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Su Re, tutte le recensioni

Posted By cubeddu On 18 aprile 2013 @ 10:49 In Blog,Cinema | Comments Disabled

www.spietati.it, Su Re, di Giovanni Columbu/ Da “Avvenire”, 28 novembre 2012, “Su Re”, i Vangeli in sardo, di Alessandra De Luca/ Da  NON SOLO CINEMA, 29 novembre 2012, Torino: “Su Re” di Giovanni Columbu / Da “CINE blog.it, Torino 2012 – Su Re: recensione in anteprima (Concorso) Pubblicato il 29 nov 2012 da Gabriele Capolino/ Da”MICROMEGA” , dicembre 2012, Il film della settimana: “Su Re” di Giovanni Columbu di Giona A. Nazzaro/ Dal blog di “TISCALI.IT”, 27 novembre 2012, Su Re, il Vangelo secondo la Sardegna, La Redazione – Cinematografo.it / Da “L’UNITA’” 28 NOVEMBRE 2012, Columbu: il suo Cristo sardo sarebbe piaciuto tanto a Mosè, di Dario Zonta/ Da ‘L’UNIONE SARDA’,

L’universalità del Gesù sardo raccontato dai volti degli umili, di Sergio Naitza/ Da ‘Avvenire’, 1 marzo 2013, ADESSO L’UOMO DEI DOLORI PARLA IN SARDO – Intervista al regista, DI DARIO ZONTA / Da “ LA REPUBBLICA”,  20 marzo 2013, Arriva un film francescano che ha stregato Nanni Moretti, di  ARIANNA FINOS / Da ‘La Nuova Sardegna’, 21 marzo 2013, “Su Re”, vangelo filtrato dalla identità sarda, di Gianni Olla  -  Il regista: «Felice di aver superato ostacoli e mille difficoltà» di Sabrlna Zedda / D a “Il Sole 24 ore” 24 marzo 2013, Se Cristo rimane senza parole / Da ‘L’UNITA’’ 28  marzo 2013, Quando “Su Re” è un Cristo umile voce di speranza portata dal vento. Di Massimiliano Messina / Da ‘L’OSSERVATORE ROMANO’  29 marzo 2013, Se Gesù muore in Sardegna, di Ritanna Armeni – “E’ innocente” grida Maria nel Sinedrio. A colloquio con il regista Giovanni Columbu, di Luca Pellegrini / Da  ‘IL CORRIERE DELLA SERA’ 29 marzo 2013, La passione di Cristo tra i nuraghi sardi, di Paolo Mereghetti / Da “Lo straniero”, marzo 2013, Su Re: l’assenza e il silenzio, di Costantino Cossu – Il Vangelo in Sardegna di Giovanni Columbu incontro con Dario Zonta

 

 

Da www.spietati.it 1 ottobre 2012

Su Re, di Giovanni Columbu

Auguriamo le migliori sorti il Su Re, opera seconda, dopo Arcipelaghi (2001), del 63enne Giovanni Colurnbu, filrn in procinto di essere distribuito dalla Sacher film. Auguòriamo le migliori sorti a questo che è insieme un gesto arcaico e contemporaneo di un’autocoscienza commovente.

Girato a Oliena, nell’entroterra sardo (dove John Huston, nel 1966, girò un lacerto di la Bibbia), interpretato da non professionisti del luogo e recitato nel dialetto locale, è un vero e proprio rito, una messa e la messa in scena del Nuovo Testamento, secondo una lettura sinottica dei 4 Vangeli: il dispositivo predisposto da Columbu irradia un cinema che guarda alla modernità, a una esplosione del punto di vista che si traduce in progressivi e regressivi  spostamenti, in un loop di prolessi e anafessi (il regista stesso cita  Rashornon), come se in uno scavo archeologico beffardo si rinvenisse la forma abituale (plurale e frammentata) della rappresentazione contemporanea (quelladigitale, parcellizzata, remixata) lì, tra le pagine dI Giovanni, Matteo,  Luca, Marco. Ma non solo, ovviamente: cinema terricolo, che si rivolge alla Sardegna, a i suoi luoghi e ai suoi volti, agII uomini e alle donne che la abitano, convocandoli a partecipare a questa eucarestia, a questa fagocitazione della Sacra Scrittura da parte del paesaggio umano e non, a questa appropriazione locale di una narrazione universale. Per questo sono chiarnate a collaborare le istituzioni sarde, persino il centro di salute mentale di Cagliari: il set Sardegna è il luogo per una funzione, per la rimessa in scena, per un rituale che ripensi, sulla propria pelle, nelle proprie vesti, con la propria lingua, quella storia. Per rjspecchiarvicisi e riscoprirvicisi, riattivandone la memoria nel qui e nell’ora. Come ‘Cesare deve morire’ dei Taviani, come le fiamme del Paradiso di Ernmer, Come In una preghiera comunitana, in una recita amatoriale. Glocale, nel senso nobile del termine, Su Re guarda cinematograficamente (ovvio) al Vangelo secondo Matteo di Pasollni, segue I Vangeli alla lettera per poterli riscrivere audiovisivamente con una rude, primigenità sovìbrietà pittorica, che si vuole materica e sensoriale e che cerca la forza primitiva nell’asprezza del  paesaggio, nei  lineamenti ostici dei visi. Cinema sacro e terragno, capce di cortocircuiti visionari, di consapevoli, fertilissime aporie.

