La nuova destra dei camaleonti, di BARBARA SPINELLI

La nuova destra dei camaleonti

di BARBARA SPINELLI

 
 

la  REPUBBLICA, 20 novembre 2013

DAVANTI a noi, lo spettacolo del berlusconismo che si sfalda. Sorge un nuovo partito, presto sarà chiamato destra normale, e le Larghe Intese paiono rinascere come Afrodite dal mare: più belle e lisce, più legittime; come purificate. Non è così purtroppo. Una destra diversa da quella vista nell’ultimo ventennio ancora non c’è.

Non c’è se per normale intendiamo l’adeguazione alle norme della democrazia, alle sue leggi, alle sue forme costituzionali.
Non è neppure un Termidoro, come fu denominata nel 1794 l’epoca che terminò il Terrore rivoluzionario di Robespierre. In verità certe peculiarità riaffiorano, a cominciare dal fulmineo trasformismo di parecchi fedeli del tiranno: Barras, Tallien, e in primis Fouché, che aveva votato il regicidio, represso nel sangue l’insurrezione di Lione. Anch’egli tramò contro Robespierre. Nel Termidoro sarà ministro della polizia. Furono chiamati camaleonti, e ne esistono molti nel Nuovo centrodestra di Alfano, pur se di minor stazza.

Quel che manca è la caduta di Robespierre. Riottosi, i vassalli di Berlusconi rimangono vassalli. Annunciano il nuovo, ma non escludono patti con l’ex capo e promettono di lottare contro la sua decadenza dal Senato. Le idee che avevano sulla Costituzione, troppo parlamentare e giustizialista, son sempre lì. Piuttosto viene in mente l’8 settembre ’43: Badoglio proclamò un armistizio che apriva agli anglo-americani senza chiudere a Hitler, poi col re fuggì da Roma lasciando che i nazisti occupassero il paese. Tale fu la nazione allo sbando narrata con maestria da Elena Aga Rossi.

Certo in Italia c’è bisogno di una destra normale, il che vuol dire: decente. Vale dunque la pena guardare oltre la nostra aiuola, e vedere come altrove, in simili circostanze, si fece pulizia. Il caso più significativo è la Germania, una democrazia assai attenta alle norme. Lo dimostrò nel 1999-2000, quando scoppiò l’affare dei fondi neri che travolse Helmut Kohl e mise fine alla sua lunga era: 16 anni di cancellierato, 25 di presidenza dei democristiani (Cdu).

Esemplare è innanzitutto la cronologia: gelida, spedita, sbrigativa. Lo scandalo viene alla luce il 4 novembre ’99, sotto il governo Schröder: indagato è il tesoriere Cdu Walther Leisler Kiep, ma Kohl è coinvolto. Il 30 novembre, l’ex Cancelliere ammette l’esistenza di fondi neri. Quattro giorni dopo, Angela Merkel che è segretario generale della Cdu esige sia «fatta chiarezza, rapida e senza omissioni». Passa meno di un mese e i toni si fanno più ruvidi: al canale della Tv pubblica Ard, dice che il partito, se tiene al suo destino, deve uscire dall’impasse «con le proprie forze». Poche ore dopo, il 22 dicembre, esce un suo articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui spiega cosa significhi, per lei, «uscire».

Significa, scrive la Merkel, riconoscere che malcostume, corruzione, non rispetto delle norme sono «una tragedia, per la Democrazia cristiana e per l’intero sistema dei partiti». Le illegalità commesse hanno gravemente danneggiato la Cdu, quale che sia la grandezza di Kohl e il suo contributo all’unità tedesca, all’Europa, al nascere della moneta unica. Non c’è da una parte lo scandalo, e dall’altra l’immagine di Kohl: «le due cose stanno insieme». Risultato: il partito in futuro «deve imparare, con fiducia, a camminare senza il vecchio cavallo di battaglia». Deve imboccare una propria via, «come chi nella pubertà si stacca di casa», anche se il «processo non sarà senza ferite». Si parla di parricidio, tradimento. Ma il partito la sostiene. Nel Brandeburgo, il portavoce della Cdu Möricke chiede «un taglio del cordone ombelicale». Il vice capogruppo parlamentare Friedrich Merz dice: «Sottoscrivo ogni riga dell’articolo della Merkel».

