PROGRAMMA DEL CONVEGNO, 3 GIUGNO 2011 Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 2011 CONVEGNO. Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…

(Cascata del ruscello S'arriu Mannu, Seneghe).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casa Aragonese, Seneghe, venerdì 3 giugno 2011, ore 16,00 – 20.00.

Saluto di  Antonio Luchesu, sindaco di Seneghe,

Coordina: Bachisio Bandinu,  presidente della Fondazione Sardinia

Ore 16,00  – 17,00 relazioni

1 Nicolò Migheli, sociologo,   Il “servaggio”: quale politica per la libertà dei sardi. (vedi il testo)

2 Benedetto Sechi, presidente della lega delle cooperative delle provincee di Sassari e della Gallura, Dopo lo tzunami di un’economia: dove si va? (vedi il testo)

3 Alberto Merler,  docente ordinario di sociologia presso  l’Università di Sassari,  Le istituzioni, l’università, le comunità (vedi allegato).

4 Salvatore Cubeddu, sociologo,   Le istituzioni della libertà (vedi il testo).

5 Gianfranco Pintore, giornalista,   Sa cultura “in sardo” . (vedi il testo)

*hanno annunciato il loro intervento e si preoccuperanno di farcelo avere per iscritto: Vincenzo Migaleddu (medico,   “ Ambiente e salute:  prezzi pagati e prezzi da pagare” , (testo in sardo, (testo in italiano) e Mario Cubeddu (Elogio di Barack Obama … con un post scriptum sui pregi e i limiti dell’ “indignazione”, vedi il testo).

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    2 Comments to “PROGRAMMA DEL CONVEGNO, 3 GIUGNO 2011 Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 2011 CONVEGNO. Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…”

    1. By Franco Meloni, 5 giugno 2011 @ 13:06

      Riporto l’interessante articolo di Massimo Dadea apparso oggi 5 giugno nel sito di Sardegna Democratica (www.sardegnademocratica.it), Per correttezza lo riporto tutto, anche se la parte che più mi ha personalmente interessato e che porgo all’attenzione dei lettori di questo sito è quella che parla di federalismo. Mi sembra importante rilevare come da sinistra si parli di tale opzione senza demonizzazioni, ma, al contrario, come di una possibile scelta istituzionale, sulla quale allo stato occorre confrontarsi, con apertura mentale, ma anche con la dovuta concretezza e fretta (stando le scadenze del federalismo) avendo particolare attenzione a quanto sta accadendo in Catalogna, in Scozia e in altri luoghi, laddove si sta praticando un approccio democratico (cioè partecipato), senza pregiudizi, e mi pare pragmatico (serve o no?) ai problemi. Si tratta infatti di capire se l’ipotesi indipendentista possa essere praticata a vantaggio delle popolazioni e (mi sembra) dentro il quadro dell’Europa comunitaria, posto che la stessa Europa debba essere ripensata come Europa dei popoli, possibilmente nella prospettiva della costruzione degli Stati uniti d’Europa (ma queste sono mie proiezioni).
      Di seguito l’articolo di Massimo Dadea, che, lo ricordo, è un autorevole esponente del Partito Democratico Sardo.
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      All’indomani del brillante risultato elettorale conseguito dal PD alle elezioni amministrative e in vista del prossimo congresso regionale e dell’auspicata costruzione di un moderno partito riformista della Sardegna, federato con il PD nazionale, alcune domande si impongono. La prima. Il successo di Massimo Zedda a Cagliari dimostra in modo inequivocabile che le primarie di coalizione sono uno strumento indispensabile di democrazia diretta e il più delle volte la premessa necessaria per una affermazione alle elezioni vere e proprie; il rinnovamento generazionale e comunque del gruppo dirigente è oramai una condizione ineludibile; le primarie di coalizione dovrebbero essere precedute sempre da primarie all’interno del PD.