 

Da “Avvenire”, 28 novembre 2012

“Su Re”, i Vangeli in sardo, di Alessandra De Luca

La Passione di Cristo tra le pietrose colline della Sardegna per scoprire che Gesù è tra noi. Ieri in competizione al Festival di Torino è arrivato uno dei film italiani più interessanti e linguisticamente originali degli ultimi anni, Su Re (II Re) di Giovanni Columbu che mette in scena le ultime ore della vita di Cristo, dall’ultima cena alla crocefissione, incrociando sinotticamente i quattro Vangeli. Realizzato con la consulenza di don Antonio Pinna, vicepresidente della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, il film ha preso forma prima come racconto in una chiesa di Cagliari, dove è partita una sottoscrizione per ottenere finanziamenti. Tra gli interpreti, tutti non professionisti, ci sono anche quelli provenienti da centri di salute mentale.

«Anni fa nella chiesa di Santa Maria in via Lata – racconta il regista, già autore di programmi tv, documentari e del film Arcipelaghi - fui colpito da una mostra sulla Sacra Sindone: una tavola riportava su quattro colonne i brani dei Vangeli che descrivevano i patimenti inflitti a Gesù. Li ho riletti in maniera trasversale e il film nasce proprio dalla commozione di fronte a questi testi interessanti nel testimoniare l’incertezza della verità e moderni nella loro struttura seriale, reiterativa, la stessa usata nei ritratti di Andy Warhol». Per ragioni economiche poi l’idea dei “passi paralleli” riferiti ai singoli evangelisti, che rimandava anche al Rashomon di Kurosawa, ha ceduto il passo a una sequenza narrativa non lineare, vicina alla memoria e al sogno. Il film si apre e si chiude infatti nel sepolcro di Cristo: tutto è già avvenuto e i protagonisti ricordano. «Proprio come nell’esperienza del ricordare collettivo e rituale che è la Messa cristiana, la storia viene raccontata per episodi e frammenti». Ma perché raccontare il Vangelo? «Perché quella storia di un’umanità capace di atti edificanti o estremamente crudeli non è stata ancora veramente raccontata. Pensate a quanto cinema di fantascienza, da Alien a E.T, affonda le sue radici in quei testi! Sono molto interessato al sentimento religioso, credo che la differenza tra ateo e credente sia superficiale, tutti noi siamo alla continua ricerca della dimensione che ci trascende».

E a proposito della decisione di ambientare la Passione in Sardegna, sulla scia dei pittori rinascimentali che collocavano gli episodi del Vangelo al loro tempo e nelle rispettive città, il regista aggiunge: «II trasferimento in Sardegna concorre all’universalità della storia, così come la frase più volte ripetuta, e presente solo nel Vangelo di Matteo: “Se è innocente, che il suo sangue ricada su tutti noi”, non allude alla colpevolezza degli ebrei ma a una sorta di maledizione per l’umanità». Lontano dalla tradizionale iconografia cristiana che vuole Gesù biondo e con gli occhi azzurri, il Cristo interpretato da Fiorenzo Mattu non è certo bello, ma rimanda a una dimensione interiore visibile solo ai puri di cuore e corrisponde piuttosto all’unica descrizione che precede i Vangeli, contenuta nella profezia di Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere». «L’aspetto materico e ruvidamente concreto, quasi espressionista della messa in scena – spiega ancora il regista – è dovuto al fatto che a differenza de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, centrato sulla parola, Su Re punta ai silenzi e ai rumori, a quel mistero ancora più vasto che rimanda al non detto. Non è facile riportare le sintetiche parole del Vangelo nel vissuto, nel reale, senza rischiare la teatralità e le frasi ripetute sono una sorta di eco di quelle parole nell’animo umano». A proposito della macchina da presa sempre in movimento fra tremolii e sussulti, spiega: «Non volevo chiudere il film in una formulazione astratta, in una rigidità teatrale. E poi quel continuo traballare fa pensare che qualcosa di grandioso sta per accadere, a un terremoto che se non ha davvero scosso la terra ha travolto il cuore degli uomini».

