La fine del leader carismatico, di Marcello Sorgi

La fine del leader carismatico

marcello sorgi

 

LA STAMPA 03/10/2013

 

Per la prima volta negli ultimi vent’anni, la crisi di governo è stata evitata, non grazie, o malgrado, Berlusconi: ma nell’assoluta indifferenza a quel che il Cavaliere ha fatto o non ha fatto, nella spirale nevrotica che per giorni e giorni gli aveva fatto cambiare posizione almeno una decina di volte. In una giornata parlamentare convulsa, e a suo modo storica, il fatto che alla fine, nella sorpresa generale, il leader del centrodestra, impietrito, abbia annunciato personalmente al Senato che avrebbe votato la fiducia (anche se sabato aveva fatto dimettere i suoi ministri e poco prima aveva chiesto ai suoi senatori di sfiduciare il governo) non ha influito sull’esito finale della complicata partita giocata in questi giorni.

 

Esito che era già deciso da quando, nella notte tra martedì e ieri, i dissidenti del Pdl avevano annunciato che non avrebbero abbandonato il governo, potendo contare sull’appoggio di un gruppo di parlamentari sufficiente a garantire una nuova maggioranza a Palazzo Madama.

 

Così l’uomo simbolo della Seconda Repubblica, il perno di ogni passaggio politico del ventennio, il leader che era sempre riuscito a condizionare in modo determinante, non solo la sua parte, ma anche quella avversaria, è diventato tutt’insieme superfluo. Berlusconi non credeva a se stesso e ha impiegato alcune ore a rendersi conto di quel che era successo. Poi, quando ha capito, s’è rassegnato a essere aggiuntivo, e votare per il governo, pur di non assistere alla spaccatura formale del suo partito. La leadership carismatica che fino a lunedì sera gli aveva consentito di evitare bruscamente ogni forma di dibattito interno s’è disciolta all’improvviso. Finita in un attimo. Giustiziata in un falò di insulti e prese in giro sui forum telematici degli elettori del centrodestra: disorientati, a dir poco, dall’incomprensibile confusione con cui Berlusconi ha condotto il suo tentativo fallito di far cadere il governo.

 

Adesso tutti pensano che insieme alla nuova maggioranza – nei numeri quasi uguale alla precedente, ma ancorata all’accordo tra il premier e la parte più responsabile del centrodestra – sia nato un nuovo leader, nella persona del vicepresidente del Consiglio. E non c’è dubbio che Angelino Alfano abbia giocato un ruolo centrale in tutto l’andamento della crisi, rifiutandosi fin dal primo momento di provocare una scissione nel Pdl, cercando fino all’ultimo di persuadere il Cavaliere a tornare sui suoi passi, e riuscendoci, non solo grazie alla sua capacità di convinzione, ma al consenso che nel frattempo si era guadagnato nei gruppi parlamentari, tra i senatori e i deputati pronti, mai visto prima, a disobbedire a Berlusconi. Alfano, a cui in passato i suoi avevano sempre rimproverato una certa carenza di coraggio, e il Cavaliere, con una battuta famosa, la «mancanza di un quid», stavolta ha mostrato i muscoli. Ha detto di sentirsi «diversamente berlusconiano», anche se non è ancora chiaro come sarà veramente.

 

Al di là delle contorsioni e della crisi di una leadership logorata da tempo – malgrado il forte seguito elettorale, le grida di «Silvio, Silvio!» e la partecipazione emotiva della gente alle sue vicende personali – quel che è accaduto in questi giorni, e culminato nella spettacolare giornata di ieri, era già scritto nelle premesse della nascita delle larghe intese. Non la pacificazione, che Berlusconi immaginava a torto come la fine dei suoi guai, e tutte le sue ultime mosse hanno contribuito a impedire. Piuttosto, la nascita, benedetta da Napolitano, di un asse d’emergenza, rivelatosi inossidabile, tra Letta e Alfano, i dioscuri del governo. E di una tregua, si vedrà quanto solida, tra Letta e Renzi, l’unico che poteva contendergli la guida del governo e ora ha deciso di puntare sul Pd e di aspettare il prossimo turno.

 

Dove porterà un passaggio di questa portata, solo apparentemente improvviso e sorprendente, è presto per dirlo. Tra l’altro, siamo di fronte al compimento di un ricambio generazionale, con tutti i contraccolpi che è logico attendersi. Può darsi che all’uscita della crisi economica, e alla fine di una legislatura che a questo punto ha guadagnato almeno un anno di vita, assisteremo di nuovo a una competizione tra un centrodestra e un centrosinistra profondamente mutati e divenuti più simili a quelli che si confrontano nei maggiori Paesi europei. Ma è inutile nascondersi che la tradizione italiana, oltre che le radici da cui provengono Letta, Alfano e Renzi, i protagonisti della nuova fase, avranno il loro peso. In altre parole è possibile, forse più che probabile, e temibile secondo i punti di vista, che nella Terza Repubblica moriremo democristiani.

 

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