Omine, predi, sardu: onore a don Mario Cugusi, di Gianfranco Murtas

Nel pomeriggio di ieri la sala del Consiglio comunale di Cagliari ha visto una moltitudine di cittadini riunita per ringraziare don Mario Cugusi per la sua trentennale attività a favore del rinascimento del quartiere di Marina. Essi sono stati convocati dai Consiglieri comunali, che hanno voluto fare dono a don Cugusi, ora parroco a Serdiana, di una targa di ricordo e di merito. Riportiamo la relazione di Gianfranco Murtas che ha dato avvio all’evento.

Per un riconoscimento civico a don Mario Cugusi – Cagliari, 6 giugno 2013

Don Mario Cugusi! Per trent’anni pieni egli ha catalizzato, nel quadrato della Marina di Cagliari, le migliori forze cittadine, anche amministrative, per la trasformazione evolutiva dell’ambiente fisico (all’inizio ancora diffusamente segnato dalle conseguenze della guerra) ma più ancora, sul piano sociale – e chiamalo educativo, di affiancamento e ascolto e soccorso –  di quel soggetto collettivo che è la popolazione dei residenti condividenti spazi e interessi. Questo ha fatto con gli strumenti della promozione culturale, attraverso la scuola popolare nelle aule che un tempo erano le abitazioni dei parroci collegiati – scuola per i nostri che volevano recuperare gli anni persi, scuola di alfabetizzazione per gli immigrati in cerca di inserimento –, con il cine-teatro aperto agli esordienti e agli sperimentalisti ma anche ai più autorevoli per cursus honorum, con l’oratorio della pedagogia festosa e mondiale, con il museo d’ogni cosa bella dell’arte sacra e l’area archeologica che ha via via conquistato rinomanza internazionale. Con un esercizio del ministero essenziale e partecipato, con la cura delle anime che in nulla e mai ha occhieggiato alle aspettative venali dei guelfi di turno. Con la spinta alle attività “proprie” della Chiesa, riscoperte dal Concilio giovanneo e paolino e indirizzate all’umanesimo integrale. E dunque attivando un modello catechistico che insegna a guardare al “senso telentuoso” della vita da spendere evangelicamente in una realtà interculturale e addirittura interetnica dalle dimensioni sempre più impegnative…

Quella parrocchiale antica del Seicento, ma con preesistenze addirittura del XIV secolo, una chiesa bellissima e cara alla città come poche altre, salvata letteralmente dallo sfacelo dei crolli, delle fenditure, delle vene di umidità, dell’instabilità. Casa di tutti noi lapolesi e gioiello della città recuperato nelle profondità dei suoi tre livelli, giù giù, nel carnaio amministrato per secoli della Congregazione del SS. Sacramento, fino alle prime colonne monumentali, ai suoi percorsi interni… luogo di studio assolutamente entusiasmante per scuole di archeologi e di storici. E non soltanto recuperata questa chiesa parrocchiale preziosa, ma rilanciata con sistemazioni anche d’arte che rispettano la storia e insieme attualizzano la funzionalità liturgica.

Con un quartiere che per tre lustri sbirciava gli ingressi di questo cantiere delle sorprese, che diventava un regalo per la Cagliari del primo Duemila riscoprente se stessa, anzi, che conosceva per la prima volta se stessa in questo largo settore delle sue edificazioni a monte dell’area portuale risalenti all’urbanistica romana… E prima c’era stato quell’altro cantiere del Santo Sepolcro, sito anch’esso pregevole per l’archeologia e l’architettura, per la storia religiosa e dell’arte. Tutto il bello offerto con legittimo orgoglio e gratuitamente alla comunità e ai suoi bisogni spirituali e sociali. Mentre un nuovo cantiere era in ultimo alle viste, a Santa Lucia, fra le vie Sardegna, Napoli e Barcellona. La chiesa abbattuta dalle bombe dopo una vita onorata di sette, forse otto secoli, nei suoi rifacimenti, la chiesa insediata vittorina visitata nel 1263 dal cardinale legato Visconti, arcivescovo di Pisa, in ispezione nella Cagliari murata, nel tempo delle dispute fra le repubbliche marinare.

