Le ragioni (e i problemi) dell’Università, di Gianni Mula

In un recente articolo apparso su Repubblica Umberto Eco ha elencato con chiarezza le ragioni per le quali la funzione delle università è ancora oggi più che mai rilevante. Ha ricordato che l’idea di università nacque naturalmente in un ambiente culturale come quello della fine del XI secolo, nel quale l’unico legame fra realtà diverse e in perenne competizione fra loro era rappresentato dalla lingua parlata dagli eruditi, il latino. Ha sottolineato il fatto che per tutti i nove secoli successivi le università hanno costituito il crogiuolo di un’identità internazionale ancor oggi viva e vitale. Ha soprattutto sostenuto, con l’esperienza di un protagonista del dibattito culturale, ma anche col distacco e la lucidità di uno storico disincantato, che la funzione di punto di riferimento e selezione delle informazioni, che solo le università possono assicurare, possa e debba permanere anche nella moderna società globalizzata nella quale le opinioni vengono formate sempre più dal web e sempre meno dai canali tradizionali.

Per sostenere questo punto di vista Eco ha usato una varietà di argomenti che vanno dal fatto che le università sono fra i pochi luoghi in cui è ancora possibile un confronto razionale fra diverse visioni del mondo (per cui l’università rappresenta da sempre un pericolo per ogni genere di dittatura) a quello che senza di esse finiremmo con l’avere una tale frammentazione della conoscenza che potrebbe portare a non distinguere un’Enciclopedia Unificata delle Scienze da un’Enciclopedia New Age, oppure da un’Enciclopedia Nazista o Astrologica: potremmo finire con l’avere, dice Eco, sette miliardi di lingue diverse, tra loro intraducibili. Argomenti a cui certo non fa giustizia la sintesi brutale che ne ho appena dato (il testo integrale è reperibile online anche sul sito di MicroMega) e che sono in generale condivisibili (o comunque da me condivisi). Ma che ignorano del tutto che già da più di mezzo secolo (dalla famosa Rede Lecture sulle Due Culture (1959) di C. P. Snow) leScience wars, gli scontri sulla (e nella) scienza, impediscono di fatto alle università di svolgere con qualche credibilità la funzione di riferimento e di garanzia che Eco identifica come giustificazione fondamentale della loro esistenza.

Ancora un paio di mesi fa, ad esempio, un neuroscienziato di Harvard, Steve Pinker, che i lettori di MicroMega ricorderanno per un suo dibattito col biologo Steven Rose su Mente, cervello e libero arbitrio (MicroMega 1/2006, pag. 59) si è rivolto agli umanisti, impancandosi a saggio al di sopra delle parti, per spiegar loro che la scienza non è loro nemica e che avrebbero molto da guadagnare imparando dagli scienziati come è fatto il nostro universo e come siamo fatti noi come specie umana. Le reazioni non sono state entusiastiche e lo storico Jackson Lears, della Rutgers University, lo ha accusato, a ragione a mio avviso, di aver citato, e attaccato con malizia, un suo lavoro senza neppure averlo letto. La reazione più significativa è stata quella del filosofo Gary Gutting che su The Stone, la rubrica di argomento filosofico del New York Times, ha ribattuto che in realtà sono gli scienziati che avrebbero molto da guadagnare dall’acquisire una cultura umanistica sufficiente per capire di che cosa si parla quando si affrontano gli aspetti etici, sociali e in generale filosofici connessi con le loro ricerche. Per Gutting, invece, gli umanisti che si sono occupati di scienza sono sempre stati tipicamente in possesso di tutti i requisiti necessari; addirittura il più grande storico e filosofo della scienza del secolo scorso, Thomas Kuhn, aveva cominciato come fisico, conseguendo il dottorato ad Harvard, prima di dedicarsi alla filosofia della scienza.

E’ chiaro che, in presenza di forti tensioni fra le discipline, cercare di formarsi un’opinione oggettiva su questioni interdisciplinari come il riscaldamento globale, o il da farsi riguardo all’attuale crisi economica, diventa una faccenda molto complessa. Poiché è sicuro che Eco conosce perfettamente queste problematiche viene naturale pensare che, con una finezza degna dell’autore de Il nome della Rosa, abbia in realtà voluto fare un’eulogia funebre anticipata per una morte non ancora certificata ma sicura. In altri termini l’università è stato bello averla sinché c’era, peccato che ora non ci siano più le condizioni, vediamo di farcene una ragione.

A prima vista c’è poco da obiettare a questa diagnosi infausta, a parte ricorrere a gesti apotropaici. Ma l’intera vicenda delle Science wars e della crisi della modernità richiede una riflessione di gran lunga più approfondita di quanto fatto sinora. Perché è vero che nell’attuale mondo globalizzato le università non godono più dello status privilegiato di cui godevano anche solo pochi decenni fa. È anche vero che tutti i governi (il caso italiano è solo un esempio particolarmente efferato di questo processo) hanno approfittato di questo indebolimento per ridurle sempre più a pezzi di un’attività industriale fra le tante, talmente simile alle altre da essere bisognosa anch’essa di ristrutturazioni in nome del profitto. Ma l’indebolimento è dovuto soprattutto a una ragione interna alle università: anzitutto ci è sembrato di poterci rinchiudere nella nostra torre d’avorio, dimenticandoci che le torri d’avorio non esistono, e, come Julian Benda nel 1927, abbiamo amaramente scoperto che il sapere accademico non conferisce alcuna immunità e gli accademici sono corrompibili come tutti. Ma soprattutto questa nuova trahison des clercs si caratterizza per la sua natura di caso esemplare di incapacità collettiva di affrontare l’ignoto. Perché in questo caso tradire ha significato optare per la scelta intellettualmente imbelle, anche se quasi unanime, di rimanere ancorati alla convinzione che il metodo scientifico che ci aveva portato ai grandi successi della Rivoluzione Scientifica (qualunque cosa si intenda con questo termine) ci avrebbe consentito automaticamente di affrontare anche lo studio di sistemi realmente complessi. Con la sicurezza che alla fine, almeno in linea di principio, avremmo ottenuto la risposta (sottinteso unica, quindi giusta e vera) alle nostre domande. E che proprio questa univocità dei risultati costituisse qualcosa di essenziale, il marchio di garanzia dell’operare scientifico.

