La politica economica che piace all’1% più ricco, di Paul Krugman
New York Times, 26 Aprile 2013
La politica economica che piace all’1% più ricco
di Paul Krugman
I dibattiti economici raramente terminano con un K.O. tecnico. Ma l’esito del grande dibattito politico di questi ultimi anni tra keynesiani, sostenitori del mantenimento e, anzi, dell’aumento della spesa pubblica durante una depressione, e austeriani, cioè sostenitori dell’austerità, che richiedono tagli di spesa immediati, è quanto di più vicino a un K.O. tecnico si possa immaginare – almeno nel mondo delle idee. Al punto in cui siamo la posizione austeriana è implosa, non solo le sue previsioni circa il mondo reale sono fallite completamente, ma la ricerca accademica invocata a sostegno della sua posizione si è rivelata piena di errori, omissioni e statistiche dubbie.
Eppure rimangono ancora due grandi domande. In primo luogo, come ha fatto la dottrina dell’austerità a diventare così influente? In secondo luogo, ora che le affermazioni austeriane cruciali sono diventati battute per programmi comici da terza serata, cambierà in qualche modo la politica economica?
Sulla prima domanda: il predominio austeriano negli ambienti che contano dovrebbe disturbare chi ama credere che la politica si basi sull’evidenza dei fatti, o ne sia almeno fortemente influenzata. Dopo tutto, i due principali studi che fornivano la presunta motivazione razionale per l’austerità – quello di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sulla “austerità espansiva” e quello di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sull’esistenza di una “soglia”, al 90 per cento del PIL, pericolosa per il debito pubblico, sono stati oggetto di critiche durissime sin dalla loro pubblicazione.
E ora vien fuori che i due studi non reggono a un esame attento. Già alla fine del 2010, il Fondo Monetario Internazionale aveva rielaborato lo studio Alesina-Ardagna con dati migliori e invertito i loro risultati, mentre molti economisti hanno sollevato dubbi fondamentali su quello Reinhart-Rogoff ben prima che si conoscesse il famoso errore di programmazione Excel. Da allora gli eventi del mondo reale – la stagnazione in Irlanda, che era il paese portato a modello per le sue politiche di austerità, e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che invece secondo gli austeriani avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale – hanno dimostrato definitivamente l’inconsistenza delle previsioni austeriane.
Eppure l’austerità ha conservato e addirittura rafforzato la sua presa sull’élite. Perché?
Parte della risposta risiede sicuramente nel desiderio diffuso di vedere l’economia come un dramma morale, di renderla una storia di eccessi e dei loro effetti. Abbiamo vissuto oltre i nostri mezzi, questo è il racconto, e adesso ne stiamo pagando le inevitabili conseguenze. Gli economisti possono spiegare fino alla nausea che questo è un racconto sbagliato, che il motivo per cui abbiamo la disoccupazione di massa non è che abbiamo speso troppo in passato, ma che stiamo spendendo troppo poco adesso, e che questo problema può (e dovrebbe) essere risolto. La risposta è: chi se ne importa; molte persone hanno un senso viscerale del peccato e della necessità di redenzione attraverso la sofferenza – e né argomenti economici, né l’osservazione che le persone che ora soffrono non sono affatto le stesse persone che peccarono durante gli anni della bolla, potranno mai scalfire questa convinzione.
Ma non è solo una questione di confronto fra logica ed emotività. Non si può capire l’influenza della dottrina dell’austerità senza parlare di classi sociali e di disuguaglianza.
Che cos’è, dopo tutto, che la gente chiede alla politica economica? La risposta, come vien fuori da un recente studio degli scienziati politici Benjamin Pagina, Larry Bartels e Jason Seawright, dipende dalle persone a cui si pone la domanda. Lo studio mette a confronto le preferenze politiche dell’americano medio con quelle dei molto ricchi, ed i risultati sono rivelatori.
Essi mostrano infatti che l’americano medio è un po’ preoccupato per il deficit del bilancio federale, cosa che non sorprende data la maniera con la quale i mezzi di informazione trattano le notizie che riguardano il deficit, mentre i ricchi, a grande maggioranza, considerano il deficit come il problema più importante che abbiamo di fronte. E come dovrebbe essere ridotto il deficit? Per i ricchi bisognerebbe tagliare le spese federali per l’assistenza sanitaria e per la sicurezza sociale – cioè bisognerebbe tagliare i “diritti” – mentre il grande pubblico in realtà vuole che la spesa per quei programmi aumenti.
Diciamolo più chiaramente: l’agenda dell’austerità assomiglia molto a una semplice espressione delle preferenze della classe agiata, però contrabbandata come richiesta della scienza economica. Così ciò che vuole l’uno per cento col reddito più alto diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.
Ma continuare con la depressione è davvero nell’interesse dei ricchi? Improbabile, dal momento che un boom economico va generalmente bene per quasi tutti. Il fatto è che da quando abbiamo adottato politiche di austerità abbiamo avuto anni duri per i lavoratori, ma tutt’altro che cattivi per i ricchi, che hanno beneficiato di profitti e prezzi delle azioni in aumento, anche in condizioni di crescente disoccupazione di lunga durata. Magari quell’uno per cento non vorrebbe un’economia debole, ma intanto se la cava abbastanza bene da non dover mettere in discussione i propri pregiudizi.
E questo porta a chiedersi quale sarà, in concreto, l’effetto del crollo della credibilità scientifica della posizione austeriana. Con una politica dell’uno per cento, fatta dall’uno per cento, nell’interesse dell’uno per cento, non è che ci dobbiamo aspettare solo nuove giustificazioni per le stesse vecchie politiche?
Spero di no, mi piacerebbe credere che le idee e i fatti contino, almeno un po’. Altrimenti, che cosa sto facendo della mia vita? Ma temo che toccheremo con mano quanto cinismo serve per continuare con le vecchie politiche.
(Traduzione di Gianni Mula)
NOTE
[1]The 1 Percent’s Solution, New York Times del 26 aprile, pubblicato su Repubblica del 27 aprile col titolo L’austerity è finita KO. Per comodità di chi legge riporto in coda a questo post l’editoriale di Krugman in una mia traduzione, cui ho dato il titolo, che a mio avviso coglie meglio lo spirito dell’articolo, La politica economica che piace all’1% più ricco).