SA DIE DE SA SARDIGNA: VENT’ANNI ED UN PRIMO BILANCIO, di Federico Francioni
SOMMARIO: Premessa. 1. L’antenato dei denigratori. 2. La campagna di stampa lanciata su “La Nuova Sardegna”. 3. Il libro di Benedetto Caltagirone. 4. Incontri pro Sa die de sos sardos disterrados. 5. Sa die de sa Sardigna, 2013, in Sardegna. 6. Conclusioni.
SA DIE DE SA SARDIGNA:
VENT’ANNI ED UN PRIMO BILANCIO
di Federico Francioni
Premessa. Piero Marras ha “intitolato” il concerto che ha tenuto ad Alghero il 28 aprile: “Vent’anni”. Proprio così! Tanti ne sono passati, infatti, da quel 1993, ormai abbastanza lontano: allora, nel Consiglio regionale della Sardegna, un voto dell’assemblea legislativa isolana fece dell’anniversario del 28 aprile 1794 – insurrezione di Cagliari contro governanti, ministri, ufficiali ed impiegati piemontesi, savoiardi e nizzardi (non contro piemontesi, savoiardi e nizzardi, si badi bene, in quanto tali) – Sa die de sa Sardigna: con la legge regionale n. 44, 1993, veniva indetta una giornata, diventata poi negli anni momento di festa, di lotta, di musica, di canto, di teatro e di spettacolo, di riflessione e di approfondimento per il Popolo, anzi, per la Nazione sarda; emmo, proite semus una Natzione, si calencunu l’aeret irmentigadu.
Con spocchia talvolta insopportabile, qualche accademico, che pretende di adoperare gli strumenti teorico-critici di Marx – questi però con Engels, studioso profondo della questione irlandese, per fare solo un esempio, si rivolterebbe nella tomba – ci ha spiegato che la Nazione è un aggregato di classi sociali: grazie tante, sapevamo questo ed altro! Certi professoroni tuttavia pensano di essere i soli in grado di conoscere il materialismo storico, l’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss o la “modernità liquida” di Zygmunt Bauman, per fare solo qualche nome. No, certi testi li abbiamo letti anche noi, intellettuali, diciamo così, “scalzi”, senza pretese, poco o nulla preoccupati di far carriera. E sappiamo anche, grazie alla storiografia sulla Rivoluzione francese – da Jean Jaurès a Albert Mathiez, da Georges Lefebvre ad Albert Soboul – che Peuple, Popolo può essere definito come quell’insieme ampio di segmenti sociali, gruppi dirigenti e masse (donne, uomini, soprattutto giovani), le più propense ad un radicale cambiamento sul piano economico-sociale e politico-istituzionale.
1. L’antenato dei denigratori. Nel ventennio 1993-2013 – soprattutto nella seconda metà degli anni novanta – si è tentato in ogni modo di sminuire, disprezzare, se non addirittura di far scomparire, distruggere, custu isseberu, la scelta di tale significativa scadenza. L’operazione veniva da lontano, da un precedente autorevole, magari inconsapevolmente rivissuto e reinterpretato: la prospettiva conservatrice, se non reazionaria e comunque smaccatamente filosabauda di Giuseppe Manno (1786-1868) – storico, magistrato, presidente del Senato subalpino e di quello italiano – definito con la forte espressione “antenato dei denigratori” da uno studioso di notevole rigore e di grande equilibrio come Luciano Carta: il Manno, in breve, quale primo “denigratore” di Giovanni Maria Angioy, docente nell’Università di Cagliari, giudice della Reale Udienza, coltivatore e imprenditore, infine capo delle lotte antifeudali ed antiassolutistiche del 1793-1796, nel quale la giornata del 28 aprile 1794 va doverosamente inserita; pena il perdere di vista quel lasso di tempo, quel contesto che rappresenta la più drastica, radicale cesura col passato, verificatasi in tutta la storia dei sardi: uomini, soprattutto giovani, donne (perché allora balza in primo piano una nuova soggettività femminile), sacerdoti, intellettuali, borghesi e membri dei Gremi, le antiche corporazioni di arti e mestieri, prendono le armi (nelle città e nelle campagne, in quel triennio rivoluzionario, ma anche in seguito) contro il governo sabaudo, l’assolutismo, il sistema feudale ed i loro teracos locali.