 

 

Da  NON SOLO CINEMA, 29 novembre 2012

Torino: “Su Re” di Giovanni Columbu

Il re dei re

Articolo di Paola Assom - Pubblicato giovedì 29 novembre 2012

 

“Mio padre ha avuto molto coraggio per fare un film come questo” – dice Simonetta, la figlia del regista Giovanni Columbu e colei che nel film interpreta la Madonna giovane – “ma – prosegue – mi ha anche insegnato che non dobbiamo mai soffocare il nostro lavoro e la nostra arte”.

E coraggio l’ha avuto anche Nanni Moretti che di nuovo – come per Cesare deve morire dei Fratelli Taviani, Orso d’oro a Berlino lo scorso febbraio – con la sua distribuzione Sacher ha sostenuto un film che rappresenta una sfida. Questa pellicola – in concorso alla 30° edizione del festival del cinema di Torino – ­potrebbe regalare nuove e grandi soddisfazioni. Su Re è “il re” in lingua sarda, quel re torturato, vilipeso, inchiodato e ucciso su una croce. Vicenda universalmente nota e innumerevoli volte riprodotta, da Pasolini a Mel Gibson, passando per Jesus Christ Superstar.

Ma una passione e morte dì Gesù come questa non si era mai vista. Il paesaggio aspro e desolato dell’entroterra della Sardegna offre un ambiente naturale di rara suggestione, dove le immagini, le attese, i silenzi, i visi, le espressioni, sono fondamentali. Il nero delle lunghe mantelle e dei cappucci rende i personaggi simili a corvi danzanti intorno alla vittima. La parola è quasi assente, limitata a citazioni evangeliche che, dice il regista “Sono difficili da rappresentare, perché sono frasi concise e brevi”. Citazioni tutte pronunciate nella aspra e antica lingua sarda – sottotitolata – che offre un suono arcaico e un tono tragicamente solenne. Impressionante la scelta dei colori e delle immagini girate al chiuso, dove colori seppiati e lame di luce ricordano dipinti di Caravaggio Una rappresentazione che porta indietro nel tempo senza aver bisogno di nessun effetto speciale, che rende il clima, l’ambiente e i fatti con un realismo impressionante eppure senza mai eccedere i spettacolarismi inutili o eccessivi. Se la scelta di non attori professionisti è cosa ormai frequente nel cinema, ben più innovativa e coraggiosa è stata la scelta di far interpretare Gesù a un uomo sì, giovane, ma corpulento, con barba e capelli neri e corti, il naso storto e gli occhi bovini. Nemmeno Pasolini aveva osato tanto, facendo interpretare Gesù a un non attore, un non biondo, tuttavia bellissimo come l’allora diciannovenne Enrique Irazoqui. “Contro ogni stereotipo – dice Columbu – il mio Gesù è brutto, ma non ci si deve stupire, nella Bibbia Isaia dice: Egli non avrà beltà, che possa suscitare compiacimento ai nostri occhi”.

Il sessantatreenne nuorese Giovanni Columbu, architetto, scrittore, autore cinematografico dice: “Mi ha affascinato la modernità della ripetizione vista da diversi osservatori contenuta nei quattro Vangeli e ne ho voluto fare un racconto non didascalico, valido anche per chi non è credente”. Dopo Arcipelaghi del 2001, con questo film è al suo secondo lungometraggio.

 

 

Da “CINE blog.it

Torino 2012 – Su Re: recensione in anteprima (Concorso) Pubblicato il 29 nov 2012 da Gabriele Capolino

 

Su Re è un bel film italiano: coraggioso, stimolante, e con una messa in scena pienamente convincente. Secondo film nostrano in concorso al 30. Torino Film Festival, dopo ‘Smettere di fumare fumando’ di Gipi, l’opera di Giovanni Columbu spicca senza problemi nel panorama del cinema italiano, per capacità di usare un linguaggio “ardito”, ma anche per un’invidiabile resa tecnica. Su Re è un’opera sulla scia di ‘Cesare deve morire’, quindi sperimentale e innovativa L’operazione che Columbu compie in Su Re è molto particolare Prende i quattro Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, e, per raccontare l’ultima parte della vita di Gesù Cristo, li “ricompone” assieme. Fa quindi due interpretazioni, collegate l’una all’altra in modo decisamente coerente e personale. I fatti delle ultime ore di Gesù vengono descritti nel Vangeli secondo punti di vista diversi: questo perché a narrare la storia sono quattro uomini diversi, che la filtrano attraverso la loro memoria ed esperienza umana.

