“Un Partito della Sardegna, slegato dalle grandi formazioni nazionali, può essere una risposta alla crisi istituzionale e alla mancanza di una adeguata rappresentanza sia nel parlamento romano che in quello europeo?”, di Vito Biolchini
Sa die de sa Sardigna 2013. Sas chimbe preguntas, a nois. Nos bidimos in su Palatzu de su Visurè in Casteddu, sabado 27/04/2013, a sas 10,00.
In una regione autonoma e perfino speciale, avere dei partiti capaci di agire senza essere costretti a sottostare alle logiche di potere nazionali sarebbe la normalità e non una aspirazione. La normalità invece quella che abbiamo da tempo sotto i nostri occhi: in Sardegna esiste la politica in franchising. Che cos’è il franchising? Ce lo spiega Wikipedia.
“Il franchising è una formula di collaborazione tra imprenditori per la distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato.
L’azienda madre concede all’affiliato il diritto di commercializzare i propri prodotti utilizzando l’insegna della casa madre e concede anche assistenza tecnica e consulenza sui metodi di lavoro. In cambio l’affiliato si impegna a rispettare standard e modelli di gestione e produzione stabiliti dalla casa madre. Tutto questo viene offerto in cambio del pagamento di una percentuale sul fatturato e al rispetto delle norme contrattuali che regolano il rapporto”.
Appare evidente che quasi tutta la politica sarda è una politica in franchising. I grandi partiti nazionali impongono il marchio e offrono un kit fatto di parole d’ordine e soluzioni preconfezionate a chi si impegna a rispettare i modelli di gestione imposti e ovviamente si impegna a pagare una percentuale sul fatturato.
In Sardegna le classi dirigenti vengono premiate con posti di comando a patto che non si sognino minimamente di immaginare un altro modo di fare politica (e dunque di selezione della classe dirigente) e a patto che paghino una percentuale sul fatturato (rappresentata dai voti che noi facciamo confluire su quelle sigle nazionali, voti alla fine evidentemente buttati).
Nella regione autonoma e speciale della Sardegna la politica non è né speciale né autonoma. È come diceva Francesco Masala, è eterodiretta. Niente di nuovo dunque. Cosa c’è di nuovo allora?
Di nuovo c’è che anche la politica in franchising sta fallendo. I grandi marchi stanno scomparendo e, complice la crisi economica, non sono più in grado di venderci i loro prodotti. I prodotti che la politica nazionale vuole vendere ai sardi tramite la nostra classe dirigente non servono più e questo è chiarissimo.
Nessun grande problema della Sardegna di oggi diventerà mai un punto nell’agenda del governo Italia. Neanche problemi la cui soluzione passa necessariamente per un tavolo nazionale, come quello della deindustrializzazione o dei trasporti.
E se la politica in franchising non funziona più, che cosa succede?
Di partito dei sardi si parla da tempo. Attenzione, è sempre stata la formula con la quale di fronte all’impotenza strutturale della politica nazionale davanti ai problemi della Sardegna, le nostre classi dirigenti hanno cercato di placare le istanze di rinnovamento. Ma oltre l’annuncio non si è mai andati.
Ora però è diverso, perché la consapevolezza dell’inadeguatezza del sistema politico nazionale insieme l’imminente dissolvimento delle due principali esperienze politiche, mette le nostre classi dirigenti di fronte alla necessità di inventarsi qualcosa di nuovo.
Chiaramente parlare di un “partito dei sardi” non significa nulla. Serve invece una politica dei sardi, autonoma e speciale, in grado innanzitutto di abbandonare la casa madre. Serve uno strappo, come quello di Berlinguer nei confronti dell’Unione Sovietica. Dire basta a questo rapporto feudale che lega i nostri politici ai politici nazionali.
E poi è necessario ricomporre gli schieramenti non attraverso le vecchie categorie novecentesche, ma attraverso le nuove sensibilità e scelte di fondo precise, che riguardano la difesa delle fasce più deboli della società, del modello di sviluppo, della partecipazione politica diffusa, del bilinguismo.
Non servono partiti sardi federati con partiti nazionali, ma servono partiti nuovi, veri, in cui a fronte di una apertura agli elettori di partiti che possono sembrare anche lontani da quelli che abbiamo finora votato, ci deve essere una chiusura netta nei confronti di una classe dirigente che è da rinnovare in profondità, senza esitazioni.
Quindi il partito dei sardi non può essere una operazione trasformistica per favorire le rendite di posizione, anche minime. Serve una stagione veramente nuova, nei contenuti e nella classe dirigente. Perché fatte le debite differenze, negli ultimi dieci anni sia centrodestra che centrosinistra in Sardegna hanno profondamente mancato il loro obiettivo.
E allora cosa succederà alle prossime elezioni regionali? Voteremo ancora i partiti in franchising o le classi dirigenti sarde che si sono riconosciute finora nei marchi dei principali schieramenti avranno la forza e il coraggio di Enrico Berlinguer davanti all’Unione Sovietica?
Buona Die de sa Sardigna a tutti.