Colpa e vergogna della/nella storia dei Sardi, di Mario e Salvatore Cubeddu
I momenti della storia sarda su cui normalmente concentriamo l’attenzione sono essenzialmente l’età nuragica, l’età giudicale, i moti antipiemontesi, l’unione perfetta e l’unità italiana, la prima guerra mondiale, la concessione e la pratica dell’autonomia.
Sull’analisi di tali momenti si fondano alcune considerazioni chiave per l’affermazione della nazionalità sarda: l’originalità del popolo sardo, l’esistenza di una Sardegna indipendente e quasi totalmente unificata, l’originarietà di una cultura sarda, lo stato di semicolonizzazione e di colonizzazione vera e propria in cui le varie dominazioni, ed in ultimo quella piemontese e quella italiana, hanno tenuto la Sardegna, l’esistenza di uno spirito indipendente e resistente che ha sempre spinto i sardi alla ribellione. In queste righe si riassume l’indice presente ad ogni militante sardo che riflette.
Ma, che ne è dei tempi intermedi?
Cosa provavano a Cornus il giorno – e i giorni dopo, e i mesi e gli anni – in cui Tito Manlio Torquato vi entrò trionfante (nel 215 a. C), vi ristabilì l’ordine romano e si confermarono gli interessi dei latifondisti e dei commercianti legati ai vincitori? Come fu elaborata dai Corniensi la prolungata punizione? Ovviamente non lo sappiamo, semplicemente perché la cosa non riguardava i vincitori, e lo scrittore Tito Livio tra di essi.
Noi, però, al tema siamo interessati, trattandosi – dopo la lunga guerra contro i Fenicio/ Punici – del primo esteso racconto della sottomissione (politica, economico-sociale, culturale, religiosa) del popolo sardo ad altri popoli. Vorremmo ipotizzare che la sottomissione dei Sardi a Roma dopo quella sconfitta abbia provocato la reazione delle (almeno dieci) rivolte successive e che la resa abbia trovato prostrati gli ultimi rivoltosi. Prostrati ma anche colpevolizzati? Sentimento di colpa per non esserne usciti vincitori, non avere fatto quanto possibile, per sentirsi definitivamente più deboli, e tra di loro ‘vergognosi’?
Esiste una vergogna personale e una vergogna sociale. La prima è quella di chi è convinto di avere in sé degli elementi fisici o morali inaccettabili dal suo prossimo, oppure compie degli atti, la cui vista e conoscenza ritiene intollerabile da parte di altri esseri umani
Esiste una vergogna di gruppi sociali nei confronti della società intera. In Sardegna ad esempio, era quasi istituzionalizzata in passato la figura de “su poberu brigunzosu”.
Esiste la vergogna collettiva di un popolo capace di determinare comportamenti di gruppi sociali interi? Castelfranchi: “La vergogna è un’emozione consistente nel timore o dispiacere che sia compromesso un nostro scopo della buona immagine o dell’autostima.” E’ possibile individuare nei sardi in generale la presenza degli atteggiamenti psicologici legati al sentimento della vergogna? Timidezza, silenzio, chiusura in se stessi, dedizione fanatica al lavoro per evitare il doloroso confronto sociale per il quale ci si ritiene inadeguati? Oppure al contrario un’ansia di protagonismo, un’esaltazione acritica di ciò che crediamo di essere?
La vergogna genera insicurezza profonda e costante. La gratificazione anche maggiore viene presto dimenticata e il senso di inadeguatezza, il sentimento di non essere degni continua. Anche nel momento di massimo riconoscimento, basta un nulla per sentirsi crollare il mondo addosso e ritrovarsi in un paesaggio di rovine.
Si possono individuare nella storia le radici di questa “vergogna”? Esiste una struttura mentale propria di popoli espropriati che si vergognano della propria condizione, temono di comparire sulla scena del mondo per evitare che si renda visibile la loro miseria?
E’ un discorso difficile. Anche lo stesso concetto di “sardo” con tutto ciò che implica, va storicizzato perché cambia nelle varie situazioni e momenti storici.