Dando spazio a tutt’e quattro le versioni di raccontare la storia della vita di Cristo, Columbu decide di ambientarla in un posto ben riconoscibile e che conosce in prima persona: la Sardegna Cosi sceglie attori non professionisti del posto – e perfino i pazienti dei Centri di Salute Mentale, facce che in molti hanno già definito “pasoliniane”, ma che in un film del genere danno un tocco unico e rendono Cristo e la vicenda narrata umane, forse mai cosi vicini all’uomo sul grande schermo.

L’idea di Su Re viene in mente al suo autore ben quindici anni fa, quando vede in una chiesa una “tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro Vangeli che descrivono i patimenti inflitti a Gesù”. Quattro testimoni dello stesso fatto, quattro modi di raccontare un’identica vicenda, in cui però a fare la differenza sono i dettagli. Per qualcuno potrà anche peccare in presunzione (viene da pensare che il regista sia il “quinto evangelista” che, in qualche modo, mette ordine ai fatti), ma Columbu ha invece prima di tutto la stoffa del narratore.

Vicino ma allo stesso tempo lontano dal Pasolini de ‘Il Vangelo secondo Matteo’, e lontanissimo dalla patina hollywoodiana de ‘L’ultima tentazione di Cristo’ di Gibson, Columbu sceglie Fiorenzo Mattu come interprete del Cristo. Un volto che non si accosterebbe subito a Gesù Cristo, ma che all’interno del percorso del suo autore risulta una “pedina” dalla faccia indispensabile e subito riconoscibile, in un film che fa di una struttura a-cronologica uno dei suoi punti di forza

All’inizio del film Gesù è già morto sulla Croce. e Maria lo regge fra le braccia. Poi si torna indietro nel tempo, al momento della Crocifissione In mezzo ci sono tutti i passaggi che conosciamo: l’Ultima Cena, il tradimento di Giuda e il suo pentimento, l’arresto di Gesù nel Getsemani, la Via Crucis, le torture. Torture che sono violente e terribili, ma che restano spesso fuori campo: un pudore che fa ancora più male, grazie ad un sonoro potentissimo (si pensi al suono del martello sui chiodi, o alle frustate). I diversi momenti poi ritornano, si mischiano tra loro, hanno angolazioni diverse e ci offrono qualcosa in più rispetto a prima.

L’intera operazione ricorda a suo modo, con le dovute differenze, quello che aveva fatto Andrea Arnold con Wuthering Heights, per quel che riguarda ambientazioni e resa visiva: se le ultime ore della vita di Gesù dovevano per forza tornare al cinema forse “personalizzare”. Il tutto era l’unica soluzione possibile. L’inquieta macchina da presa riprende un paesaggio arcaico, e masse di persone, primissimi piani, composizioni curate. Quando si dice il potere della messa in scena.

Girato con la Red, e con una magnifica fotografia curata da Massimo Foletti, Uliano Lucas, Francisco Della Chiesa, Su Re può anche godere, come si diceva a proposito delle pene inflitte a Gesù, di un audio potentissimo, che tra vento e riverberi fa spesso tremare le gambe. Sarà anche un film ostico, rna il risultato vince senza sconti. Soprattutto per una parte finale di grande bellezza: come non emozionarsi con l’ultima soggettiva di Cristo, che guarda la folla e soprattutto sua madre? Chiusura con Nunc Dimiltis del minimalista sacro Arvo Part. unico brano musicale all’interno di una pellicola rigorosa e coerente

 

Voto di Gabriele: 7.5

Su Re (Italia 2012, sperimentale 87′) di Giovanni Colurnbu; con Fiorenzo Mattu, Pietrina Menneas, Gavino Ledda, Giovanni Frau, Maurizio Melis. Tonino Murgia, Mario Pira

 

 

Da “IL CORRIERE DELLA SERA”, 29 novembre 2013

Gesù in Sardegna (scoperto da Moretti), di Paolo Mereghetti

Il film «Su re» di COLUMBU  racconta la passione da diversi punti di vista cercando la verità. In Barbagia

 

Su re, cioè «il re» in sardo, è Gesù, il re dei giudei, messo a morte in croce. E il film di Giovanni Columbu racconta appunto la sua passione, dall’ultima cena alla sepoltura. Ma invece di una qualche verosimiglianza storica, il regista sceglie di radicare quei fatti nella sua Sardegna, usando volti e voci locali (c’è anche Gavino Ledda in una piccola parte nel Sinedrio).

ALLA RICERCA DELLA VERITÀ -E utilizza i racconti dei quattro Vangeli non per costruire una narrazione lineare ma per offrire una specie di variazione nella ripetizione. «All’inizio avevo pensato a una struttura alla Rashomon: i quattro Vangeli come quattro modi differenti di ricordare gli stessi fatti – spiega Columbu – poi ho preferito una struttura più libera, che comincia col corpo morto di Cristo e va avanti e indietro nel tempo, a cercare una “verità” che tutti conoscono ma che spesso sfugge». Ne esce un film affascinante e misterioso, dove la «durezza» della lingua e della natura sarda moltiplicano la forza emotiva della pagina evangelica.

