Donne e uomini della Sardegna nelle immagini inedite di Fiorenzo Serra, di Federico Francioni
Un cineconcerto al Teatro comunale di Sassari. Il viso di una donna che accenna un sorriso e infine si ricompone in un’espressione seria, se non enigmatica. Un ragazzo corre, inerpicandosi sull’erta di un colle e chiama un giovane che se ne sta sulla cima (una sequenza che richiama quella finale di Su re, il coraggioso film di Giovanni Columbu sulla passione di Cristo, che si conclude con un gruppo di bambini che si arrampicano su un pendio: insomma, la vita che continua e ci spinge a coltivare una speranza fattiva). Con quelle di pastori, pescatori ed artigiani sono alcune tra le immagini più suggestive del materiale girato intorno al 1947 – in 16 mm. – dal regista cinematografico Fiorenzo Serra.
Marco Antonio Pani ha curato con maestria il montaggio delle riprese inedite effettuate da Serra e le ha fatte diventare un film di circa 50 minuti, proiettato mercoledì 25 settembre al Teatro comunale di Sassari di fronte ad un pubblico folto ed attento. Si è trattato di un cineconcerto, perché la proiezione si è avvalsa della colonna sonora che Paolo Fresu (tromba, filicorno ed effetti speciali) ha ideato ed eseguito dal vivo, accompagnato da Bebo Ferra (chitarre), Gavino Murgia (sassofoni e voce) e da Alborada Sting Quartet con Anton Berovski, Sonia Peana, Nico Ciricugno, Piero Salvatori. Alla fine tanti, convinti applausi per il film e per la musica.
Da Il grande flagello a L’ultimo pugno di terra. Nato a Porto Torres nel 1921, dopo gli studi nel Liceo scientifico “Giovanni Spano” di Sassari, Serra si iscrive all’Università di Firenze, dove stringe amicizia con Antonio Simon Mossa – futuro architetto, nonché leader sardista ed indipendentista – che già in quegli anni mostra quel dinamismo e quelle doti che faranno di lui un intellettuale poliedrico. Insieme affrontano il loro “viaggio attraverso il fascismo” – per ricordare, almeno parzialmente, il titolo di un libro di Ruggero Zangrandi (diventato un classico) – nelle organizzazione di massa (ed in particolare nel Cineguf), grazie ad una coscienza già critica verso il regime. Fra il 1939 e l’anno successivo, essi lavorano con entusiasmo alle sceneggiature de L’armata grigia sugli spazzini di Firenze e de La barca sul fiume sui renaioli dell’Arno (di cui rimangono diversi fotogrammi, com’è documentato da ”Filmpraxis. Quaderni della cineteca sarda”, n. 3, dicembre 1996, numero monografico su “Fiorenzo Serra regista”, a cura di Gianni Olla). Nelle sale i due giovani sardi si erano autonomamente formati al realismo, vedendo i film dei francesi Carné, Duvivier e Renoir: in questo modo erano già approdati ad una sorta di neorealismo per certi versi d’avanguardia. Simon però abbandonerà il cinema – per dedicarsi alla professione di architetto ed alla politica – dopo essere stato aiuto-regista di Augusto Genina: fra le sue opere ricordiamo Miss Europa del 1930, Squadrone bianco del ’36, L’assedio dell’Alcazar del ’40, Bengasi del ’42. Nei titoli di testa di quest’ultimo compare il nome di Simon: era stata, pare, sua madre, Anita Mossa, ad avvicinare Genina (in vacanza a Forte dei Marmi) pregandolo di coinvolgere il figlio nella cinematografia.
Invece per Serra l’esperienza fiorentina segna l’inizio di un lungo percorso: nel 1945 realizza Il grande flagello sull’invasione delle cavallette, la biblica piaga che colpisce in quell’anno la Sardegna. Passione e professionalità si intrecciano e stimolano un’intensa attività che porterà il regista sardo a vincere, nel 1966, il Festival dei popoli con L’ultimo pugno di terra, la sua opera più significativa e matura.
