Può un papa essere evangelico? di Gianni Mula

Può un papa essere evangelico?

di Gianni Mula

 

 

 

Dice Zygmunt Bauman che nella nostra condizione liquido-moderna il ritorno al sacro rappresenta un’inevitabile richiesta di semplificazione, di riduzione dei tanti discorsi confusi sulla esperienza umana a poche verità, a pochi princìpi semplici e facilmente accessibili. Paolo Flores d’Arcais, che pure non è certo un fan di Bauman, sembra in questi ultimi tempi credere così tanto al prossimo concretizzarsi di questa prospettiva da provare a modificare per tempo le cose che, dal suo punto di vista, non vanno bene. Ma lo fa con toni di una durezza insolita perfino in un ateo dichiarato come lui. Infatti nel suo ultimo libro, La democrazia ha bisogno di Dio”. Falso!, assume toni di un anticlericalismo ottocentesco che non si capisce come sia proponibile in un tempo di crollo di tutte le certezze. La tesi del libro è espressa sinteticamente nell’ultima di copertina: “La religione deve essere messa al bando della vita pubblica. La fede resta un fatto di coscienza che ha il diritto a manifestarsi in forma pubblica solo come culto.” Se ne dovrebbe dedurre che un cristiano ha il diritto di annunciare il vangelo solo in privato, magari tra persone già credenti, e mai in forma pubblica, come ad esempio è successo nel dibattito Flores-Ratzinger di qualche anno fa, tra l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (cioè l’attuale inquisizione) e appunto l’autore del libro.

La prima cosa che viene da osservare è che si tratta di una tesi autolesionista che fa soprattutto male a chi la usa. Anzitutto perfino Voltaire si rivolterebbe nella tomba se potesse sentire così rivoltato il suo celebre aforisma “Disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. E Voltaire è uno dei principali esponenti di quella tradizione illuminista così cara a Flores. Poi perché si allinea di fatto al partito degli atei devoti capeggiato da Giuliano Ferrara, che contesta[1], paradossalmente con l’ideologia sadomasochista tipica di un cristianesimo senza Cristo, un papa che in nome della centralità di Cristo si permette di denunciare l’idolatria del denaro, la cultura dello scarto, la follia delle guerre.

Secondo questi atei devoti un papa avrebbe il diritto di proclamare la propria fede solo nelle occasioni legate direttamente al culto divino mentre in tutte le altre dovrebbe inchinarsi al dio del mercato, una posizione che sembra corrispondere esattamente a quella prefigurata dall’ateo non devoto Flores che tuona contro ogni manifestazione di fede religiosa nella vita pubblica. È vero che Flores non invoca il dio del mercato ma quello della scienza, ma dal punto di vista pratico tra questi due dei non si vede poi dove sia la differenza. In ogni caso spero che vedersi intruppato con questi figuri spinga Flores a chiarire meglio il suo pensiero. Perché un conto è l’ateismo dichiarato e la lotta al clericalismo in ogni sua forma, sempre legittimi, e un altro chiedere la messa al bando (per legge?) di ogni argomento religioso dalla vita pubblica.

Ma Flores è un intellettuale che per la coerenza delle sue (almeno per me in generale condivisibili) prese di posizione pubbliche ha diritto di essere preso sul serio anche quando non si possa essere con lui in disaccordo più netto. In attesa che Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, accetti la richiesta[2] di Flores di un dibattito pubblico sul merito delle argomentazioni del libro, gli offro volentieri, come credente cristiano e cattolico (anche se magari un po’ diverso dal direttore di Avvenire), e come scienziato, una breve sintesi delle argomentazioni che io userei.

1) Anzitutto mi pare che la domanda posta dal titolo del libro non possa essere il risultato di un ragionamento, perché non esistono connessioni razionali necessarie fra le parole Dio e democrazia. Da credente, quindi su un piano metarazionale, sono comunque anch’io d’accordo che la democrazia non ha bisogno di Dio. E lo sono per gli stessi motivi di Flores, che però bisogna estendere anche ad altri dei, perché bisogna essere laici anche quando si parla di economia o di ambiente o di qualunque altro argomento richieda il parere di esperti. In questo senso la democrazia non ha bisogno del dio delle religioni, ma neanche del dio del mercato o del dio della scienza. Perché ogni dio ha bisogno dei suoi sacerdoti, e gli esperti sono appunto come i sacerdoti delle religioni, ce ne sono di ottimi come anche di pessimi, ed è pia (?) illusione che esista un qualche sistema affidabile di certificazione preventiva. Su ogni argomento controverso gli esperti, ne siano o meno consapevoli, mescolano dati oggettivi a valutazioni inevitabilmente soggettive. Ne segue che, per formarsi un’opinione indipendente in mancanza di competenze proprie, non c’è che confrontare fra loro i pareri di esperti diversi. È un procedimento certamente scomodo e sempre aperto al rischio di sbagliare al momento di trarre valutazioni conclusive, ma questa è l’ineliminabile fatica di ogni pensiero autonomo e ad essa non c’è alternativa.

2) C’è poi la tesi centrale del libro, quella che “la fede deve essere relegata a fatto privato”. Qui sono d’accordo che bisognerebbe evitare i dibattiti fra sordi o le prevaricazioni che accadono quando si rinuncia al confronto tra opinioni e si fa riferimento a supposte autorità indiscutibili esterne al confronto. Tuttavia non vedo come si possa in pratica distinguere, anche solo a livello culturale, tra chi è scorretto sul piano politico perché rifiuta il confronto sul piano razionale e fa leva su valori presunti irrinunciabili perché volontà di Dio, o su invenzioni analoghe, e chi invece rivendica le sue scelte con argomentazioni che nascono dalla propria esperienza di vita. Capisco, e perfino condivido, il senso di sollievo che può venire dall’idea di non doversi più confrontare sul piano politico con personaggi come Giovanardi, ma l’idea di bandirli dalla vita pubblica mi pare del tutto sbagliata. Anzitutto perché perfino i Giovanardi hanno almeno il merito della trasparenza (in democrazia non nascondere i propri convincimenti di fondo è un valore non trascurabile), e soprattutto perché sarebbe veramente molto difficile distinguerli dai molto più dannosi sacerdoti di una presunta scienza esatta del libero mercato (giusto per fare un esempio Mario Monti o Pietro Ichino) che invece continuerebbero ad avere, come si dice, piena agibilità politica.