NUOVE POSSIBILITÀ – Lo spettatore si fa prendere dal percorso ondivago del film, situazioni e personaggi tornano con sempre nuove possibilità di interpretazione, i silenzi sono squarciati dall’improvviso ripetersi di una frase o di un dialogo e la superficiale trascendenza dell’iconografia più tradizionale (cinematografica o pittorica che sia) viene spazzata via da questo Cristo per niente «bello» ma forte e commovente insieme. Un’operazione decisamente insolita, per certi versi non «facile», portata a termine anche grazie all’intervento di Nanni Moretti e della sua Sacher (che distribuirà il film) ma che lascia la sensazione gratificante di non aver sprecato il proprio tempo di spettatore.

TEMPO PRESENTE – Buono anche l’altro film in concorso, il turco Simdiki zaman (Tempo presente) di Belmin Sòylemez, ritratto di una donna che sogna di emigrare in America e che per trovare i soldi necessari si inventa lettrice di fondi di caffè. Scoprendo così che i propri problemi esistenziali e affettivi sono comuni a tantissime altre donne e che invece di interrogare il futuro sarebbe forse meglio guardare in faccia al presente.

 

Da”MICROMEGA” , dicembre 2012

MICROMEGA Cinema

Il film della settimana: “Su Re” di Giovanni Columbu di Giona A. Nazzaro

E poi arriva come dal nulla un film italiano che dimostra che un altro cinema è possibile.

Un film che arriva da una parte dimenticata del paese. Dove non ci sono angosce sentimentali da liceali. Né famigliole alto-borghesi radical-chic alle prese con le crisi dei primi 40 anni. Dove non si parla il solito italiano omogeneizzato da trent’anni di pessima televisione. Un film che ignora olimpicamente tutte – TUTTE – le convenzioni del cosiddetto cinema “ben fatto” da regime duopolio-generalista che ha devastato immaginario e linguaggio. Un film che opera un violentissimo scavalcamento di campo come non se ne vedeva dai tempi di Ciprì & Maresco.

Su Re di Giovanni Columbu squarcia la banalità del cinema italiano, quello che si vede nelle sale e non solo e che si continua a fare come in un fermo immagine fuori dalla storia.

Una dichiarazione di discontinuità impressionante. Una sorta di supremo urlo primordiale che ci riconcilia violentemente (ossimoro voluto) con le ragioni del fare cinema come strumento privilegiato per indagare le ragioni del nostro esserci.

Un “NO!” bello e necessario, insomma.

Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra.

Una contraddizione scioccante in un paese dimentico delle proprie lingue e felice della propria catastrofe borghese.

Senza contare che Giovanni Columbu, invece, osa iniziare Su Re con quella che a tutti gli effetti, stando alla grammatica maggioritaria, è un’inquadratura “sbagliata”.

Un’inquadratura che sembra fatta da un operatore mentre stava per rovinare fra le rocce. Una scelta di campo che, a nostro avviso, avvicina il film di Columbu allo straordinario Leviathan della coppia Lucien Castaing- Taylor e Verena Paravel, uno dei film che insieme a Twixt di Francis Ford Coppola, Tabù di Miguel Gomes e Holy Motors di Leos Carax ha riposizionato la barra del cinema contemporaneo verso una modalità di pensiero complessa e aperta.

Nonostante il cinema italiano vanti opere importanti che hanno portato sullo schermo la vita e la passione di Cristo – da Christus di Giulio Antamoro (1916) a Il vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Su Re si segnala come un lavoro di rara audacia formale attraversato da una commozione vera e altissima.

Columbu decostruisce la linearità narrativa della vicenda cristica. Come un incubo che s’avvolge su stesso, il regista pone al centro del suo film il mistero della crocifissione. Intorno a esso, come in un sogno continuamente interrotto che scorre su un nastro di Escher difettoso, brandelli della vita di Cristo sono posti costantemente in relazione con la morte sulla croce. La croce dunque come interrogativo ineludibile della vicenda terrena di Cristo.

Giovanni Columbu filma con una furia inebriata eppure controllata. La macchina a mano si muove come calata in un vortice di violenza impedendo allo spettatore di darsi qualsiasi punto di riferimento per orientarsi.

Le inquadrature di Su Re sembrano brandelli di spazio conquistati a fatica al resto del mondo e della vita. Come se il cinema non avesse (più) diritto di cittadinanza nel mondo e dovesse riconquistare il proprio posto strappandolo con le unghie.