La rinascita della Marina nel trentennio di parrocato di don Mario Cugusi è un film da un milione di fotogrammi. Socialità e cultura, la cultura come promozione di responsabilità e spirito civico, la religione come promozione di libertà personale e sociale, come chiave di scoperta del senso delle cose, in cui la trascendenza non è una evasione ma semmai un motivo supplementare di impegno nella comunità…

Ho rivisto i filmati dei primi anni ’80. La Marina della infanzia di molti di noi era ancora quella del 1944 o 1945, quando il sindaco Pintus contò nella cinta urbana ben 862 edifici completamente distrutti dai bombardamenti e 1.647 danneggiati, coinvolgenti circa 4.000 abitazioni. L’avarizia statale negli anni della ricostruzione, l’inadeguatezza di molte amministrazioni susseguitesi negli anni e nei decenni, non risolsero né tutto né molto… A cento metri dagli specchi della via Roma o del Largo, depositi di immondizia s’alzavano ogni qualche passo, sopra le macerie della guerra che la mia generazione non ha conosciuto altro che per le rovine persistenti.

Una generazione di abitanti della Marina, qui da tempo immemorabile, s’è via via consumata, per debito di natura. Sono scomparsi i lavoratori del mare: i pescatori del piccolo naviglio, gli scaricatori del porto commerciale, e le loro mogli che facevano comunità di vicinato d’estate e d’inverno, stendendo i panni ad asciugare anche sul piano di quei sottani o arrostendo pesci sul carbone in strada. Tutto adesso è cambiato, il porto s’è allontanato per lasciare spazio alle barche degli sportivi ricchi. Non è un male certamente, quando tutto è ordinato secondo la visione dell’interesse generale. Molti dei vecchi sono morti, e intanto i loro figli sono andati a farsi famiglia nelle nuove periferie cittadine. Senza perdere però il contatto con i parenti superstiti, con gli amici fedeli, con la parrocchia del loro battesimo e della cresima, del loro matrimonio molto spesso, dei funerali dei loro genitori.

Al posto dei vecchi scomparsi, al posto dei giovani che sono andati a crescere le loro famiglie in boccio a Mulinu Becciu o a Sant’Elia, o magari a Quartu e a Sestu, sono arrivati altri giovani e coppie con bambini di mezzo mondo: non soltanto i senegalesi e i marocchini, i cinesi e i filippini che sono ormai ovunque, di più: gli egiziani, i pakistani, gli indiani, e magari anche i malesi e gl’indonesiani, gli orientali dello Sri Lanka e del Bangladesh. Hanno riempito le case rimaste vuote, si accontentano di poco. Hanno aperto negozi d’artigianato e chincaglierie etniche o alimentari di supporto alla comunità immigrata, in diversi si sono impiegati in ristoranti con le qualifiche più modeste… Molti degli uomini, gli apripista, si sono fatti raggiungere da moglie e figli, ed i gruppi familiari si mostrano in una colorita e vivace espansione quasi come grappoli di relazioni nazionali e internazionali. Ma senza chiusure, anzi con una ansia di conoscenza di questo mondo nostro che è il mondo della loro nuova vita… Mentre i loro bambini che frequentano le elementari al Satta, o le medie alla Manno, e socializzano con i libri, tu li senti la sera ai campi dell’oratorio di Sant’Eulalia giocare a basket con istruttore un ragazzo del Senegal, e parlare tutti l’italiano – siano essi orientali o africani – e magari anche lo slang cagliaritano. Intuisci la fortuna che abbiamo noi di poter allargare le nostre conoscenze del mondo non dai libri ma dalle persone…

L’oratorio parrocchiale ma in generale tutte le strutture educative e ricreativo-sportive o teatrali  di Sant’Eulalia reimpiantate da don Mario Cugusi, da lui accudite e sviluppate lungo tre decenni con agenda quotidiana, ed oggi affidate alla abile, esperta ed amichevole regia di don Marco Lai, sono la sede centripeta di una variegata platea di soggetti che hanno cambiato ed arricchito Cagliari.