3) Infine vorrei chiedere a Flores se è davvero convinto che i credenti in quanto tali non abbiano niente da offrire a un libero e razionale confronto politico. Perché il pensiero cristiano (su quello delle altre fedi non mi pronuncio perché ne so troppo poco, ma non credo che il discorso sia molto diverso) ha ben altro da offrire che opinioni basate su dogmi incomprensibili. Gli segnalo ad esempio che il cardinale Martini diceva che il mondo non si divide fra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. O la pacifica ammissione di una personalità universalmente conosciuta e rispettata all’interno e all’esterno della comunità cristiana, “Quante volte, bisogna riconoscerlo, i cristiani hanno indetto crociate, operato persecuzioni, allestito roghi contro infedeli ed eretici, facendo giustizia da se stessi contro i loro avversari! E quanto altre volte hanno taciuto il male, non hanno denunciato l’ingiustizia e l’oppressione, obbedendo a ragioni di convenienza e di opportunità politica ed economica! E che dire della teorizzazione che si è arrivati ad operare della guerra giusta?” (La violenza e Dio, Enzo Bianchi, Vita e Pensiero 2013, pag. 31). Non mi paiono credenti il cui parere dovrebbe essere bandito dalla pubblica arena.

Ma il pensiero cristiano non è arrivato per caso, o per l’intuizione di qualche teologo isolato, alla consapevolezza degli errori compiuti, ma perché nel suo insieme si è confrontato seriamente sul problema del significato del professarsi cristiano in questi tempi di crollo delle certezze. Inoltre anche un arrabbiato difensore del sogno illuministico della modernità, come è Flores, deve riconoscere che la cultura cristiana espressa da un papa che dice, nella nota intervista alla Civiltà Cattolica, “Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio”, è qualcosa di profondamente diverso da quella contro la quale indirizza (spesso giustamente) i suoi strali. È davvero questa la cultura che Flores vuole bandire dalla vita pubblica? E se non lo è, come propone di distinguere fra le due nel bando?

Ma la ragione principale che mi spinge a scrivere queste righe non è la difesa dell’immagine pubblica di una chiesa che, almeno in Italia, sembra tutt’altro che bisognosa di essere difesa da attacchi esterni. Mi muove invece la convinzione profonda che nell’epoca di transizione nella quale viviamo i credenti, e i cristiani in particolare, abbiano qualcosa di valido da dire. Infatti il mondo globale di oggi è caratterizzato dalla perdita generalizzata di ogni certezza: i cittadini non sono più protetti dal proprio Stato di appartenenza, perché nessuno Stato da solo è in grado di opporsi alla rapacità della finanza globale (Zygmunt Bauman). Né è possibile ipotizzare rivoluzioni violente dal basso perché non ci sono più simboli locali da abbattere, dal momento che i governi per cui votiamo non sono più sedi di potere reale. Ciò che si chiama crisi della modernità non è altro che il crollo delle certezze normalmente associate all’esistenza di istituzioni nazionali e locali garanti del patto di solidarietà alla base dello stato.

Queste istituzioni ci sono ancora ma il loro potere è praticamente scomparso e quindi il patto sociale che tiene assieme cittadini e istituzioni ha perso ogni significato. In questa situazione bisognerebbe sostituire la globalizzazione del capitale umano con la solidarietà fra i cittadini di un mondo globale, ma una simile trasformazione non può essere che il risultato di una trasformazione culturale al cui centro ci sia la consapevolezza che viviamo in una fase di transizione. E ciò è possibile soltanto con un dialogo pubblico fra tutte le visioni del mondo, quelle dei credenti come quelle degli atei e degli agnostici. Un dialogo nel quale un papa che parla secondo quello che le scritture della sua fede gli suggeriscono, e non per dogmi, possa essere ascoltato per ciò che dice e non rifiutato aprioristicamente. Un papa che esce dallo storico arroccamento della chiesa sulle proprie certezze non merita che a fargli da contraltare sia l’arroccamento di un finto laicato che ha paura di dover mettere in discussione le proprie certezze.

Sono temi che ho trattato due anni fa in un contributo a MicroMega online e che facevano seguito a un mio pubblico invito a Flores ad affrontare il tema della fase di transizione nella quale si trova, indubitabilmente, la società contemporanea. Ma ad affrontarlo laicamente, cioè non all’ombra di un titolo come “Addio al postmoderno?” che già prefigura la soluzione e soprattutto distoglie l’attenzione dai veri nodi della transizione. Credo che il problema, aggravato, persista anche oggi, e che un pubblico dibattito sia la maniera migliore per affrontarlo. MicroMega potrebbe ancora, nonostante l’evidente infortunio nel quale è caduto il suo fondatore, essere la sede più adatta per ospitarlo.

Gianni Mula

NOTE

[1] Devo quest’analisi acuta e impietosa al vicepresidente nazionale di Pax Christi Sergio Paronetto (Adista Segni Nuovi, 38, 2013).

[2] temi.repubblica.it

Questo articolo è stato anche pubblicato da www.ildialogo.org.

 

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