Rispetto a Totò che visse due volte, opera dal nitore dreyeriano vicina al film di Columbu per la scelta del dialetto, degli interpreti non professionisti e degli ambienti naturali, Su Re spezza qualsiasi riconoscibilità cinefila. Anche i pur evidenti riferimenti pittorici sono come gettati nel mucchio senza alcuna preoccupazione che lo spettatore li possa riconoscere o meno. Anche se ovviamente Bosch e Brughel sono presenti nei lineamenti degli interpreti, nel paesaggio e nella composizione dei corpi in relazione alla profondità di campo.

Ciò che conta nel film di Columbu è il lavoro della macchina da presa, instancabile nella sua violenza dionisiaca, e il montaggio che interviene con ulteriore violenza sul girato già di suo vertiginoso.

Rispetto per esempio a un film importante come Il canto degli uccelli di Albert Serra, Columbu non cerca mai volutamente l’immagine lirica o evocativa. Tutte le inquadrature sono tagliate e montate in spregio a qualsiasi ottica di linearità. Nessun attacco è rispettato e la profondità di campo si gioca sempre contro il più bruciante dei primi piani o dettagli.

Come se il mistero di Cristo non potesse essere detto che da una voce o lingua che rinunci prima di tutto a essere lingua o voce per diventare altro da sè e ritrovare così (forse) Cristo nell’esilio e nella distanza dal mondo. Diventare irriconoscibili e inconoscibili a se stessi e al mondo per andare incontro al mistero della Salvazione. Andargli incontro privi di tutto.

Che questo interrogativo sia formulato e detto da Columbu attraverso i soli mezzi del lavoro cinematografico è forse il merito maggiore del film che in questo si apre allo sguardo senza anteporre alla fruizione necessariamente le clausole del discorso confessionale.

Su Re dunque è un film importante e che resterà. L’opera di un regista forte e singolare che ci ricorda tutto ciò che il nostro cinema non è più .

 

Dal blog di “TISCALI.IT”, 27 novembre 2012

Su Re, il Vangelo secondo la Sardegna, La Redazione – Cinematografo.it

AI 3D· Festival di Torino i sinottici rivisti dall’ottimo Giovanni Columbu: sulla scia del ritorno del sacro di René Girard, un Cristo rifatto Uomo

 

La tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente, prepara il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente, nella forma della violenza e del sapere della violenza.

Ci vuole il buon vecchio René Girard per accostarsi a Su Re (“II Re”), il film in Concorso a Torino che il regista Giovanni Columbu ha tratto dai Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni.

E’ un quinto vangelo, sardo (Parlato in sardo, sottotitolato in italiano), dove i sinottici vengono frullati dice il regista come in Rashomon di Kurosawa: intenzione progressivamente abbandonata per lasciare spazio all’idea di un sogno, in cui gli accadimenti si ripropongono nella loro perdurante drammaticità e in una sequenza non lineare: proprio come nell’esperienza del ricordare rituale e collettivo che è la messa cristiana.

Dunque, non più scene ripetute alla Rashomon, ma la Sardegna quale novità principe:

Modificando le coordinate geografiche e storiche dei fatti accaduti, le vicende originali tornano a vivere in una luce nuova e si arricchiscono di nuovi possibili significati. Si pensa, ovvio, al Vangelo secondo Matteo di Pasolini, si ritrovano quadri e cori da Ciprì e Maresco, soprattutto, si trova più la pittura che il cinema: Caravaggio, su tutti, per tagli di luce e fisiognomica degli interpreti.

Seguendo la profezia di Isaia Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere Columbu affida Cristo a Fiorenzo Mattu, la cui immagine rimanda alla dimensione interiore (della bellezza) visibile solo ai puri di cuore a cui, come è detto nel Discorso della Montagna, è riservato il privilegio di vedere Dio. Non è bello, proprio no, Mattu, ricorda un Bacchino tumefatto, con occhi e labbra da pesce palla. Basso, scuro e peloso: dimenticate l’iconografia zeffirelliana, il Cristo bello, biondo e agiografico, le fattezze da santino e i lunghi capelli lisci da pubblicità del Pantene.

No, qui il ritorno surrettizio del sacro passa dall’iconoclastia dell’immaginario eletto: cancellazione violenta di quel pregresso, cinematografico e non solo, che ha cancellato il sacro e il suo ritorno immanente, tra le pietre, il vento e la natura brulla dell’isola, per far esplodere le calcificazioni del devozionismo e ritrovare il sapere della violenza.

Cristo soffre e sanguina, ci mancherebbe, ma la violenza è un’altra: dotta, informata e

letteralmente appassionata, la potente, fascinosa rilettura di Columbu scarifica la parafrasi omogeneizzata delle Letture e ritrova il Cristo fatto uomo, riportando sullo schermo la kenosis. La salvezza.