La parrocchia ha funzionato in progress come luogo di accoglienza, orientamento e accompagnamento, ma con una pratica di pedagogia civile che ha saputo smorzare ogni rischio o pericolo che nell’angiporto di tutte le città importanti di mare l’immi-grazione massiva porta inevitabilmente con sé. E tutto questo con poche, quasi nulle risorse materiali. Piuttosto, con la qualità delle donne e degli uomini offertisi alla missione. Perfino con gli allungamenti fuori sede, si pensi all’opera in Kossovo.

Se ne potrebbe dire, della Marina e della sua parrocchia, e di coloro che si sono prestati al servizio comunitario con una umiltà pari soltanto alla intelligenza ed al valore del progetto in cui al sostantivo “integrazione” mai  si è accompagnato l’aggettivo “omologante”! Della fraternità offerta alla comunità ortodossa nelle sue varie declinazioni e obbedienze autocefale. Della prossimità ai fedeli dell’islam, incoraggiati concretamente fin dall’inizio, con intuito anticipatore, e in ogni modo all’adempimento dei loro precetti, alla pratica delle loro devozioni.

C’entrano i santi martiri Sigismondo Arquer e Giordano Bruno, vittime dell’inquisizione e qui onorati con una strada bacareddiana e un busto inquietante che a lungo ha vegliato i passaggi da-e-per Castello, in quest’articolazione della trentennale pastorale sociale di don Mario Cugusi prete e filosofo? C’entra il sentimento della distinzione fra le istituzioni della Chiesa e quelle dello Stato, laico secondo la Costituzione repubblicana, così come lo vive questo prete colto e alla mano, popolare? C’entra la sua consapevolezza della necessità e della urgenza di una continuativa e cordiale collaborazione in ogni “materia mista” fra il pubblico (aideologico per definizione) e l’ecclesiale? L’esperienza ha dettato i titoli: dal rilancio dei manufatti architettonici e di ogni opera d’arte che ha attraversato i secoli affinando il gusto anche estetico della popolazione, alla difesa dei presìdi educativi per la formazione delle giovani generazioni, o assistenziale per l’accompagnamento, ma nella aggregazione non nell’apartheid, degli anziani e dei deboli, degli stranieri…

Tutto c’entra, mente e cuore giocano sempre nella stessa squadra. Egli ha guardato, mi sembra, con l’occhio di chi ha imparato che i cristiani non sono una società perfetta, autoreferenziale e autosufficiente, ma soltanto quel po’ di lievito che, gettato sulla pasta, di questa fermenta la massa e non si distingue più da essa perché concedendosi ha esaurito la sua funzione: fuor di metafora, vince la promozione della fraternità. Questo don Cugusi ha fatto applicandosi anche alla ricostruzione, sugli archivi storici, delle vicende lontane della parrocchiale integrata con le generose sollecitudini della Congregazione del SS. Sacramento, cui ha dedicato un bellissimo libro. Applicandosi anche alla riscoperta geniale delle tradizioni liturgico-sociali in lingua sarda: sposando all’universalità degli ideali la fierezza delle radici.

A Firenze, pochi anni fa, il sindaco ha premiato la fatica umanitaria di don Enzo Mazzi con il fiorino d’oro. A Cagliari l’iniziativa è stata dei consiglieri comunali, ed è bello che siano stati proprio gli uomini dell’Assemblea municipale così ampiamente rinnovata e ringiovanita nel 2011a cogliere e soddisfare il bisogno morale di premiare il merito civico di questo presbitero cagliaritano di Siurgus, per l’offerta che egli ha fatto della sua intelligenza e delle sue energie per il bene di molti.

 

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Da L’UNIONE SARDA 7 GIUGNO 2013

Una targa «di gratitudine» per il sacerdote: la testimonianza e l’affetto dei residenti

