DA GIOVANNI COLUMBU A FIORENZO SERRA E RITORNO, di Federico Francioni
DA GIOVANNI COLUMBU A FIORENZO SERRA E RITORNO
di Federico Francioni
La sfida. Realizzare un film nel contesto sardo, per di più nella lingua nazionale dell’isola, rappresenta una scelta, anzi, una sfida di grande coraggio, di cui occorre dare atto a Giovanni Columbu, regista de Su Re: un prodotto come questo – su cui vogliamo formulare alcune considerazioni, accogliendo l’affettuosa sollecitazione dell’amico Salvatore Cubeddu – va comunque inserito nella più ampia storia del cinema: un nodo che Columbu (ammiratore, fra l’altro, del Carl Theodor Dreyer autore di Giovanna d’Arco, Dies irae e Ordet) si è sicuramente posto.
Mettiamo subito da parte un kolossal come I dieci comandamenti (1923 e 1956) di Cecil B. De Mille, in cui il sacro, l’evento religioso, sono risolti sul piano di una efficace spettacolarità, non lontana peraltro dalla dimensione circense, dal momento che lo stesso regista aveva realizzato anche Il più grande spettacolo del mondo (1952, due Oscar, uno al film, l’altro al soggetto), in cui aveva avuto modo di inserire perfino un disastro ferroviario! In ogni caso, con una problematica religiosa di quella portata, De Mille non si era scottato le mani, come invece succedeva a navigati uomini della macchina da presa in La più grande storia mai raccontata (1965) di George Stevens (con l’attore bergmaniano Max Von Sidow nella parte di Gesù) sul quale il critico Morando Morandini emetteva il seguente, implacabile giudizio: «Un gigantesco catalogo di cartoline illustrate che procede con l’andatura di un elefante incatenato». Grandi dunque i rischi, non dipendenti solo dalla tematica religiosa.
Ma si pensi anche a Il Re dei Re (1961) di Nicholas Ray, con Jeffrey Hunter e Robert Ryan, che si avvaleva fra l’altro del commento off detto da Orson Welles nell’edizione originale e – più modestamente, ma pur sempre dignitosamente – da Gino Cervi nella versione italiana: tra i colossi hollywoodiani, aveva il merito di presentare un taglio fortemente politico nel configurare il dominio romano nella Palestina in senso coloniale e nel delineare le figure di Barabba e di Giuda come Zeloti, partigiani nazionalisti in guerra con gli occupanti. Negli Stati Uniti l’opera di Ray fu attaccata da certi gruppi cattolici per mancanza di senso del sacro. La vogliamo ricordare anche su un piano squisitamente aneddotico: una delle attrici, Viveca Lindfors, ebbe modo di conoscere, rimanendone forse affascinata, il nostro Antonio Simon Mossa, diventato in seguito intellettuale poliedrico, architetto e leader indipendentista. Simon, insieme all’amico Fiorenzo Serra, aveva intrapreso la strada della cinematografia, diventando, fra l’altro, aiuto regista di Augusto Genina: ciò del resto emerge dai titoli di testa di Bengasi (dello stesso Genina), girato nel 1941 ed interpretato da Fosco Giachetti, Amedeo Nazzari, Vivi Gioi, Maria de Tasnady ed altri. Una temperie storico-culturale ed artistica decisamente diversa da quella attuale, ormai irrimediabilmente lontana anche dal Ben Hur (1959, 11 Oscar su 12 nomination) di William Wyler, per citare un altro kolossal con, sullo sfondo, scene della Passione.
Una, due, tre vittorie. Non sembri così scontato osservare che l’improponibilità, in ambito sardo, di tali operazioni dipenderebbe, anche e soprattutto, dai finanziamenti: va dunque, in primo luogo, un forte, solidale apprezzamento a Columbu che in tempi calamitosi – di crisi socioeconomica squassante, di tagli spietati alla cultura, dovuti ai governi di centrodestra che sono riusciti a dilagare non trovando un’opposizione degna di questo nome – ha imboccato la strada giusta, l’unica percorribile, facendo ricorso, per trovare i fondi, ad una sottoscrizione popolare e ad un lungo elenco di enti (il film infine è stato distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti). Una bella impresa – in proposito il regista sardo ha vinto una prima, decisiva battaglia – che è costata non poca fatica, tempi di lavorazione di dieci anni circa, che sicuramente hanno influito sul prodotto finale.