Su Re arriverà nelle nostre sale nel 2013 con Sacher Distribuzione: i puri di occhi se ne ricordino.

 

Da “L’UNITA’” 28 NOVEMBRE 2012

Columbu: il suo Cristo sardo sarebbe piaciuto tanto a Mosè

Di DARIO ZONTA TORINO

 

IL FESTIVAL DI TORINO OGGI CI HA FATTO UN GRANDE REGALO PORTANDO IN CON­CORSO L’ULTIMO FILM DI GIOVANNI COLUM­BU, «SU RE», TRASPOSIZIONE INNOVATIVA E POTENTISSIMA DELLA PASSIONE DI CRISTO, TRATTA DAI QUATTRO VANGELI E AMBIEN­TATA NELLA SARDEGNA ARCAICA DEL SUPRAMONTE.Di tutti film ispirati alla vita di Gesù, SuRe è tra i più originali e ardi­ti perché riesce a rompere il velo seco­lare di una rappresentazione cinemato­grafica cristallizzata e canonica, con la sola eccezione del Vangelo di Pasolini a cui Columbu certo si richiama pur prendendo le dovute distanze. Come il regista ci ha ricordato, il Vangelo di Pa­salini aveva al suo centro la parola, mentre in Su Re la parola è marginale ed è affidata, tra l’altro, alla lingua sar­da, antica e «dura» come quella della Bibbia. Come fosse un canto sacro, il posto della parola è preso dai silenzi rotti dal vento, dal suono degli zoccoli degli asini, dal pianto, dai lamenti e dai sospiri. Suoni della natura e dell’anima che riecheggiano nella straordinaria lo­cation del film, girato a Oliena, sui pic­chi del monte Corrasi, stesso set in cui Houston ambientò gli ultimi cinque mi­nuti della sua Bibbia.

Stiamo cercando, dunque, di stabili­re a caldo nuovi parametri per accoglie­re quest’opera importante, frutto di un lavoro lungo e rigoroso, avendo capito da subito che i riferimenti, tanto dram­maturgici quanto visivi, non sono da cercare nel cinema, bensì nella pittura e in una originale rilettura dei Vangeli.

Ispirandosi a una tavola scoperta nella chiesa di Santa Maria in via Lata a Roma che riportava su quattro colon­ne i brani dei Vangeli relativi alla Pas­sione, Columbu ha voluto ripresentare la storia di Gesù Cristo tenendo conto delle differenze testimoniali dei quat­tro vangeli, come fosse una lettura con­temporanea e parallela, in una sorta di ripetizione – parole del regista – alla Rashomon di Kurosawa. Da questa sugo gestione Columbu ha iniziato a inr esse­re un racconto quasi onirico, visiona­rio, capace di andare avanti e indietio Del tempo, ricco di associazioni visive e testuali. Il film, che inizia con il pianto di Maria sul corpo straziato di Gesù, si dipana in un racconto ondivago che rie­voca momenti rubati alla vita del Cri­sto come fossero stralci di una memo­ria collettiva e condivisa che riemerge dal tessuto del nostro immaginario.

Come è riportato nella consulenza della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, di cui si è servito Columbu, un tale «confronto sinottico», a lungo sperimentato nel mondo degli studi ac­cademici, è invece non praticato nel mondo del cinema.

Un altro elemento di grande novità è dato dalla scelta del Gesù. Columbu ha voluto rifarsi per cercare il volto del Cristo alla descrizione di Isaia apparsa in forma di profezia che recita: «non ha apparenza, né bellezza per attirare i no­stri sguardi, non splendore per portar­cene piacere». II risultato è il volto anti­co e «non bello» di Fiorenzo Mattu, che ricorda i volti dipinti dal fiammingo Matthias Griinewald secondo la sugge­stione a posteriori elaborata da Colum­bu. II Gesù bello, in forma, riccioluto e muscoloso è un lontano ricordo; altra è la bellezza del Gesù di Su Re, arcaica, terragna, materiale, deforme, ispirata all’altra bellezza, quella che non si ve­de.

Lo stesso si può dire degli altri inter­preti, tutti non professionisti, molti provenienti dai centri di salute menta­le. Bello al riguardo il ricordo del regi­sta che una volta rimase colpito dal mo­do in cui queste persone guardavano senza guardare uno spettacolo teatra­le, lo sguardo rivolto altrove come se stessero cercando dentro le ragioni del vedere. Questa diversa sensibilità lo ha così colpito da voler a tutti i costi la lo­ro partecipazione, sicuro di una profon­da consonanza con la sua messa in sce­na.

