Profitti senza produzione, di Paul Krugman (con una nota di Gianni Mula.
Profitti senza produzione, di Paul Krugman
Con una nota di Gianni Mula
New York Times – 21 giugno 2013 Nell’articolo che vi propongo Paul Krugman ritorna sul tema della “follia” della politica economica praticata in questo periodo da tutti, chi più chi meno, i governi del mondo occidentale. Aveva già trattato questo tema in termini essenzialmente politici ne Le marce della follia, al termine del quale aveva scritto: New York Times – 21 giugno 2013 Profitti senza produzione Paul Krugman I recenti problemi economici ci hanno ricordato l’utilità della storia. All’inizio di questa crisi gli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff – purtroppo diventati famosi per il loro lavoro peggiore – pubblicarono un brillante libro dal titolo sarcastico “Questa volta è diverso”, che sosteneva la tesi che tra le crisi economiche c’è una forte somiglianza. Infatti, i paralleli storici – non solo con gli anni 1930, ma col Giappone degli anni 90, la Gran Bretagna degli anni 20 e altri – sono stati guide vitali per il presente. Eppure le economie cambiano nel tempo, e talvolta in modo fondamentale. Quindi, che cosa c’è di veramente diverso nell’America nel XXI secolo? Direi che la risposta più significativa è la crescente importanza delle rendite di monopolio: i profitti non rappresentano più i ritorni sugli investimenti, ma riflettono invece il valore della posizione dominante sul mercato. A volte la posizione dominante sembra meritata, a volte no, ma in entrambi i casi l’importanza crescente delle rendite di posizione sta producendo un nuovo scollamento tra profitti e produzione e può essere un fattore che prolunga la crisi. Prendiamo in considerazione, ad esempio, le differenze tra due aziende simbolo di due epoche diverse: General Motors degli anni 1950 e 1960, e Apple oggi. Nel suo periodo di massimo splendore General Motors aveva un grande potere di mercato. Ma il suo valore veniva in gran parte dalla sua capacità produttiva: possedeva centinaia di fabbriche e dava lavoro a circa l’1 per cento della forza lavoro totale non agricola. Il legame di Apple col mondo materiale è invece molto più sfumato. È la società americana di maggior valore, (oppure la seconda, dipende dalle oscillazioni della borsa) ma impiega meno dello 0,05 per cento dei nostri lavoratori. Questo fatto è in buona parte dovuto all’esternalizzazione di quasi tutta la sua produzione all’estero. Ma i cinesi non stanno facendo molto denaro dalla vendita di prodotti Apple perché, in larga misura, il prezzo che si paga per un iPad, o iPod ecc., è scollegato dal costo di produzione dell’oggetto. Nello stabilire il prezzo Apple bada semplicemente a massimizzare il profitto che ne può trarre, e, data la forza della sua posizione di mercato, di solito ci riesce. Qui non sto dando un giudizio morale. Ad esempio si può sostenere che Apple si è guadagnata la sua posizione di forza – anche se non sono sicuro che molti farebbero una simile affermazione per Microsoft, che pure ha fatto enormi profitti per molti anni. E probabilmente nessuno lo farebbe per il settore finanziario, che è anch’esso caratterizzato da ciò che assomiglia molto a rendite di monopolio, e in questi giorni assorbe circa il 30 per cento del totale dei profitti aziendali. In ogni caso, che le società meritino o meno il loro status privilegiato, quando i profitti di un’azienda ne riflettono il potere di mercato, anziché quello produttivo, l’economia è influenzata, e non in senso buono. Ecco un esempio. Come molti economisti hanno sottolineato di recente, il vecchio mito che le crescenti differenze di reddito corrispondono a crescenti differenze di capacità, ha perso oggi qualsiasi rilevanza abbia avuto in precedenza. Dal 2000 in poi c’è stato invece, in generale, un forte spostamento nella distribuzione del reddito, dai salari a favore dei profitti. Ma c’è un problema: dato che i profitti sono alti, mentre gli oneri finanziari sono bassi, perché non assistiamo a un boom di investimenti aziendali? E no, la risposta non è che non si fanno investimenti perché Obama ha ferito i sentimenti degli uomini d’affari o perché la gente è terrorizzata dalla prospettiva dell’assicurazione sanitaria universale. La risposta è che il problema scompare se l’aumento dei profitti riflette le rendite, non i ritorni sugli investimenti. In questo caso un monopolista può, dopo tutto, far grandi profitti e non vedere alcun buon motivo per espandere la propria capacità produttiva. E Apple ancora una volta fornisce un esempio calzante: fa altissimi profitti, ma nonostante questo mare di contante non sente alcun bisogno di reinvestire nella propria attività. O, per dirla in modo diverso, l’aumento delle rendite monopolistiche può avere, e probabilmente ha avuto, l’effetto di deprimere contemporaneamente sia i salari che le aspettative di ritorno degli investimenti. Si può sospettare, con ragione, che questo non sia un bene per l’economia in generale. Se al lavoro va una quota sempre minore del reddito nazionale il reddito delle famiglie, e quindi la loro capacità di spesa, si contrae. Contemporaneamente le imprese, nonostante l’impennata dei profitti, sono poco incentivate a investire. il risultato è una ricetta per una domanda costantemente depressa. Questo non è l’unico motivo della debolezza della nostra ripresa – dopo le crisi finanziarie i recuperi sono di norma deboli – ma è probabilmente un fattore che a questa debolezza contribuisce. Giusto per essere chiari, niente di ciò che ho detto rende irrilevanti le lezioni della storia. In particolare, l’allargarsi dello scollamento tra profitti e produzione non rende meno necessaria una politica monetaria e fiscale espansiva, almeno fino a quando l’economia rimane depressa. Ma l’economia sta cambiando, e in futuro cercherò di dire qualcosa su ciò che questi cambiamenti significano in termini politici. (Traduzione di Gianni Mula) Sabato 22 Giugno,2013 Ore: 16:16 |