Don Cugusi e la sua Marina

Trent’anni di storia del quartiere, la festa in Comune

Trent’anni di vita tra le strade strette dove l’odore tabacco sprigionato dalla vecchia manifattura ha ceduto il posto a quello forte delle spezie. Un marchio quasi indelebile per il quartiere affacciato sul porto. «Trent’anni di fatica, entusiasmo e gratificazioni». Don Mario Cugusi ha scritto una pagina lunga della Marina, rimboccandosi le maniche per far rivivere un rione povero e quasi incapace di scrollarsi le ferite del Dopoguerra. «Le difficoltà ci sono state», ammette nel giorno in cui il Comune gli regala una targa «di gratitudine» per «la dedizione e l’impegno» nel quartiere alle spalle di via Roma.
PIÙ DI TRENT’ANNI FA Era il 1980 quando il sacerdote di Siurgus Donigala arrivò, allora trentacinquenne, nel capoluogo. Il sindaco era Cesare Pintus, il quartiere si allontanava dalla sua vocazione alla pesca. E il dialetto siciliano e quello campano venivano sostituiti da altre parlate in arrivo dal mare. Magrebini, cinesi, bengalesi, filippini. Don Mario li ha accolti, aiutandoli a inserirsi nella vita parrocchiale: «Il diverso arricchisce». Negli anni da parroco ha donato al quartiere l’oratorio, strutture educative, sportive, culturali e teatrali. La scommessa vinta una scuola di alfabetizzazione per gli extracomunitari. «Ho ricevuto tanto, ho vissuto tanti momenti di fratellanza davvero intensi».
LA CELEBRAZIONE «È sempre stato un prete in prima linea, un giudice di pace», commenta Ferdinando Secchi, consigliere comunale dell’Idv. «La Marina esiste oggi perché c’è stato don Mario», aggiunge il collega Mondo Perra. La sala consiliare del Comune è piena come non mai. Ci sono i vecchi parrocchiani e quelli nuovi, arrivati da Serdiana dove è stato trasferito da due anni. «Organizzare cultura e socialità come ha fatto lui è un mestiere raro», sottolinea Mario Faticoni, del gruppo teatrale il Crogiulo. Sergio Gaviano, presidente dell’associazione Nashdim, ha vissuto da vicino l’arrivo del prete filosofo con la passione per l’archeologia. «Il quartiere era piccolo e povero. Don Mario non si è mai pianto addosso». Determinato, tenace e progressista. «È merito suo se mi sono riavvicinato alla chiesa», ammette Salvatore Cubeddu.
L’AFFETTO PER DANILO Il ricordo di Danilo Durzu, il bambino down, chierichetto a Sant’Eulalia, riapre una ferita dolorosa. «Don Mario gli ha fatto da padre, insegnandoci cosa significa essere cristiani». Danilo non c’è più. Cugusi non riesce a trattenere le lacrime: «È il ricordo più bello della mia vita».
LO SCONTRO CON MANI Un prete schietto e anche un po’ scomodo, con l’abitudine di dire sempre ciò che pensa. Come sei anni fa, quando intraprese una battaglia per la messa in lingua sarda. È il 14 dicembre 2007, compare un foglio di carta intestata. Il mittente è l’allora arcivescovo Mani: «Nessun testo per la liturgia che non abbia l’approvazione della Santa Sede». Non si rassegna: «Obbedisco, ma solo in parte», risponde lui. Trova un compromesso. Che a dire il vero sa anche un po’ di sfida. Omelia, preghiera dei fedeli e canti del sabato restano in limba. Il rapporto con Mani si fa sempre più complicato. Il 17 luglio del 2010 l’arcivescovo decide di trasferire Don Mario. Il quartiere si schiera accanto al sacerdote. E quando il prelato cerca di spiegare le sue ragioni il popolo insorge. «Buffone, buffone», gridano i fedeli mentre risale sull’auto blu.
IL PASSAGGIO DI TESTIMONE Il passaggio di testimone a Don Marco Lai, dal 2010 è il direttore della Caritas cittadina a dirigere la parrocchia di Sant’Eulalia. Si stringono la mano: «Avevamo ottimi rapporti, non potevo certo perdere la possibilità di sciogliere un po’ di gelo», dice don Lai. «Il mio arrivo alla Marina non è dipeso da me. Forse potevamo gestirlo diversamente». Poi il riconoscimento: «I trent’anni di Don Mario nel quartiere sono un eredità davvero impegnativa».
Sara Marci

 

 

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    1 Comment to “Omine, predi, sardu: onore a don Mario Cugusi, di Gianfranco Murtas”

    1. By stefania, 17 giugno 2013 @ 11:01

      Ho semplicemente aggiunto il tuo feed all’RSS Reader… continuo a seguirvi, Grazie!