L’impegno centrale, davvero arduo, sostenuto da Columbu era sicuramente quello di “tradurre” e di adattare la vicenda di Cristo al contesto sardo. Si sono proposti alcuni riferimenti alla storia del cinema che non devono apparire oziosi, pretestuosi, in quanto il nostro regista, come si è detto, risulta ben attrezzato quanto a strumenti teorico-critici: egli ha scelto le pietre megalitiche, nuragiche, di Santa Barbara (Villanova Truschedu, presso Fordongianus) per gli interni riguardanti il processo a Gesù ed un paesaggio accidentato, tormentato, il Monte Corrasi, presso Oliena (dove John Houston girò alcune sequenze de La Bibbia, 1966) che ricorda le pietraie riprese da Vittorio De Seta in Banditi ad Orgosolo (1961) e da Pier Paolo Pasolini ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), dal respiro “terzomondista”. Il film di De Seta fu al centro di un’ampia riflessione stimolata da Antonio Pigliaru per la rivista “Ichnusa” (che nel numero 42 del 1961 proponeva interventi degli stessi Pigliaru e De Seta, di Giovanni Campus e 18 schede della critica italiana e straniera).
Nel film di Columbu impressiona vivamente la fotografia – che si deve a Francesco Della Chiesa, Massimo Foletti e Uliano Lucas (con colori, luci ed ombre che ricordano Caravaggio, com’è stato osservato) – al centro di giudizi lusinghieri da parte dei critici. Si è posto in risalto anche l’uso sapiente, personale, della macchina da presa da parte dello stesso regista, la quale appare sempre come in procinto di cadere, come portata da chi, scosso dall’evento, fosse sempre in bilico, sul punto di incespicare e di crollare, di fronte a una tempesta, a qualcosa di terrificante, di indicibile.
Anche intorno a Su Re è andata crescendo una forte attenzione, come dimostrano non solo gli articoli dei quotidiani sardi, ma anche quelli di importanti testate italiane (si veda la rassegna pressoché completa in questo sito, curata da Salvatore Cubeddu): un dibattito il più possibile ampio può contribuire a far sì che una cinematografia nazionale sarda, in lingua sarda, possa affermarsi e fare un salto qualitativo. Un altro grande, decisivo merito di Columbu è stato infatti aver realizzato un’operazione che in ogni caso è di drastica rottura con l’egemonia dell’insopportabile cinema in italo-romanesco, lanciato o coadiuvato dal duopolio televisivo dominante.
Spunti critici. Ma il cinema è racconto, azione – col linguaggio della macchina da presa – ed al riguardo Su Re sconta un limite dovuto alla frammentarietà estrema, come carattere distintivo, scelto consapevolmente dallo stesso Columbu. Forse sarebbe stato più opportuno, più incisivo, un racconto più didascalico, più lineare, meno, diciamo così, circolare: è stata però quest’ultima la logica adottata dallo stesso regista. Un procedere meno spezzato avrebbe consentito alla lingua sarda di manifestarsi con forza ed espressività maggiori e avrebbe inoltre permesso di delineare più efficacemente figure e caratteri. Va bene la ricerca di asciuttezza e di essenzialità, ma forse si è un po’ esagerato, a scapito del racconto, dall’ultima cena all’orto di Getsemani, dal bacio di Giuda al processo, alla condanna ed alla fustigazione, sino al Golgota. D’altra parte Columbu ha voluto mettere la Croce al centro del suo percorso narrativo.
