I predatori dell’Università perduta, di Gianni Mula

“Con quasi un mese di anticipo rispetto a quanto previsto dal Decreto Ministeriale, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) ha presentato i risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca italiana (Vqr) per il settennio 2004-2010. Si tratta del più grande esercizio di valutazione della ricerca nel suo genere mai realizzato a livello internazionale. La Vqr ha confrontato la qualità della ricerca di 133 strutture all’interno delle 14 aree scientifiche definite dal Consiglio Universitario Nazionale … Per realizzare la Vqr, che è iniziata a novembre 2011 ed è durata appena 20 mesi, l’ANVUR ha arruolato 450 esperti riuniti in 14 Gruppi di esperti della Valutazione (GEV) individuati con un rigoroso processo di selezione, che considerava produttività ed eccellenza scientifica, oltre che esperienza nazionale e internazionale in attività di valutazione”.
La presentazione di cui si parla nel comunicato stampa su riportato è appena stata fatta e già si assiste a un fiorire di articoli che, dopo un doveroso compiacimento che sia stata finalmente introdotta in Italia la cultura della valutazione, constatano con dispiacere che molte cose non vanno nell’università italiana e che è urgente porvi riparo. Poiché il tema è importante rinvio per maggiori approfondimenti a siti specializzati come www.roars.it e il blog di Francesco Sylos Labini sul Fatto Quotidiano. Vorrei tuttavia analizzare subito l’eccezionalmente interessante articolo (Repubblica 17 luglio) di Tito Boeri, che in quanto economista che insegna in una famosa università privata (è un bocconiano), è certamente privo di fastidiosi pregiudizi sulle università pubbliche.
Boeri parte dalla constatazione, basata sui risultati della Vqr, che solo un terzo dell’università italiana si avvicina a standard di ricerca internazionali e osserva che la ricerca di qualità è sparsa a macchia di leopardo (i punteggi migliori nell’ambito della stessa disciplina possono essere anche 46 volte superiori ai peggiori). La causa di queste differenze sarebbe da attribuirsi alla presenza “di uno zoccolo di persone che non fanno ricerca al di sopra di standard minimi”. In effetti già a queste prime osservazioni qualunque fisico schizzerebbe dalla sedia perché uno schema di valutazione della qualità che generi differenze di punteggio dell’ordine di grandezza indicato fa evidentemente uso di tecniche di analisi e unità di misura degli standard di ricerca del tutto inadeguate. Sarebbe come misurare la qualità di un’esibizione musicale sulla base dell’intensità sonora risultante. Ma i fisici, si sa, non sanno essere sobri come i bocconiani, e magari avrebbero qualcosa da obiettare anche sulle frasi della parte finale dell’articolo che raccontano di “istituzioni ormai lontane anni luce dalla frontiera della ricerca” e di “distanze cosmiche che separano tra di loro i diversi atenei e i diversi dipartimenti al loro interno”.
Boeri continua con riflessioni preoccupate sull’alta percentuale di docenti che, evidentemente inconsapevoli della tendenza del capitale umano a deprezzarsi rapidamente, sono totalmente o parzialmente inattivi nella ricerca perché si limitano all’insegnamento o a ruoli manageriali. Una quota molto alta, sentenzia il Nostro, che “È un lusso che non ci possiamo permettere”, perché, sotto il comodo pretesto di svolgere un’attività di formazione culturale degli studenti che non può essere misurata da ciò che viene chiamato “prodotti della ricerca”, consente a troppi docenti di sottrarsi, nei fatti, a una valutazione oggettiva della propria produttività. Qui si potrebbe osservare che vedere l’intera cultura, scientifica e umanistica, unicamente alla luce del profitto ricorda il famoso aforisma di Goebbels “Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”. In entrambi i casi, infatti, il problema è mettere in condizioni di non nuocere coloro che rivendicano per la formazione culturale il dovere di educare al pensiero autonomo. Ma sarebbero giudizi ingenerosi che mostrano unicamente un pregiudizio nei confronti di Boeri.
