“Tantas bellas mariposas in Sardigna, comente unu continente. Su connotu e su tempus benidore”, di Fabrizio Palazzari

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(Carbonia, 5 novembre 2013 alle 12:00

Nel 1958 Thomas Münster, un ingegnere tedesco, scrive un attento diario di viaggio dei suoi soggiorni in Sardegna intitolato “Parlane bene” (della Sardegna)”. Si racconta di un’isola da poco entrata nella “modernità” e che ancora porta con sé i segni profondi di un passato lontano, importante e profondo. Segni che a un cittadino europeo del tempo suscitano sensazioni di stupore e affetto miste a preoccupazione. Ne avverte da subito, infatti, la mancanza di senso storico percependo come, nella pur ottima memoria dei Sardi, mancasse una dimensione, come se tutti gli avvenimenti storici fossero visti “come su un dipinto, contemporaneamente e uno accanto all’altro”. E come, a questo senso limitato del tempo, corrispondesse un senso dello spazio anch’esso limitato e allo stesso tempo complesso.

Una complessità degli spazi che, ancora oggi, deriva da una geografia difficile, da una memoria “labirintica” e da una storicità composita che fanno dell’isola uno dei rari luoghi in Europa dove coesistono, in stretta prossimità, elementi paleolitici, nuragici, medioevali, moderni o di archeologia industriale.

Spesso questa immagine, appena descritta, corrisponde a quella parte della Sardegna che NereideRudas, nel libro “L’isola dei coralli”, ha definito il “triangolo dell’isolamento”, ovvero quell’area che “poggia la propria base sulla costa orientale dell’Ogliastra e della Baronia, abbraccia il massiccio del Gennargentu con le sue propaggini e contrafforti settentrionali e meridionali, include gli altipiani centrali per poi convergere con il vertice dei suo lati verso il Montiferro e la costa occidentale”.

Questa specifica area geografica e culturale, caratterizzata da una bassa demografia e da tassi di isolamento molto elevati, è quella nella quale si distribuiscono, per luogo di nascita, quelli che sono considerati alcuni tra i maggiori autori sardi del Novecento e dove più a lungo si sono conservate la lingua e una cultura autoctona.

Per questi ed altri motivi, legati per esempio alle dinamiche migratorie interne della Sardegna del secondo dopoguerra o ad altre più squisitamente politiche, economiche e culturali, la narrazione di questa parte della nostra regione è quella che ancora oggi viene di norma considerata come la più autentica.

In altri termini ciò che in questo testo intendo argomentare, con tutta la sensibilità e l’attenzione che il tema richiede, è che a partire dagli anni Cinquanta si sia affermata una narrazione e una rappresentazione dell’isola che ha privilegiato una parte della stessa senza riconoscere altrettanta dignità alle altre Sardegne, che pure esistono, e le cui storie, sistemi valoriali e culturali potrebbero essere di enorme aiuto in quel percorso di costruzione di una unità e di un destino collettivo che ancora è ben lungi dall’essere realizzato.

È innegabile infatti come il focus abbia costantemente privilegiato l’interno rispetto alle coste, le zone rurali rispetto a quelle urbane, il mondo agro-pastorale rispetto a quello minerario.

Il caso della Sardegna mineraria è, in questo senso, paradigmatico. Come è stato ricordato da Paolo Fadda (studioso e storico cagliaritano, ndr), nel riflettere sull’epopea mineraria sarda, è davvero incredibile come ancora oggi si continui ad avere una modesta, se non scarsa, valutazione su cosa abbia rappresentato per la Sardegna l’essere terra di miniere.

Spesso infatti la lettura è non dissimile da quella che viene data al processo di industrializzazione del Piano di Rinascita. Si pone (giustamente) l’accento su quanto sottratto, depauperato, inquinato mentre non si riconosce pienamente, con altrettanta determinazione, il valore di entrambe le esperienze.

Tralasciando, nel caso minerario, quanta civiltà europea (attraverso il lavoro operaio, la scienza giuridica, la tecnica, l’organizzazione) ci sia stata messa a disposizione e dimenticando importanti elementi simbolici che invece, a mio avviso, dovrebbero essere parte integrante del nostro immaginario collettivo. Penso per esempio al fragore del motore a scoppio della prima auto immatricolata nel 1903 in Sardegna (quello della Decauville 10HP del direttore della miniera di Buggerru) oppure alla luce della prima lampadina elettrica che illuminò una notte sarda (quella che si accese a Monteponi, prima località dell’isola ad essere elettrificata).

È vero che quelle miniere sono state chiuse, ma ancora oggi quel mondo è protagonista di alcune delle più importanti esperienze europee di recupero della memoria e della cultura mineraria, come testimoniato dal premio del paesaggio del Consiglio d’Europa assegnato nel 2011 alla Città di Carbonia per il progetto “Carbonia Landscape Machine”.

Nel pieno rispetto e riconoscimento del patrimonio culturale, storico e linguistico rappresentato dalla Sardegna “interna” dovremmo a mio avviso incominciare a superare tutte quelle barriere che limitano una piena presa di consapevolezza di tutte le altre Sardegne. Penso per esempio a quelle rappresentate dalle diverse comunità di pescatori delle nostre coste, dalle varianti linguistiche dell’open field cerealicolo campidanese, dalle città di fondazione (di epoca sabauda e di epoca fascista), dalla ricerca scientifica e dalle attività imprenditoriali.

In caso contrario il rischio più grande sarebbe quello di alimentare un identitarismo di maniera che spesso viene praticato sul piano politico e che potrebbe invece essere mitigato provando ad indicare possibili filoni di studio che ci accompagnino in questa contemporaneità.

Sicuramente quel focus di cui si è parlato anteriormente tenderà a spostarsi, già se ne vedono i segnali, dalle zone rurali a quelle urbane e dall’interno all’esterno. In particolare è ragionevole pensare che nel primo caso si concentrerà sulle nuove generazioni degli hinterland di Cagliari e Sassari e, nel secondo caso, sull’emigrazione liquida delle fasce più dinamiche della popolazione sarda che, pur lasciando l’isola, mantengono una relazione continua, fluida e diretta con il territorio e le reti sociali di origine.

Fabrizio Palazzari

 

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