Il Manno – per distruggere l’Angioy sul piano etico-politico e storico – non esitava nel qualificarlo come mandante più o meno occulto dell’uccisione (6 luglio 1795) di Gerolamo Pitzolo; e scadeva, altresì, nell’operazione – davvero indegna per uno storico e magistrato – di presentare un seguace dello stesso Angioy, l’ecclesiastico Francesco Carboni (considerato il più grande poeta in lingua latina del suo tempo), comente òmine de Crèsia, chi però pensaiat a sas munneddas de una fèmina minore (e credo d’essermi spiegato).
I testi del Manno costituiscono una dimostrazione imprescindibile per capire che – nel definire un’immagine del passato (così importante per ricostruire e rappresentare un profilo spiccatamente autonomo dell’isola) – la spinta dominante non è mai venuta dall’autoesaltazione o dalla mitizzazione dei secoli trascorsi, bensì, al contrario, da un spirito acre, risentito, propenso all’autodenigrazione, al tentativo di cuare, nascondere, in cui si sono specializzati ceti dirigenti politici ed intellettuali con la vocazione plurisecolare alla subalternità, mossi dalla logica di integrarsi nei sistemi di potere di volta in volta dominanti. Tutto questo lo abbiamo colto grazie anche ai contributi etnoantropologici e filosofici di Bachisio Bandinu e di Placido Cherchi, spesso e volentieri accantonati non dagli intellettuali “scalzi”, bensì da quelli adeguatamente “scarpati”. In altro luogo ho coniato l’espressione incamiciamento dell’identità, facendo riferimento ad una pratica, manifestatasi in determinate occasioni a Sassari (la mia città), consistente nel distruggere, o nel ricoprire, nell’incamiciare prontamente le emergenze architettoniche soprattutto di stile gotico catalano-aragonese.
2. La campagna di stampa lanciata su “La Nuova Sardegna”. Il disegno più ostinato, logico e coerente si è sviluppato a partire dalle analisi e dai giudizi denigratori propri, fra gli altri, del Manno (che rimane pur sempre il più eminente storico ottocentesco dell’isola). Con l’obiettivo dichiarato di porre fine alle iniziative del 28 aprile, di smontarle – per indurre le istituzioni a non parteciparvi più – prendeva corpo sulle pagine del quotidiano sassarese “La Nuova Sardegna” una martellante campagna di stampa. Fra le tante accuse veniva lanciata quella di Sa die come mercato delle vacche, cioè essenziale momento di manovre condotte da furbi e profittatori onde accedere ai finanziamenti della Regione. Potete immaginare i sentimenti provati allora da coloro che erano e sono soliti rimetterci, sempre o quasi, di tasca propria – perché ci credono, perché sono mossi da determinati valori – nel leggere certi articoli, proposti da una corazzata (in grado di tirare decine e decine di migliaia di copie), sulla quale è ben difficile replicare e controbattere! Ma siamo andati avanti nella nostra strada, proponendoci di lottare contro le tecniche denigratorie verso la storia, la cultura e soprattutto la lingua nazionale sarda. Senza contare che, nel fare ricorso a fondi di Regione, Province e Comuni, rispettando norme e scadenze, non si configura nulla di scandaloso.