Anche perché quello che Boeri scrive subito dopo è assolutamente vero, tanto che vale la pena di riportarlo per esteso: “Oggi l’università pubblica italiana è alla canna del gas. Ha assistito impotente ad una costante riduzione dei fondi ad essa destinati. In termini nominali, il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo), quello che serve a pagare il personale delle università pubbliche, ha perso quasi un miliardo dal 2009 al 2013. un calo di più del 10 per cento rispetto alla dotazione iniziale. La ricerca universitaria è messa ancora peggio, forse perché viene considerata un “bene di lusso”, il termine utilizzato da De Gasperi per giustificare le altre priorità dello Stato italiano nel dopoguerra, anziché un investimento strategico. Basti pensare che l’ultimo bando per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin), il principale programma italiano di finanziamento della ricerca di base, distribuirà in tutto 39 milioni, a fronte dei 175 del bando precedente. Per dare un’idea di cosa significhi questa cifra. basti pensare che un finanziamento dello European Research Council per un singolo progetto-ricercatore mediamente vale più un milione e mezzo di euro. Come dire che coi soldi del Prin si possono finanziare meno di 26 progetti di ricerca in tutta l’università italiana!”
Dopo quest’analisi impeccabile Boeri riprende con affermazioni davvero originali che prescindono dal farsi domande ovvie sulle ragioni di questa drammatica riduzione di finanziamenti (che lui dettaglia dal 2009 a oggi, ma che è iniziata da almeno dieci anni prima) e sulle sue conseguenze sul funzionamento dell’università. Il Nostro afferma infatti che “alla luce dei dati raccolti dalla Vqr, le generiche e reiterate richieste di fondi da parte dei Rettori appaiono immotivate, se non accompagnate da un deciso cambiamento di rotta”. Come dire che se alla luce delle risultanze cronometriche le prestazioni degli atleti probabili olimpici risultassero (per l’inadeguato allenamento dovuto alla chiusura semipermanente per mancanza di personale di quasi tutti gli impianti di atletica) insufficienti, eventuali richieste di fondi per gli impianti da parte dei presidenti delle società sportive sarebbero comunque da respingere perché generiche (ancorché fastidiosamente reiterate) e non invece ancorate a decisi cambiamenti nelle tecniche di allenamento. Logica straordinaria quella di Boeri, probabilmente molto vicina a quella che ha ispirato la scelta dei 450 esperti di valutazione, individuati dall’ANVUR “con un rigoroso processo di selezione, che considerava produttività ed eccellenza scientifica, oltre che esperienza nazionale e internazionale in attività di valutazione”.
Poi Boeri dà sfogo alle sue sinora nascoste doti liriche e con un volo pindarico assolutamente straordinario auspica per l’Italia “un processo di distruzione creativa, che sostenga i punti di eccellenza”. Processo di distruzione creativa: questo si chiama parlar chiaro e fare proposte non generiche. I Rettori delle università statali italiane dovrebbero prendere lezioni da Boeri ed essere similmente chiari e motivati nelle loro proposte. Soprattutto dovrebbero seguire il suo suggerimento, e accettare, anzi richiedere, mostrando finalmente coraggio, che il Fondo di funzionamento ordinario (Ffo) dell’università venga ripartito con una quota dal 30 fino al 50 per cento attribuita in base ai risultati della valutazione della ricerca. Geniale, non c’è altro da dire. Con un Ffo già gravemente insufficiente si propone di tagliarlo ulteriormente per lasciare solo le briciole a quei nullafacenti che, anziché concentrarsi sui “prodotti della ricerca”, osino persistere nel voler comprare libri per le biblioteche o strumenti didattici per gli studenti o, Dio non voglia, andare a congressi scientifici. Anche perché concentrando le risorse sui pochi ricercatori validi sarebbe possibile “fare grandissimi passi in avanti, senza dover impegnare anche un solo euro in più”. È pertanto giustissimo auspicare che si “condanni ad essere università di puro insegnamento le realtà in cui per anni, coerentemente, si è scelta solo la strada di perpetuare le gerarchie accademiche a carico dei contribuenti e sulla pelle degli studenti”. Splendido questo linguaggio, incomparabilmente efficace nello stimolare i ricercatori ad evitare, a tutti i costi, di essere condannati a quella specie di Gehenna che dev’essere, nella mente di Boeri, la realtà dequalificata di università di puro insegnamento (per lui il puro insegnamento dev’essere qualcosa di simile ai lavori forzati).
Certo sono stati i dettami dell’economia mainstream, di cui Boeri fa parte, a ridurre l’Italia nella condizione attuale. Però, visto il successo della Vqr, non si capisce perché il governo non pensi di superare la crisi economica affidando urgentemente all’ANVUR il compito di preparare una Valutazione di Qualità per le imprese che stabilisca, in maniera assolutamente oggettiva e meritocratica, quali imprese debbano sopravvivere e quali no, e quindi quali lavoratori possano continuare a lavorare e quali invece siano da destinare a un accattonaggio opportunamente regolato. Sarebbe davvero la soluzione di tutti problemi!
Per comodità di chi, visto il tono di questo post, dubiti che io mi sia preso delle libertà col testo di Boeri, lo riporto qui di seguito.
Buona lettura!
Gianni Mula


