauperazione psichica intervenga nel nostro sistema sociale ed economico.

L’occhio della vergogna è l’occhio del potere.

Per le sconfitte nella storia rimando a quanto hanno già scritto Mario e Salvatore Cubeddu con i quali non posso competere, ma a riprova di quanto hanno già detto non posso che affermare che le grandi sconfitte hanno ulteriormente indebolito la nostra  già scarsa autostima.

Il sintomo più evidente del provare vergogna dell’esser sardi è stata la distruzione del sardo come lingua grazie alla complicità esplicita dei sardi.

Negli anni cinquanta e su di lì parlare in sardo veniva considerato, soprattutto nella classe piccolo borghese, disdicevole, indegno della comunicazione moderna. La scolarizzazione piemontese portò a deridere i sempliciotti che non parlavano in italiano, non solo non conoscere il sardo venne considerato dagli stessi sardi motivo di vanto.

Distruggere la lingua è stato il primo passo per distruggere non solo una modalità espressiva ma anche per sopprimere la più importante funzione creativa insita in un’etnia.

Alla resa dei conti sembra che in Sardegna funzioni così: chi ha potere svaluta, la famiglia ha potere sul bambino e svaluta, la collettività ha potere sulla famiglia e critica, il governante di turno ha potere sulla popolazione e opprime.

Sembra una struttura organizzata a fabbricare solo perdenti.

E chi non vuol essere perdente che fa? In genere scappa.

Grazia Deledda, Salvatore Satta, Giuseppe Dessi, Emilio Lussu e tanti altri hanno condotto la loro personale ”rivolta dell’oggetto” cercando per altri lidi occhi più benevoli.

E non sono fuggiti solo dallo sguardo critico della comunità, ma quanto casualmente non so, si sono guardati bene dal scegliere come compagni di vita gente della propria etnia.

Fuggire dall’occhio censurante è stato indispensabile per compiere la loro evoluzione da oggetto a soggetto?

Non ci sono più e non possono rispondere, ma se questo fosse possibile l’occhio della vergogna gli consentirebbe di essere sinceri?

Forse tramuterebbero la sarda vergogna in un internazionale pudore.

Quel pudore che vide Lawerence nei sardi appena sbarcato a Cagliari:

”C’e’ una piccola folla che aspetta sulla banchina, quasi tutti uomini con le mani in tasca. Ma grazie al cielo, hanno una certa indifferenza e riservatezza.”

La Sardegna che vede Lawerence è contemporanea di quella della Deledda e tra apprezzamenti e insulti, il mondo che vedono gli occhi dello scrittore inglese è via, via solitario, onesto, sporco, incentrato e circoscritto in se stesso  ma mai vergognoso, al massimo riservato.

La Deledda sente il suo mondo, Lawerence guarda lo stesso mondo ma la percezione e’ lontana come di un universo i cui codici comportamentali vietano l’accesso emotivo allo straniero.

Ma e’ bello essere visti come coloro che hanno pudore.

Pudore è ritegno, rispetto, riserbo, vago nascondimento.

Pudore e’ mantenere il mistero del proprio Se diverso dall’altro.

Pudore e’ il bisogno di tenere la separatezza e distinzione dall’altro

Pudore è il bisogno di affermare la propria autonomia e indipendenza.

Pudore e’ l’orgoglio di volersi velare per poter difendere un bene prezioso come quello della nostra identità.

Cagliari, 22 novembre 2013

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