Un altro nodo è rappresentato dalla dominanza assoluta della dimensione della ruralità – inevitabile, ma solo per certi versi – in cui per lungo tempo è stata confinata la rappresentazione della Sardegna. Già dagli anni sessanta, nei suoi documentari, Fiorenzo Serra aveva cominciato a mostrare il volto di Cagliari, le manifestazioni operaie e sindacali contro il ridimensionamento degli impianti minerari di Carbonia ed anche la Sir di Macchiareddu: una scelta per niente scontata e banale, dettata semmai da dubbi ed interrogativi – fecondi – sul cammino intrapreso dai governi italiani e dalle giunte regionali. Forse bisognerebbe ripartire anche da lì – oggi che abbiamo consapevolezza dei tanti guasti causati dall’industrializzazione selvaggia – per andare avanti, verso quella cinematografia nazionale sarda (propongo ancora una volta di chiamare le cose col loro nome) verso cui lo stesso Gianni Olla (si veda il suo peraltro stimolante intervento su “La Nuova Sardegna” del 21-03-’13) dichiara francamente il suo ben scarso interesse (se non l’avversione). Il problema della “conquista” della dimensione urbana nel delineare un’immagine complessiva dell’isola non è comunque assente nella cultura e nella coscienza di Antonello Grimaldi, Salvatore Mereu o Enrico Pau che in Pesi leggeri (2001) riprende le periferie cagliaritane (per fare solo un esempio).
Nel film di Columbu, tutte quelle persone vestite di nero, col cappuccio, quelle figure del mondo agropastorale – per niente mitizzato dal regista, si badi bene – rinviano inevitabilmente ad un mondo intessuto di violenza: è stato richiamato in proposito non solo il codice della vendetta studiato da Pigliaru, ma anche La cacciata dell’arrendatore (una sorta di processo all’esattore), un dipinto del 1926 di Mario Delitala. C’è il rischio di rappresentare la Sardegna solo ed esclusivamente sul versante rurale ed allo stesso tempo di configurare lo stesso pianeta barbaricino – molto complesso e complicato – come irredimibile, senza speranza, immobile, fisso nella sua arcaicità, immerso nella vendetta fratricida, capace di arrivare fino al deicidio, ma comunque ben lontano dall’idea di commettere un regicidio, quando si tratta, beninteso, di dominatori con consistente materialità storica e politico-istituzionale: a parte, s’intende, l’uccisione del viceré marchese di Camarassa – che presenta caratteri tipici della vendetta – da parte degli aristocratici locali (nel 1668): mancherebbe, insomma, non tanto la Resurrezione, quanto il messaggio di speranza, di rinascita, che nel film di Columbu non può essere esaurito dal gruppo di bambini i quali, dopo l’esecuzione di Gesù, vanno inerpicandosi verso un’altura.
Un altro problema è quello costituito dal ruolo e dall’immagine della donna, decisivo non solo per costruire una cinematografia nuova, ma fondamentale per un progetto di liberazione economico-sociale, linguistica, culturale e spirituale di questo nostro popolo. Ho il timore, l’impressione (spero sbagliati) che il film di Columbu, con tutti quegli uomini-pastori violenti – del resto la morte di Gesù è impastata di violenza maschile – possa risultare in ultima analisi respingente ed escludente per il mondo femminile, così come a lungo questa caratteristica è stata propria di un “ordine del discorso”, di una certa prospettiva – chiamiamola così, molto genericamente – sardista-indipendentista. Non dimentichiamo d’altra parte gli sviluppi di una letteratura filosofica che delinea la figura di Maria come donna non remissiva e che non si limita a piangere; dal canto loro le ricerche ed il dibattito in campo storico, sociologico ed etnoantropologico, lungi dal cadere nel mito del matriarcato, hanno offerto sulla donna – nella realtà isolana di ieri e di oggi – spunti ed idee originali.
Verso una cinematografia nazionale sarda. In ogni caso, dal momento che tali considerazioni, come si è detto in precedenza, sono state stimolate proprio dalla visione di Su Re, tale opera rappresenta una tappa imprescindibile nel lungo e difficile cammino che potrà condurre da una più o meno indistinta nouvelle vague sarda (com’è stata definita, forse indebitamente) – ed in particolare dai film di Bonifacio Angius, dello stesso Columbu e di Simone Contu – ad una cinematografia nazionale, in su sentidu sardu de sa paràula, la quale non potrà che esprimersi nella lingua dell’isola.