Scritto da Tito Boeri – La Repubblica – Mercoledì 17 Luglio 2013

La ricerca perduta delle Università

C’è un terzo dell’università italiana che si avvicina a standard di ricerca internazionali, con alcuni punti di eccellenza. Soprattutto nella scienze dure, quelle che si basano maggiormente suI’utilizzo di dati sperimentali. La ricerca di qualità è sparsa un po’ a macchia di leopardo, affiora anche in atenei deboli su altri fronti, al Nord come al Sud. Le differenze nell’ambito della stessa disciplina sono macroscopiche: il 20 per cento di istituzioni migliori ha, come nel caso dell’ingegneria industriale, punteggi fino a 46 volte superiori a quelli del 20 per cento di istituzioni peggiori. I livelli medi sono abbassati dalla presenza di uno zoccolo di persone che non fanno ricerca al di sopra di standard minimi, il che significa che ci sono ampi margini di miglioramento nel turnover del corpo accademico.

Questi i principali rilievi che vengono ad una prima lettura dell’enorme mole di dati prodotta nell’ambito della valutazione della qualità della ricerca, (Vqr), presentata ieri a Roma, un’impresa titanica completata, cosa rara in Italia, nei tempi prefissati. Nel giro di un anno e mezzo sono stati valutati più di 180.000 lavori di ricerca da parte di circa 15.000 revisori, un terzo dei quali stranieri.

Preoccupa la quota di docenti totalmente o parzialmente inattivi nella ricerca. Non saranno tutti dei fannulloni: probabilmente molti di loro insegnano e alcuni hanno magari funzioni manageriali all’interno dell’università e forniscono servizi a chi la ricerca la fa davvero. Ma anche se così fosse, questi incarichi non dovrebbero mai allontanarli del tutto dalla ricerca. Dovrebbero essere occupati a rotazione, imponendo termini veri e non solo sulla carta ai mandati, anziché essere gestiti come posizioni di potere. Dato che il capitale umano si deprezza rapidamente, anche chi ha incarichi gestionali dovrebbe, nel limite del possibile, continuare a studiare e produrre ricerca. Quel 7 per cento di docenti universitari che non ha pubblicato un saggio degno di questo nome (o depositato un brevetto) che sia uno nel giro di 7 anni, oppure che ha presentato meno lavori di quelli potenzialmente ammessi alla valutazione, non dovrebbe perciò proprio esistere nell’università italiana. ln alcuni dipartimenti (del Cnr, di Napoli Orientale e della Cattolica a Milano) si arriva oltre al 30 per cento di inattivi, un’enormità. Forse il merito maggiore della Vqr è stato proprio quello di far uscire allo scoperto questa massa di persone che nell’università italiana non danno alcun contributo di qualità alla ricerca. È un lusso che non ci possiamo permettere.

Oggi l’università pubblica italiana è alla canna del gas. Ha assistito impotente ad una costante riduzione dei fondi ad essa destinati. In termini nominali, il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo), quello che serve a pagare il personale delle università pubbliche, ha perso quasi un miliardo dal 2009 al 2013. un calo di più del 10 per cento rispetto alla dotazione iniziale. La ricerca universitaria è messa ancora peggio, forse perché viene considerata un “bene di lusso”, il termine utilizzato da De Gasperi per giustificare le altre priorità dello Stato italiano nel dopoguerra, anziché un investimento strategico. Basti pensare che l’ultimo bando per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin), il principale programma italiano di finanziamento della ricerca di base, distribuirà in tutto 39 milioni, a fronte dei 175 del bando precedente. Per dare un’idea di cosa significhi questa cifra. basti pensare che un finanziamento dello European Research Council per un singolo progetto-ricercatore mediamente vale più un milione e mezzo di euro. Come dire che coi soldi del Prin si possono finanziare meno di 26 progetti di ricerca in tutta l’università italiana!