      La seconda: all’interno di quale orizzonte politico e programmatico si ritiene di dover ricercare le future alleanze? Il quadro che emerge all’indomani delle elezioni amministrative evidenzia una mappa variegata, multicolore: dal rosso intenso, al rosa sbiadito, dal bianco acceso, all’azzurro spento. A Olbia, sia pure in una situazione particolare, il PD è stato parte integrante di un’alleanza che metteva insieme la sinistra (SEL, IDV) e i partiti di centro destra (UPL, API, una parte dell’UDC, Futuro e libertà); a Cagliari è stato decisivo in una coalizione di centro sinistra; a Sinnai si è alleato con UDC, FLI, Partito sardo d’azione, Riformatori; ad Orosei, l’alleanza più imbarazzante, con il PDL contro un sindaco ed una giunta di centro sinistra impegnata in un’azione di profondo cambiamento.

      Decisioni contraddittorie che sembrano ispirarsi a un sistema di alleanze a “geometria variabile”, diverse da caso a caso, da luogo a luogo. In buona sostanza, la scelta strategica sarà quella che ha trionfato a Cagliari, oppure quella di Olbia, di Sinnai e di Macerata? Una scelta decisa e coerente in materia di alleanze potrebbe aiutare a definire meglio l’identità del “nuovo” partito.

      La terza: quale è la proposta sul tema cruciale del rapporto istituzionale tra la Sardegna e lo Stato italiano? Le opzioni sono diverse. La più scontata potrebbe essere quella di rimanere abbarbicati all’Autonomia speciale. Un’ipotesi che, nel momento in cui si stanno approvando i decreti attuativi di un federalismo fiscale che accentuerà le differenze tra regioni povere e regioni ricche e che imporrà un federalismo egoista e punitivo, porterà alla cancellazione dell’Autonomia speciale e all’omologazione della Sardegna alle altre regioni. Un’altra opzione potrebbe essere quella di rinegoziare il “patto” costituzionale che ci lega allo Stato italiano, strappando nuovi poteri e un di più di sovranità.

      Un nuovo patto che consenta alla Sardegna di poter decidere su tutte quelle questioni dove più ingombrante e pervasiva è la presenza dello Stato: servitù militari, energia, ambiente, paesaggio, rapporti internazionali. Un’evoluzione positiva ma che non tiene conto che l’idea di federalismo prevalente oggi in Italia non è quella di una riforma istituzionale che porti alla costruzione di uno Stato federale, bensì di una mera riforma fiscale a tutto vantaggio delle regioni con maggiore capacità impositiva.

      Vi sono poi altre ipotesi che comportano coraggio e una forte volontà innovativa: rompere il tabù della scelta indipendentista e iniziare a confrontarsi con un’opzione che è matura nella società sarda e che risponde ad una forte domanda di autogoverno e autodeterminazione. Nella convinzione che confrontarsi non vuol dire accettare a scatola chiusa l’idea indipendentista. Molte esperienze, da quella della Catalogna a quella della Scozia, oppure quella della Groenlandia, dimostrano come la ricerca di una via originale, democratica, verso forme di indipendenza, sia possibile, persino auspicabile.

      Nella consapevolezza che indipendenza non vuol dire necessariamente separazione o secessione, ma la ricerca consensuale di un rapporto paritario, tra eguali, con Stato italiano: indipendenti non per separarci ma per integrarci in un mondo sempre più interdipendente. Tre quesiti che toccano questioni fondanti e dalla cui risposta dipenderà, in parte, l’essenza stessa del partito “nuovo”.