Miseria e dignità di un popolo. Si è fatto riferimento ad immagini suggestive che abbiamo visto al Teatro comunale. Colpiscono in primo luogo i visi di donne, su cui la cinepresa di Serra si sofferma di frequente: una tessitrice è di fronte al telaio; dal movimento delle sue labbra si evince: “Questo è il mio lavoro”, oppure: “Adesso mi metto al lavoro”. La vestizione di una donna col costume tradizionale di Desulo; volti che esprimono dignità. Nessun compiacimento da parte del regista, assenza di deteriore folklorismo, ma vivo senso di partecipazione, volontà di leggere, di decodificare, di capire una realtà non monolitica, ma composita. Il suo sguardo riesce a cogliere una continuità che attraversa sia le vie dei paesi dell’interno, così come la muraglia di Alghero e Carrera longa (via Lamarmora) a Sassari: in tutti questi ambiti vediamo scorrazzare bambini e bambine a piedi nudi; mentre le donne allattano i piccoli che strizzano loro il seno, le galline fuoriescono da cunicoli, cortili e sottani. Serra ci mostra una povertà anche estrema che tuttavia non è sordida, non diventa degrado o disperazione (penso invece a Las Hurdes, il documentario girato da Luis Buñuel nel 1932). Insomma una miseria nella quale il popolo sardo riesce a conservare la dignità. Del resto, fatte salve le indubbie differenze geografico-storiche, socio ambientali e linguistiche, non erano molto diverse da quelle isolane le condizioni materiali di vita dei borgatari romani di pasoliniana memoria.
Serra però sa benissimo che la sua terra non è fatta solo di ruralità – da cui non riescono a staccarsi tanti studiosi, scrittori, osservatori e viaggiatori (fin dall’Ottocento) – ed eccolo filmare i borghesi di Sassari intenti a sorbire il Campari Soda. La moda dell’aperitivo prima del pranzo, nella Sassari dell’immediato dopoguerra, era stato introdotta, fra gli altri, dall’ammiraglio americano Ellery Stone, unitosi in matrimonio ad una delle nobildonne della famiglia Sant’Elia; un rito che non poteva non provocare qualche lazzo, tipico dello spirito acre e corrosivo dei miei concittadini.
Ha detto bene Manlio Brigaglia: mai si troverà nella produzione di Serra – attento anche alla dimensione urbana – una coscienza scissa, infelice, tanto meno uno sguardo paternalista verso il mondo agropastorale: una visione, una logica, quest’ultima, ben solida a Sassari, che affonda le sue radici in sedimentazioni secolari; in incrostazioni, cioè, derivanti anche da quegli Statuti sassaresi, notevole monumento giuridico, certo, nella storia di un Comune (prima “pazionato” con la Repubblica di Pisa, quindi con quella di Genova) che però definisce furisteri sardu colui che vive oltre la cinta muraria. Ve l’immaginate? Si è arrivati al punto di vedere nel sardo un forestiero, s’istràngiu, quasi che la nostra città non facesse parte della geografia dell’isola! Eppure la mentalità dominante è stata a lungo quella.
Sicuramente il materiale di Serra e l’efficace montaggio di Pani sono espressione di due livelli ben diversi e ben distinti: ma come non vedere in certe riprese di Serra, rimaste inedite, sparse, frammentarie, non connesse, quegli elementi di poesia e di lirismo che poi troveremo ne L’ultimo pugno di terra? Per esempio nel soffermarsi della sua macchina da presa sul muso degli agnelli, sulle loro corse che sembrano quasi una danza, su uomini, donne e bambini che – accostandosi ai piedi enormi della statua del Redentore a Nuoro – ne baciano le dita con umiltà (ed anche con curiosità).
Le categorie teoriche degli intellettualmente pigri. Arcaicità, e tradizione, da una parte, modernità dall’altra, insomma una Sardegna scissa e irrisolta. Categorie come queste ci sembrano tipiche degli intellettualmente pigri. Ne siamo convinti: lo sguardo di Serra invece è unitario, capace di mostrare conflitti e contraddizioni, il mondo rurale e quello urbano con lo stesso spirito di empatia che non diventa mai superficiale identificazione, ma aiuta l’approccio critico per costruire una Sardegna diversa.
Il giorno seguente alla proiezione del film montato da Pani si è svolta la semplice cerimonia che ha accompagnato nel camposanto di Oschiri il filosofo ed antropologo Placido Cherchi. Egli era stato alla scuola di Ernesto De Martino nell’Università di Cagliari ed aveva collaborato alle ricerche sul campo in Sardegna con Clara Gallini: alla studiosa dei rituali per la guarigione dal morso dell’argia Serra aveva fatto ricorso per la consulenza etnologica ed il commento a La novena, un film a colori, realizzato nel 1969, sulle “feste lunghe” nei santuari campestri della Barbagia. Avremo modo di tornare su Cherchi e sulla sua concezione filosofico-antropologica che – unitamente all’etnoantropologia visuale di Serra – ci appare assai ricca di insegnamenti da tesaurizzare, se non vogliamo, s’intende, limitarci a ripetere la deprimente solfa di un’isola che deve essere semplicemente modernizzata. Che poi vuol dire colonizzata o comunque sottoposta ai meccanismi della dipendenza dai monopoli capitalistico-industriali esterni (ieri la Sir di Nino Rovelli, oggi la cosiddetta “chimica verde” dell’Eni e di Matrìca), efficacemente coadiuvati da oligarchie di theracos locali.