E’ curioso che nei documenti dell’età giudicale i Sardi vengano distinti dai sovrani, i Giudici. Eleonora d’Arborea stipula il trattato col Re d’Aragona insieme ai Sardi. Non dice i miei sudditi, dice “I sardi”. Questi provengono dal crogiolo in cui si fusero nel corso dell’Alto Medioevo le popolazioni dei vari “popoli” che avevano continuato a vivere accanto ai nuraghi anche dopo la conquista romana, le popolazioni di provenienza mediorientale e africana fuggite dalle città costiere, e tutti quelli che varie ragioni avevano portato in Sardegna dalla penisola italiana.
All’alba dell’Europa, intorno all’anno mille, la “nazione sarda” moderna compare sulla scena con propria lingua, costumi, istituzioni, struttura politica e sociale, riti e mentalità. Un popolo d’Europa come gli altri. Dobbiamo, possiamo immaginare che questo popolo non conoscesse la vergogna perché libero, e quindi felice? Non possiamo saperlo. Qualche elemento ci farebbe pensare il contrario: l’esponente della famiglia giudicale ricordato da John Day che lascia tutti i suoi beni al Comune di Pisa sembra essere il prototipo di quel sardo che teme ed evita anzitutto il contatto con i suoi fratelli e si getta invece con entusiasmo nelle braccia fintamente accoglienti del primo venuto.
Ma se c’erano ragioni da prima per nutrire sentimenti di vergogna, questi furono certamente accresciuti dalla crisi drammatica della società giudicale. Questa comportò dei fenomeni che è facile riscontrare nel passato delle moderne realtà coloniali, apparentemente finite, ma che continuano a lasciare strascichi pesanti. Mentre in Italia i conquistatori francesi e spagnoli che si impadronirono degli Stati della penisola non si sognarono di espropriare dei loro beni i milanesi, i napoletani o i siciliani, che infatti conservarono la loro lingua di cultura, l’italiano, che continuò ad essere usato universalmente nell’insegnamento, nei documenti ufficiali e nell’attività letteraria, in Sardegna avvenne quello che avvenne nelle colonie africane e americane: i conquistatori arrivano in una terra senza padrone in cui è lecito impadronirsi di tutto privando i popoli conquistati di una gerarchia sociale (i gruppi dirigenti sono i primi ad essere eliminati, vedi Mussolini che ordina di fucilare tutti i laureati etiopi o Stalin che fa massacrare migliaia di ufficiali polacchi), delle forme proprie di uso della terra, della lingua. L’imposizione del feudalesimo, la privatizzazione a proprio vantaggio di ciò che può essere utile al nobile e al mercante iberico, si accompagnano alla concessione in uso agli abitanti dei paesi della quantità di terreno in cui piantare la “vidazzone”, lo spazio vitale che deve procurare il grano e il pane. Che fine hanno fatto i proprietari di domus, terreni, abitazioni, attestati dai Condaghi? Con i termini che li designano, armentarios, majores, scompare la loro proprietà e il loro ruolo sociale. Tutti sono confusi nella massa indistinta dei vassalli. Il diritto di conquista è diritto di fare della terra tutto quello che si vuole.
La Sardegna contemporanea inizia con un grandioso ventennio rivoluzionario (1793 – 1812) nel corso del quale, però, contraddittoriamente, alcuni tra i capi delle masse divengono esponenti importanti della reazione. Avviene in tutte le rivoluzioni, si dirà. Ci vollero, però, più di cento anni per recuperare il diffuso senso dell’autonomia (1918 e seguenti) che, pure non senza intervalli servili, ha contrassegnato il secolo XX.
La generazione nata in Sardegna dopo la seconda guerra mondiale ha vissuto anch’essa molte battaglie, tante sconfitte, interruzioni e riprese, mancanza di fermezza e di coraggio, permanenti illusioni di protagonismo.
Ma è una generazione che sa e vuole fare i conti con ciò che succede, che è accaduto prima, e quello che è possibile che accada. Soprattutto: quanto è auspicabile da costruire nella / con la / per la propria terra. La Sardegna ed i Sardi.
Avere il coraggio di guardare la propria vicenda storica ‘negli occhi’ è condizione di coerenti scelte che richiedono lucidità, consapevolezza e coraggio.
Ci è già successo. Tutti i popoli hanno conosciuto tempi drammatici accompagnati da periodiche prosperità. La Sardegna ha costruito una grande civiltà nel tempo del bronzo che è stata battuta da quella del ferro. Quella che da poco ha avuto termine.