Poco più di un mese: tanto durò fare i conti col passato, e renderne conto. Appena più ci volle perché al capo venisse tolta la carica di presidente onorario della Cdu (18 gennaio 2000), e il partito gli chiedesse di rispondere di qualcosa che veniva vissuto non come un guaio mediatico, ma come tragedia.

E Kohl era un mito, specie in Europa. E dopo la sconfitta alle politiche del ’98 la Cdu era in risalita (alle elezioni europee del ’99, alle regionali a Brema, Berlino, in Assia, nella Saar, in regioni chiave dell’ex Germania est): la Merkel lo ricorda nell’articolo. Un reato è un reato, e nulla pesavano i successi alle urne, il curriculum poderoso del leader, le messinscene di una fittizia stabilità.

Dirimente era un unico aggettivo, che appannava tutto il resto: l’agire di Kohl era rechtswidrig, contro la legge. Questo era intollerabile, e non fu tollerato.

Ricordiamo che neanche il Watergate fu digerito. Nixon infine fu abbandonato da chi nell’opinione pubblica, nei giornali, nella classe politica, l’aveva sostenuto. Hugh Scott, leader repubblicano al Senato, lette le carte dichiarò che la condotta presidenziale era stata «deplorevole, disgustosa, squallida, e immorale».

Fare subito l’inventario del passato, non eludere un giudizio storico-politico netto (sì sì; no no): questo fu per la Merkel rompere con il capo. Se rinacque una destra decente, fu perché la politica fece pulizia da sola, senza attese e rinvii. Gli anticorpi che Sylos Labini giudicò assenti da noi (Repubblica 14-5-02), in Germania esistevano.

Prima che intervenissero i magistrati e la Commissione d’inchiesta parlamentare, il partito seppe tagliare, con un gesto secco, il ramo rivelatosi marcio. Nessuno ebbe l’impudenza di dire che Kohl era immunizzato perché ancora in auge, a casa e fuori. Non così i governisti di Alfano. Nessun inventario, nessun rendiconto del berlusconismo, nessun taglio del cordone ombelicale (ma neanche idee su economia, Europa, politica estera). Se si esclude la difesa del governo di Larghe Intese, l’essenza berlusconiana è preservata. La lotta alla magistratura indipendente prosegue, la decadenza del leader è rifiutata.
Che destra normale può nascere in queste condizioni, sempre che norma significhi norma? Si fa presto a dirsi moderati, se la sovversione da cui ci si separa resta ingiudicata.

Qui è il pericolo che corre l’Italia: che cambino nomi e padroni dei partiti, ma non la cultura dell’illegalità che ci ha ammorbati ben prima che Berlusconi andasse al potere: da quando la P2 pensò, negli anni ’70, il Piano di rinascita democratica.

Rimane il postulato secondo cui la giustizia non è eguale per tutti, e «il vero potere è in mano ai detentori dei media» (Licio Gelli). Continua la politica riservata a chiuse, immuni oligarchie, ancor oggi protette dalla Chiesa: molti governasti sono in Comunione e Liberazione. Tutto è permesso agli oligarchi. Anche le telefonate fatte dalla Cancellieri a amici privati, i Ligresti: telefonate in cui si «mette a disposizione», e 4 volte dichiara «non giusto» (lei che è Guardasigilli) l’arresto appena avvenuto di Salvatore Ligresti e delle figlie per reato di falso in bilancio e manipolazione di mercato (il figlio Paolo, latitante, evita l’incarcerazione). Se il Pd non sfiducia la Cancellieri, si confermerà che il malcostume l’ha senza rimedio contaminato. Che ancora sembra ignorarlo: non tutto quel che è legale, che non è reato, è decente in politica.

È difficilmente immaginabile che la Merkel abbia usato sbadatamente una parola tanto pesante: tragedia. Tragicamente degenera la democrazia quando la legalità è facoltativa. Di fronte a noi sfilano governisti (spesso indagati, spesso ex P2) che abrogano il passato per non mettersi in pericolo.

Le tragedie si superano con la catarsi: una purificazione. E con un giudizio, espresso dall’opinione pubblica che è il Coro. In Italia non sono in vista catarsi, o giudizi: né a destra, né per ora a sinistra. Forzatamente neppure nelle Larghe Intese, e in chi s’ostina a commisurarle con le Grandi Coalizioni tedesche.

 

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