    2. By marco ligas, 27 maggio 2011 @ 15:20

      Caro Salvatore,

      ti invio, come mi hai proposto, alcune considerazioni sul DOCUMENTO DI SENEGHE. Lo faccio riprendendo un mio articolo pubblicato negli anni scorsi sulla RIVISTA DEL MANIFESTO e riproducendone alcune parti.
      Mi soffermo sulla prima domanda del Documento, quella che affronta la questione istituzionale. Qual è la nostra posizione in proposito? È opportuno definire preliminarmente una CORNICE ISTITUZIONALE? Io credo che sia necessario anche se sono consapevole delle diverse interpretazioni che si danno ai concetti di Autonomia, Federalismo, Separatismo, Indipendentismo, ecc. Per quanto mi riguarda sgombro subito il terreno dagli equivoci, almeno da alcuni, e dico che sono favorevole ad un federalismo che consenta alla Sardegna di praticare il massimo di indipendenza, all’interno della compagine della Repubblica e dei valori fondamentali della Costituzione.
      Io ritengo, e qui mi rifaccio all’articolo di cui ho detto riproponendone una parte, che nel dibattito in corso si sottovaluta come non esistano forme istituzionali valide di per sé; il federalismo per esempio ha referenti storici contrastanti: si può coniugare infatti sia con lo stato liberista che con quello sociale, sia con un regime parlamentare che con uno presiden¬ziale. Insomma, da solo, non dà connotazione ad una istituzione politica: deve accompagnarsi ad altri valori.
      È significativo che già 60 anni fa un tenace sostenitore dell’autonomia regionale come Renzo Laconi, allora si parlava prevalentemente di autonomia, sostenesse che questa non ha un valore per sé stessa, ma lo assume se viene correlata ad una legislazione speciale che consenta la nascita di strutture e di ‘classi’ capaci di dar vita ad iniziative locali di trasformazione e di progresso economico e sociale. Senza queste condizioni – continuava Laconi – ‘gli istituti autonomistici si trasformano in un apparato oneroso e inutile e non è escluso che larghi strati della popolazione ricadano nell’errore di un falso unitarismo’.
      Pur non nascondendo un giudizio critico sullo statuto del 1948, Laconi sottolineava come esso offrisse sia alla giunta regionale che al consiglio gli strumenti per contrastare gli interessi consolidati del blocco conservatore, allora rappresentato dagli agrari, dagli industriali e dai commercianti del formaggio. Nel riconoscere questa opportunità allo statuto speciale, non mi sembra arbitrario sostenere che le preoccupazioni di Laconi più che sul terreno legislativo (della qualità della legge) si manifestassero su quello proprio della politica, ovvero della volontà dei partiti di rispettare le indicazioni presenti nello statuto, scaturite dalle lotte popolari sviluppatesi nell’immediato dopo guerra.
      Dobbiamo riconoscere che nell’analisi di Laconi c’era lungimiranza. Non solo è mancata la legislazione capace di favorire l’emancipazione delle classi sociali subalterne, ma sono mancate anche le iniziative perché si creasse in Sardegna una struttura economica in grado di promuovere uno sviluppo autonomo. Le stesse componenti della sinistra sono state imbrigliate in una politica contestativa ‘unitaria’, abilmente orchestrata dalla democrazia cristiana locale, nei confronti dello stato che disattendeva i bisogni del popolo sardo.
      Sono emblematici gli interventi realizzati allora in un settore chiave dell’economia isolana, quello dell’agricoltura.
      Nell’immediato dopoguerra in tutto il Mezzogiorno e in Sardegna le lotte dei braccianti e dei contadini per l’uso delle terre incolte furono molto intense e a volte drammatiche. Diverse persone conobbero il carcere in seguito agli scontri con le forze dell’ordine e qualcuna perse la vita. La riforma agraria che ne seguì, pur per certi versi apprezzabile per avere colpito rapporti di produzione feudali, ha creato al tempo stesso le basi di un nuovo sistema di potere nelle campagne. La legge dell’ottobre del ’50, che dettava le norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini, era una estensione di quella precedente (maggio ’50) che prevedeva provvedimenti per la colonizzazione della Sila. Essa aveva come obiettivo la ridistribuzione della proprietà terriera attraverso la concessione delle terre a contadini purché i territori fossero suscettibili di trasformazione fondiaria e agraria. A chi è stato affidato il compito degli espropri e delle nuove concessioni? Agli enti di colonizzazione o di trasformazione fondiaria: in Sardegna all’Etfas e all’Ente per il Flumendosa. E’ attorno a questi enti e alla politica clientelare che hanno realizzato (espropri, assegnazione delle terre, contributi innumerevoli ai contadini) che si è creata in Sardegna una nuova classe politica e sociale che è stata il perno della struttura del potere della dc sarda. Tutte queste iniziative non solo non sono riuscite a risanare l’agricoltura ma non hanno modificato neppure i rapporti di produzione nella pastorizia dove, per alcuni decenni ancora, la rendita fondiaria ha avuto un ruolo decisivo e devastante nei confronti dei pastori che possedevano piccole greggi senza le terre per i pascoli. È corretto allora attribuire alla inadeguatezza dello statuto speciale questo esito della riforma agraria o non si è trattato piuttosto di una scelta contraria all’ispirazione autonomistica, funzionale soltanto alla difesa degli interessi della nuova borghesia sarda?