Quasi parallelamente ed anche in seguito veniva orchestrata su “La Nuova” un’altra campagna di stampa sul tema dell’identità, intesa sempre e comunque quale “parolaccia”, tendente all’autoaffermazione, alla prevaricazione e finanche all’eliminazione fisica dell’Altro; ho risposto alle pretestuose operazioni di Costantino Cossu (giornalista del quotidiano sassarese) e di altri sulla riviste “Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane” e “Mathesis-Dialogo tra saperi”, dove ho cercato di mettere in luce che, prendendo le mosse da autori classici (spesso e volentieri dimenticati, travisati o distorti) è possibile, anzi è legittimo costruire un’accezione dell’identità – personale e collettiva – in positivo.
L’obiettivo strategico perseguito sulle pagine de “La Nuova” – delegittimare totalmente Sa die, farla scadere nel ridicolo, considerandola una buffonata, anche con versi in sardo (di chi si è prestato) – non viene infine raggiunto. Nel solo anno 1998 il quotidiano sassarese pubblica più di 50 articoli (tra interventi polemici e quelli a favore), in riferimento anche a convegni, conferenze, manifestazioni. Neanche Sant’Efisio, la Cavalcata, i Candelieri, la Sartiglia hanno avuto in quell’occasione tanto spazio.
3. Il libro di Benedetto Caltagirone. Il riferimento è al docente di Antropologia culturale dell’Università di Cagliari – cui si deve il libro Identità sarde. Un’inchiesta etnografica, Cuec, Cagliari, 2005 – nel quale ben 156 pagine sono dedicate a Gli inganni dell’identità. Sa die de sa Sardigna. Mai tale testo sarebbe stato redatto, mai avrebbe visto la luce senza le forti sollecitazioni, le feconde polemiche ed anche sos frastimos e sos irrocos scatenati dalle manifestazioni organizzate specialmente lungo gli anni novanta. Il superamento degli steccati fra antropologia e storia è senza dubbio un aspetto positivo del libro. Pensiamo alle indicazioni, tra l’altro, sia del sociologo Georges Gurvitch, sia dello storico Fernand Braudel, che auspicavano incontro e collaborazione non solo fra le due discipline, ma, più in generale, fra le scienze umane (che solitamente si guardano sospettose o in cagnesco). Ma tale approccio metodologico, teniamo a ribadirlo, sarebbe stato impensabile senza il condizionamento esercitato da uno sguardo nuovo della nostra comunità verso il proprio passato, che nasce non solo da legittima curiosità e da maggiore disponibilità – rispetto ai precedenti, non ancora superati, sensi di vergogna o di scarsa autostima – ma anche da una più marcata consapevolezza dei problemi nella crisi presente.
L’ampia rassegna storiografica messa a punto da Caltagirone prende l’avvio dall’opera del Manno, ben deciso a considerare il popolo cagliaritano come “gentame”, “plebaglia”, accortamente strumentalizzata dai “congiurati”. A lui Caltagirone contrappone giustamente il libro di Girolamo Sotgiu – storico di sinistra, che adopera gli strumenti del materialismo storico – il quale, proprio per questo, doveva alla fine risultare “sospetto”, “inadatto”, insomma, indigesto (secondo quanto sostiene lo stesso antropologo dell’ateneo cagliaritano) per l’affermazione di una vulgata definita da lui stesso come “sardista, indipendentista e nazionalista”. Quanto scrive Caltagirone non trova riscontro nel dibattito storiografico: la monografia di Sotgiu su La insurrezione di Cagliari, apparsa alla fine degli anni sessanta, è stata infatti ristampata e ad essa hanno fatto puntuale riferimento studiosi che seguono indirizzi diversi: non solo Carta, allievo dello stesso Sotgiu, ma anche Antonello Mattone, Piero Sanna ed il sottoscritto; per non parlare di Italo Birocchi, docente nell’Università “La Sapienza” di Roma, studioso di profonda dottrina, che nella sue dense pagine su La carta autonomistica della Sardegna (1992) – citata, ma non esaminata ed a torto scarsamente considerata da Caltagirone – ha visto nel 28 aprile e in generale nel triennio 1793-96 non un ripiegamento verso il passato, non una rivoluzione di Antico Regime, volta al recupero di privilegi di stampo spagnolesco, ma l’affermarsi di un soggetto, la Nazione sarda, protesa verso il futuro, nonostante gli inevitabili richiami ai secoli precedenti, in chiave polemica verso l’asfissiante assolutismo sabaudo.