Eppure, alla luce dei dati raccolti dalla Vqr, le generiche e reiterate richieste di fondi da parte dei Rettori appaiono immotivate. se non accompagnate da un deciso cambiamento di rotta. Per rivitalizzare la ricerca in Italia ci deve essere un processo di distruzione creativa, che sostenga in punti di eccellenza, cerchi di offrire opportunità di miglioramento alle realtà che si sforzano di avvicinarsi alle frontiere della ricerca e invece condanni ad essere università di puro insegnamento le realtà in cui per anni. coerentemente. si è scelto solo la strada di perpetuare le gerarchie accademiche nel corso del tempo. a carico dei contribuenti e sulla pelle degli studenti.

Perché questa distruzione creativa abbia luogo bisogna affidarsi agli incentivi. I controlli dal centro sono del tutto controproducenti perché creano solo burocrazia e regole destinate ad essere aggirate ancor prima di entrare in vigore. I fondi del Ffo dovrebbero essere destinati alle varie unità proprio in base ai risultati della Vqr, come avviene in Inghilterra nell’ambito del Research Evaluation Framework (Ref). Se cosi fosse. ecco che tutte le università, per sopravvivere, si sforzerebbero di migliorare la qualità media della ricerca. un obiettivo, come si è detto. tutt’altro che irraggiungibile. Bene dunque ha fatto ieri il ministro Carrozza a sostenere che il Vqr verrà utilizzato con questa finalità. non rimarrà lettera morta come la precedente valutazione. Il meccanismo per legare i finanziamenti ai risultati nella ricerca è ormai avviato.

La valutazione ha mostrato. tra l’altro. che gli indicatori che contano e pesano le pubblicazioni in base al loro impatto sulla comunità scientifica sono coerenti con i giudizi più qualitativi offerti dai revisori esterni. Quindi in futuro, anche per ridurre i tempi e i costi delle valutazioni, ci si potrà basare maggiormente su indicatori bibliometrici.

Legando finanziamenti a risultati. potremo un domani fare a meno di un ministero dell’Università e avere invece un ministero più piccolo, interamente dedicato alla ricerca. non solo accademica. Ma non basterà a cambiare davvero l’università italiana l’attribuzione in base al merito di una modesta quota del Ffo (il 7% o ancora meno. data la presenza di clausole di salvaguardia).

Anche se servisse a qualcosa, i miglioramenti sarebbero comunque troppo lenti per allontanare il nostro paese dal declino cui sembra oggi inesorabilmente destinato. Ci vuole molto più coraggio. con una quota che parta dal 30 per cento per arrivare fino al 50 per cento dei finanziamenti all’università attribuita in base ai risultati della valutazione della ricerca.

Un meccanismo di questo tipo spingerebbe gli atenei ad accelerare il ricambio in un corpo docente, che continua a invecchiare e in cui c’è una netta cesura generazionale nei profili di ricerca: in molti casi solo chi appartiene alle giovani generazioni svolge ricerca di qualità. Le istituzioni ormai lontane anni luce dalla frontiera della ricerca dovranno invece convertirsi a università di puro insegnamento, magari a stretto contatto con le imprese, nell’ambito di quella formazione tecnica avanzata. post-secondaria, di cui tanto abbiamo bisogno per ridurre la disoccupazione giovanile.

L’università italiana ha grandi responsabilità nei limiti della nostra classe dirigente. Ad esempio, i punteggi mediamente bassi dei nostri dipartimenti di management (la metà di quelli di economia) contribuiscono a spiegare i ritardi della nostra classe manageriale. Anche per questo non possiamo rassegnarci a questa università. Le sue contraddizioni. le distanze cosmiche che separano tra di loro i diversi atenei e i diversi dipartimenti al loro interno ci dicono che valorizzando ciò che c’è di buono possiamo fare grandissimi passi in avanti, senza dover impegnare anche un solo euro in più. Bene che il governo pensi ad altre scuse dei vincoli di bilancio se non vuole approfittare di questa occasione per cambiare davvero l’università italiana.


Giovedì 18 Luglio,2013 Ore: 16:22

 

 

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