      Nel settore industriale le cose non sono andate in modo diverso. Abbandonata progressivamente la produzione del carbone nel bacino del Sulcis, dove esisteva la seconda concentrazione operaia del paese con circa 18.000 lavoratori, i nuovi interventi hanno avuto come caratteristiche principali la lavorazione di materie prime importate (petrolchimica) e il perdurante disinteresse verso un sistema industriale che valorizzasse le risorse locali e al tempo stesso creasse le infrastrutture necessarie per alimentare la famosa rinascita (pensiamo al problema che l’isola ha sempre avuto in tema di trasporti).
      Certamente nessuno può negare come l’atteggiamento del governo nazionale abbia contrastato ripetutamente l’esercizio autonomo delle iniziative e delle prerogative della Regione. Al tempo stesso però sembra giustificatoria della propria inettitudine l’accusa secondo cui l’autonomia di cui ha goduto la Sardegna sia stata molto parziale al punto da determinare la mancata rinascita dell’isola. Non dimentichiamo che lo statuto ha offerto alla giunta e al consiglio regionali la possibilità di legiferare in diversi settori dell’attività produttiva. Il torto di chi ha governato è quello di avere in buona misura ignorato questi strumenti o di averli usati a fini clientelari o, nella migliore delle ipotesi, con la mentalità di amministratori aziendali.
      Oggi le cose sono cambiate notevolmente a tutti i livelli. La stessa specialità dello statuto sardo ha perso la sua funzione originaria; ci troviamo infatti in una fase di transizione che ha già modificato e modificherà ulteriormente i rapporti tra centro e periferia. Il parlamento ha approvato nuove forme di decentramento e le stesse regioni a statuto ordinario godono di un’autonomia per certi aspetti maggiore di quella della regione sarda. L’esigenza di una revisione statutaria anche per la Sardegna non è infondata
      … Ciò che viene ancora una volta sottovalutato è il tipo di federalismo auspicato. Il federalismo che oggi si sta affermando, quello fiscale, intende limitare al massimo il ruolo dello stato federale attraverso un indebolimento progressivo del legame sociale che tiene uniti i cittadini. Lo stesso articolo 119 della costituzione, rivisto e approvato recentemente dal parlamento, pur salvando l’esigenza di perequazione delle situazioni meno avvantaggiate, introduce il principio secondo cui che le regioni e gli enti locali debbano reggersi con la finanza propria e al tempo stesso cancella il riferimento specifico al mezzogiorno e alle isole.
      Si premia in questo modo l’arroganza delle regioni forti del nord che in passato hanno incrementato le proprie ricchezze incorporando il frutto del lavoro di centinaia di migliaia di emigrati del sud e delle isole e oggi protestano perché la copertura fiscale della spesa pubblica ricade in modo rilevante sulle loro spalle. In questa visione municipalistica del federalismo il discorso sugli sprechi dell’amministrazione pubblica è pretestuoso; gli sprechi che ci sono stati in passato, e tutti sappiamo quanto abbiano penalizzato soprattutto lo sviluppo del mezzogiorno, occorre eliminarli; ma questa scelta, fondamentale sia sotto il profilo della moralità che della buona amministrazione, non può portare al blocco della spesa pubblica e soprattutto non può porre fine alle politiche sociali e redistributive.
      In questa situazione è poco comprensibile che in Sardegna tutti ci si batta per il federalismo senza soffermarsi adeguatamente sul tipo di federalismo compatibile con i bisogni dell’isola e delle regioni del sud. Oppure che si scelga il separatismo come obiettivo estremo per il raggiungimento dell’indipendenza dell’isola. La stessa richiesta di assemblea costituente è insufficiente se non è accompagnata da una seria analisi e da proposte adeguate sulla situazione economica sociale e culturale che abbiamo oggi in Sardegna.
      Lo stesso concetto di identità ha bisogno di essere rivisitato alla luce dei processi di rinnovamento che sono in corso nella società contemporanea in quanto l’appartenenza ad una cultura non significa accettazione acritica della stessa per considerarsene parte integrante una volta per tutte ma piuttosto difenderne i tratti distintivi rapportandoli, in modo dinamico, alla realtà politica ed ai suoi continui mutamenti.
      Se sei d’accordo interverrò ancora in questo dibattito sul ruolo degli intellettuali sardi.