Proprio un aspro nemico dell’ufficializzazione del bilinguismo, uno studioso come Sotgiu, capace negli anni settanta di menare fendenti che sconfinavano nella oggettiva criminalizzazione (io ho avuto però la fortuna di conoscerlo e di avvicinarlo in anni in cui era meno chiuso verso certe tematiche), riconosceva tuttavia che il Piemonte sabaudo aveva sottoposto la Sardegna settecentesca ad una dipendenza di stampo “coloniale” (Carta, per esempio, prende pacatamente le distanze da tale termine di fronte al quale, inoltre, gli accademici di solito storcono il naso); nelle rivolte urbane e rurali di fine Settecento, Sotgiu vedeva impegnata una componente sociopolitica “nazionale”, nel senso sardo del termine. Caltagirone “scopre” che la posizione di Sotgiu è antitetica a quella del Manno e che sul 28 aprile non è possibile approdare ad un’ interpretazione univoca. Ma, si può facilmente replicare, l’Ottantanove francese, per fare solo un esempio, è sempre stato terreno di scontro, anche acerrimo, fra correnti diametralmente contrapposte. Lo storico francese Lucien Febvre aveva intitolato una sua raccolta di saggi Combats pour l’Histoire, lotte, polemiche per la storia, per il controllo della memoria, che continua da più parti e senza esclusione di colpi: tutto ciò riguarda anche la nostra terra.
Lo stesso Caltagirone cerca di ricostruire con una certa precisione la genesi della festa, facendo riferimento a dibattiti e fermenti diffusi prima negli ambienti della sinistra extraparlamentare, quindi in campo sindacale – soprattutto nella Fim-Cisl e nella Federatzione sarda metalmecànicos – infine nel Partito sardo d’azione. L’avvio di quel processo – che avrebbe infine condotto alla l. r. 44/93 – va collocato nel 1979, a partire cioè dalla Marcia pro su traballu, voluta ed organizzata in particolare da Salvatore Cubeddu ed Antonello Giuntini, allora dirigenti della Fim-Cisl. In quella temperie politico-culturale essi vennero influenzati anche da lunghe, appassionate ed appassionanti discussioni con il sottoscritto, che aveva dato inizio ai suoi studi sul triennio rivoluzionario sardo 1793-96. Così si esprime – per il tramite essenziale di testimonianze rilasciate in particolare dallo stesso Giuntini – il libro di Caltagirone che sinceramente ringrazio: non credo di meritare tale rilievo anche se sono stato da lui citato prevalentemente in rapporto alla mia monografia Vespro Sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794 (Condaghes, Cagliari, 2001) e per aver in qualche modo contribuito alla nascita di Sa die, giudicata dallo stesso autore con tinte fortemente corrosive. In ogni caso, quanto sostenuto da Caltagirone sulle origini di Sa die contrasta singolarmente con la sua affermazione secondo la quale il 28 aprile si presenta come qualcosa di “verticistico”.
Secondo lo stesso autore, tale scadenza – soprattutto nelle sue versioni “ufficiali” – si è articolata per mezzo di iniziative che costituiscono altrettante operazioni “manipolatorie” e di “lavaggio del cervello”. Il fondamento di Sa die – sempre secondo Caltagirone – è più o meno marcatamente “xenofobo”, stimola e ripropone un odio indistinto contro i piemontesi in quanto tali e comunque contro chi è Altro.