Fortunatamente la natura si rifiuta di farsi imprigionare dalle nostre illusioni. Noi non abbiamo affatto scoperto le leggi universali del funzionamento della natura, ci siamo solo illusi di averle scoperte. Ogni volta gli approfondimenti successivi ci hanno portato a renderci conto che avevamo scoperto idealizzazioni matematicamente molto convenienti ma che avevano limiti di validità molto precisi. E ogni volta di nuovo abbiamo sperato di trovare in altre idealizzazioni la chiave di volta di una comprensione unitaria dell’universo, e sempre siamo rimasti delusi, sino a quando, soprattutto dopo la scoperta dei meccanismi microscopici delle transizioni di fase, ci siamo finalmente resi conto che i problemi non derivavano che dalla nostra ossessione per un’unica teoria capace di spiegare, in linea di principio, tutti i fenomeni. E che era di gran lunga preferibile far riferimento, anziché a un’unica (sempre fantomatica) teoria vera, a un insieme di idealizzazioni, ciascuna col suo ben definito campo di applicabilità, meccanica classica, elettromagnetismo, termodinamica, meccanica quantistica, eccetera. Questa scoperta non ha comportato alcun cambiamento nelle equazioni della fisica ma ci ha dato il grande vantaggio di poter scegliere il punto di vista di volta in volta più conveniente (o più illuminante) nello studio di problemi di particolare difficoltà. E di questa flessibilità la fisica fa oggi ampio uso nell’estendersi con successo allo studio di problemi ben al di fuori dei suoi campi tradizionali quali ad esempio l’econofisica o le reti sociali.

Questa descrizione dello status epistemologico della fisica teorica potrebbe tranquillamente valere anche per il complesso delle discipline insegnate all’università. Di fatto, ad esempio, vale anche per la matematica dopo la scoperta dei teoremi di Gödel. Di fronte alla dimostrazione dell’impossibilità di fondare la matematica sulla logica, la matematica come scienza ha continuato a svilupparsi senza problemi, anzi qualcuno, Abraham Robinson, ha interpretato i teoremi di Gödel come il permesso di scegliere liberamente gli assiomi in ogni campo di interesse specifico. Robinson ha così fondato una nuova teoria che si chiama analisi non standard, una teoria che incorpora tutti i risultati dell’analisi normale ma è molto più semplice e intuitiva, ad es. nel campo delle tecniche di integrazione. Anche nel campo dei fondamenti le cose sono continuate come prima, con vivaci discussioni tra le varie specie di formalisti, intuizionisti, costruttivisti, platonisti eccetera, ma si è trattato e si tratta di metamatematica, cioè di discussioni sulla matematica, non di fare matematica. Per un esempio significativo delle attuali discussioni si consulti il recente lavoro di rassegna di due matematici israeliani, Karin Usadi Katz e Mikhail G. Katz, “Meaning in classical mathematics: Is it at odds with intuizionism?” (Intellectica56 (2): 223–302, 2011-arXiv:1110.5456) che mostra l’ampiezza (e talvolta l’acrimonia) delle divergenze esistenti tra le varie scuole assieme al fatto che, in fondo, si tratta sempre di divergenze di interpretazione sull’importanza relativa delle varie scoperte ma che non se ne mette mai in discussione la riconoscibilità come seri lavori matematici.

Purtroppo la concordia discorde che caratterizza le ricerche contemporanee in matematica e fisica non si estende né alle scienze economiche o politiche né, soprattutto, alla filosofia. In questi campi le contese non solo sono aspre perfino sul piano personale, cosa che non sarebbe una novità rispetto alla fisica o alla matematica, ma arrivano a contestare la significatività scientifica delle posizioni alternative. Poiché i titoli delle altre discipline per porsi come detentrici dell’Assoluto sono perfino inferiori a quelli, comunque chiaramente insufficienti, della matematica e della fisica, non rimane che interpretare questa condizione accademica, caratteristica della modernità, come dovuta a un inconfessato atteggiamento fideistico di fondo. In altri termini vien da pensare che avesse ragione Ivan Illich (Pervertimento del Cristianesimo: Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità, Quodlibet 2012), quando diceva che la modernità non è nata in opposizione al cristianesimo, come sostiene la vulgata illuministica alla quale facciamo di norma riferimento, ma come sua massima realizzazione. Peccato, aggiungeva, che ciò che di fatto si è realizzato nella modernità non è il cristianesimo dei vangeli ma il suo pervertimento. E questo perché la buona notizia annunciata dai vangeli, la liberazione dalla schiavitù dei formalismi della legge, è degenerata in quella sua caricatura che è l’alienazione della vita moderna, una vita senza speranza, di nuovo segnata dalla perpetua paura di sbagliare.

Ma questa è materia per una prossima riflessione.

Domenica 13 Ottobre,2013 Ore: 20:53

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