Nel paragrafo sulla fenomenologia della festa, varie pagine, piene di dati e di cifre – su cui tornerò altrove, per esaminarle nel dettaglio – sono dedicate da Caltagirone alle spese stanziate di anno in anno soprattutto dalla Regione. In effetti non risulta che nel passato l’istituto autonomistico abbia fatto scorrere fiumi di denaro per l’introduzione della storia sarda – nelle scuole di ogni ordine e grado, fino all’Università – e per rendere curricolare l’insegnamento della lingua.
Colpisce vivamente, nella lettura del libro, la pressoché totale assenza di nominativi degli amministratori. Forse Caltagirone vuole mettere la sua indagine critica al riparo rispetto ad eventuali, possibili ritorsioni di presidenti ed assessori regionali? Oppure egli non intende porre in risalto che manifestazioni di spessore differente sono state promosse sotto l’egida di giunte di centro destra, così come di centro sinistra? Associazioni e singoli, agli occhi di Caltagirone, sembrano prevalentemente immersi in una lotta senza tregua per l’allocazione delle risorse, preoccupati dal pensiero esclusivo di rimpinzarsi con i fondi degli enti locali. Già, perché l’accusa lanciata da Cossu, così come da Caltagirone, è sempre quella: chi si batte per Sa die o per la lingua sarda sarebbe mosso non da alti ideali, ma – più modestamente e prosaicamente – dae su disìgiu de pònnere su dinare pùblicu in sa busciaca sua. Cossu e Caltagirone – e tanti altri, bisogna precisare – trattano così i dissidenti: facendo d’ogni erba un fascio. (In effetti – abaidande in ghìriu cun suspu – devo sommessamente riconoscere che mi sarebbe piaciuto introitare somme cospicue onde mettere le mani sul lussuoso yacht che è stato infine appannaggio del figlio maggiore dell’ex leader leghista Umberto Bossi).
Le pagine critiche di Caltagirone si concludono con una singolare interpretazione, in chiave etnoantropologica, dell’allontanamento da Cagliari del viceré Vincenzo Balbiano e di 514 fra ministri, ufficiali ed impiegati forestieri: si tratterebbe, secondo lo studioso, di una riproposizione della pratica tradizionale consistente nel cacciare a caddu a s’àinu, dae sa bidda, il parroco o l’esattore delle imposte. Gli apologeti di Sa die, insomma, non effettuando tale riconoscimento, si sarebbero preclusi l’individuazione di una “cifra” genuinamente sarda della ribellione. Così scrive l’antropologo dell’Ateneo cagliaritano che dal suo canto si è inibito – ma speriamo che non sia una volta per tutte – la possibilità di cogliere la valenza politica “progressiva” non solo del 28 aprile, ma di tutti quei sommovimenti urbani e rurali che non trovano riscontro in Italia: nella penisola infatti l’unione reazionaria di trono ed altare spinse addirittura i “Viva Maria”, le masse fanatizzate dal clero a perseguitare dissidenti e oppositori dell’Antico Regime; si giunse al punto di accendere il rogo per bruciare vivi giacobini ed ebrei: ciò accadeva il 28 giugno del 1799 nella Piazza del Campo della civilissima Siena. Certo, nel triennio rivoluzionario italiano 1796-99, che viene dopo quello sardo, si verificarono, com’è noto, anche vicende di segno ben diverso.
4. Incontri pro Sa die de sos sardos disterrados. La FASI, la Federazione delle Associazioni Sarde in Italia, anche quest’anno ha svolto egregiamente la sua parte; è sufficiente, in primo luogo, ricordare l’iniziativa promossa a Pavia grazie soprattutto all’instancabile impegno di Paolo Pulina.
“Sarda Domus”, un circolo animato da Ettore Serra, ha organizzato due incontri nel Lazio, uno a Santa Marinella (sabato 27 aprile), l’altro a Viterbo (domenica 28). Chi scrive è stato invitato a tenere, in sardo, due relazioni di carattere storico: una sul triennnio rivoluzionario 1793-96, l’altra su quegli uomini (docenti universitari, avvocati, notai, esponenti del ceto borghese professionale, ma anche membri dei Gremi) che tentarono di organizzare un moto – in gran parte analogo al 28 aprile 1794 – nell’ottobre del 1812: la cosiddetta congiura “borghese” di Cagliari, spietatamente repressa dai Savoia con le forche, le lunghe pene detentive, gli esili e le fughe dal Regno. Ma la sconfitta dei congiurati di Palabanda (dal luogo dove si riunivano, presso Stampace, uno dei tre sobborghi cagliaritani) non deve certo indurre a dimenticare o a ridimensionare il disegno concepito allora da quei generosi, quei veri, quei giusti che cercarono di rimettere il nostro popolo in cammino. Dal canto loro Efisio Luigi Pintor Sirigu e Vincenzo Cabras, già alla testa della rivolta del 1794, poi traditori di Angioy, divennero cortigiani, ufficialmente riconosciuti come tali dai principi sabaudi.
Nell’incontro di Santa Marinella inoltre Maria Vittoria Migaleddu ha condotto un fecondo ed illuminante dialogo con i Conteddu, originari di Siniscola, mentre a Viterbo ha “intervistato” i Sanna Goddi di Orune: madri e padri di queste famiglie – operanti nel settore agropastorale – hanno deciso di insegnare ai figli la lingua sarda ed hanno scelto la dominanza di questa nella comunicazione quotidiana. E si tratta, si badi bene, di unità familiari da tempo stabilmente inserite nei territori in cui hanno deciso di emigrare. Tanti intellettuali – per troppo tempo – ci hanno propinato sa fàula che l’essere bilingui è un disvalore, che l’obiettivo del bilinguismo ufficiale va abbandonato: invece studi accurati di psicolinguistica (pensiamo soprattutto a quelli condotti da Maria Antonietta Pinto de “La Sapienza” romana) ci hanno fatto capire, con dovizia di prove, che il bilinguismo dona duttilità, capacità di aprirsi a mondi, a contesti socioeconomici, culturali ed umani diversi. Oggi la diagnostica per immagini ci mostra le variazioni anatomo-fisiologiche (nella parte centrale anteriore del corpo calloso, nella corteccia del cingolo e nel nucleo caudato) di un cervello reso indubbiamente più elastico e ricettivo dal relazionarsi, dall’intersoggettività esercitata con due o più lingue; ciò si verifica quando le persone, gli educatori evitano accuratamente di soffocare la lingua materna, che va invece istimada e cuntivigiada; essa non chiude, ma anzi apre alla conoscenza, alla pluralità delle dimensioni emozionali, vitali, sociali ed etniche. Quanto M. V. Migaleddu ha scritto (cfr. Vantaggi cognitivi del bilinguismo, in “Mathesis-Dialogo tra saperi”, n. 19, dicembre 2012, pp. 22-35) ha poi – con passaggi estremamente lucidi e didascalici – esposto, parlando in sardo, nei due incontri di Santa Marinella e di Viterbo. Altre iniziative per Sa die sono state organizzate a La Spezia e a Pisa.
5. Sa die de sa Sardigna, 2013, in Sardegna. La motivazione è sempre quella, la scarsità di finanziamenti. Ma non sarebbero necessari dei soldi per la riunione del Consiglio regionale e del Consiglio delle Autonomie che facciano memoria – come succede in tutte le nazioni del mondo – dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità sottesi anche al destino del Popolo sardo. Le autorità sarde sono poco attratte anche dalle ricorrenze italiane: hanno deciso di fare il lungo ponte festivo che, dal 24 aprile al 5 maggio, ha permesso la prima lunga vacanza dell’anno. Ricorrendo di domenica, sa die non ha consentito agli studenti di godere della vacanza scolastica. Iniziativa destinata comunque ad esaurirsi quando le istituzioni non dimostrino nei fatti e nei comportamenti un profonda convinzione sulle radici idenititarie e storiche delle istituzioni della Sardegna. Il senso, cioè, di sa die de sa Sardigna quale festa nazionale del Popolo sardo.
Ci sono state comunque delle eccezioni, in alcuni comuni che avevano presentato le richieste entro lo scorso ottobre: a Thiesi in particolare e al Consiglio comunale di Oristano e di Norbello. Presso il Consiglio e la Giunta provinciale di Cagliari, sollecitati dalla Fondazione Sardinia, dall’Associazione “In sardu”, da ‘Riprendiamoci la Sardegna’ e da Tramas de Amistade. L’Assessorato regionale alla Pubblica Istruzione ha promosso l’incontro celebrativo con le autorità presso la biblioteca regionale di Viale Trieste, finanziato il concerto della sera del 28 aprile nella piazza del Carmine, premiato i giovani concorrenti delle scuole nei giorni precedenti.
In pratica il vero evento istituzionale cagliaritano è stata l’autoconvocazione di personalità del mondo associativo e culturale presso il salone del Palazzo Viceregio (là dove si presero le decisioni duecento anni orsono), la mattina di sabato 27 aprile. L’incontro ha attualizzato le 5 domande del 1793 nelle seguenti “Sas chimbepreguntas de su 2013, a nois”, “Le cinque domande del 2013, a noi stessi”: 1. La Sardegna ha una classe dirigente e politica all’altezza della crisi che sta vivendo? 2. L’Italia serve alla Sardegna? In che misura il superamento della crisi passa da un deciso cambio dei rapporti istituzionali tra la Sardegna e lo Stato italiano? 3. Un “Partito della Sardegna”, slegato dalle grandi formazioni nazionali, può essere una risposta alla crisi istituzionale e alla mancanza di una adeguata rappresentanza sia nel parlamento romano che in quello europeo? 4. L’introduzione del bilinguismo può essere una risorsa per la Sardegna? 5. Quale proposta fare ai giovani sardi che hanno ripreso ad emigrare? Dopo i saluti e gli interventi introduttivi, che hanno illustrato il senso di ciascuna delle cinque domande (proposte da Salvatore Cubeddu, Nicolò Migheli, Vito Biolchini, Paola Alcioni e Fabrizio Palazzari), gli interventi vivaci e stimolanti, espressi in larghissima misura in lingua sarda (probabilmente l’incontro più ‘parlato in sardo’ sentito in quella sala), hanno confermato la bontà e l’utilità del programma. Di tutto questo dovrà tenere conto il nuovo Comitato per sa die de sa Sardigna che sarà inevitabile ricostituire, per collaborare con le istituzioni nel riproporre una die sempre più coinvolgente e sentita dal nostro popolo.
6. Conclusioni. Il tentativo di decostruire – ed anche di affossare – Sa die, con gli strumenti di una critica corrosiva ed anche con la commiserazione, lo sberleffo ed il dileggio, è andato a vuoto; vent’anni dopo possiamo ben dirlo con legittimo orgoglio. Quando rileggo le pagine del più volte citato Caltagirone, riguardanti le iniziative assunte tanto tempo fa da Cubeddu e Giuntini, provo la soddisfazione di aver suscitato con loro – e con tanti altri! – un putiferio incontenibile, un sano abolotu. Anche da tutto ciò, credo, si è delineato un processo di coscientizzazione di massa, preludio indispensabile per avanzare nell’arduo cammino di liberazione socioeconomica, politico-istituzionale, linguistica, spirituale del nostro popolo. Pro sighire in unu momentu gai feu, de crisi niedda – cuddu chi semus atraessande – bi cheret custa isperàntzia pro su tempus benidore.
By erika, 29 maggio 2013 @ 05:43
e’ difficile trovare persone competenti su questo argomento, ma sembra che voi sappiate di cosa state parlando! Grazie