In ultimo, ma abbiamo solo solcato la superfice, c’è l’effetto clamoroso del­la trasposizione in terra sarda. Qui la storia degli ultimi giorni della vita di Gesù, dal tradimento di Giuda alla de­posizione, si connette profondamente con i valori del luogo, con i riti di quella terra fatta anche di violenza e soprusi, oltreché di generosità e compassione.

La Sardegna, con i suoi registi appar­tati e orgogliosi, sta tornando ad essere – dopo l’onda vertiginosa degli anni Ze­ro – protagonista di una nuova stagione cinematografica A Venezia il BellasMa­riposas di Salvatore Mereu, autore di punta della pattuglia sarda, a Torino il Su Re di Giovanni Columbu e  Dimmi che destino avrò di Peter Marcias, selezionato in Festa Mobile.

 

 

Da

‘L’UNIONE SARDA’,

L’universalità del Gesù sardo raccontato dai volti degli umili, di Sergio Naitza

 

 

Una lavorazione infinita, con scene girate e poi buttate e

rifatte, durata quasi dieci anni; riscritture di sceneggiatura passate per diverse mani; un faticoso rincorrere, anche con questue, un budget minimo per le riprese; cambi di attori pro­tagonisti in corsa; in più la pi­gnoleria e il gusto del cesellato­re artigianale del regista che ha continuato a sperimentare, ri­montare, ripensare, usando il tarlo del dubbio come spinta creativa. Ma, finalmente, hahe­mus film (con Nanni Moretti che lo distribuisce): ieri Su re di Giovanni Columbu – dopo que­sto calvario, è il caso di dirlo ­ha visto la luce: presentato in prima al Torino Film Festival, dove è in gara nel concorso principale (nelle sale arriverà l’anno prossimo).

 

IMMAGINI POTENTI. Si sapeva, dai test che Columbu aveva fat­to e da alcune sequenze mo­strate in pubblico, in televisio­ne e su YouTube, che il mate­riale fosse potente, immagini aspre e ruvide avvolte in una stoffa neorealista, un film che da solo fa – cinematografica­mente e poeticamente – una sorta di “nouvelle vague” sar­da. C’è la forza del rischio, del­la SCommessa d’autore che non viene a patti con alcun compro­messo: dialoghi scarni, solo in sardo, niente musica (un ac­cenno solo alla fine), fotografia sporca, interpreti non profes­sionisti, una povertà francesca­na di messinscena, una narra­zione a sottrarre. Ma non si tratta di una operazione d’élite

  • o avvinghiata nel manierismo.

 

TRATTO DAI VANGELI. Incro­ciando i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni e con­centrandosi sugli ultimi mo­menti di Gesù, dal tradimento alla crocifissione, Columbu va a cercare nuovi significati pro­fondi della “storia delle storie”, travalicando l’aspetto religioso – che c’è, molto rispettoso – per arrivare a un sentimento del­l’umanità, dell’uomo, della massa ora silenziosa, ora vio­lenta, ora acquiescente, ora ci­nica, che è la vera protagoni­sta del film. Gesù appare poco e parla poco, anche nell’inqua­dratura quasi mai è al centro, è ai bordi, spesso tagliato. Tutta la vicenda si legge sui volti del popolo, uomini e donne, sui quali è disegnata l’atavica sofferenza e nelle loro rare parole di compassio­ne o odio, che are rivano fuori cam­po, come a creare un continuo ri­mando di diso­rientamento e in­certezza. Anche il gioco dei fla­shback e fla­shforward ha un’azione specu­lare, grazie ad un montaggio sa­piente che incro­cia il prima e il dopo, per esem­pio nella scena della crocifissio­ne in cui Gesù ri­pensa a quello che è accaduto o potrà accadere.

Lo STILE. Si pro­cede con lentez­za ieratica, en­trando in un tempo immanen­te, con ellissi che non incidono sul­la narrazione, anche perché la storia è ben co­nosciuta. Ma è travolgente l’im­patto visivo che cancella ogni sa­cralità vecchia maniera, a parti­re dalla figura di Cristo (un dolen­te Fiorenzo Mat­

tu), volto sottoproletario dai bulbi oculari sporgenti, agli an­tipodi di. qualsiasi iconografia

tradizionale.

FONTI PITTORICHE. Più del mo­dello pasoliniano del Vangelo secondo Matteo (e forse con più vicinanza a Il bacio di Giu­da di Benvenuti per lo stile asciugato e ad Acta da prima­vera di De Oliveira per la rap­presentazione teatrale) Su re guarda nella composizione del­l’immagine alla pittura, ed è fa­cile vedere nei quadri di Pieter Bruegel, in particolare in “Sali­ta al Calvario”, da dove Colum­bu ha tratto ispirazione per la scena del Golgota. O più in ge­nerale per il tono con cui il pit­tore fiammingo osserva la tra­gedia umana, la sua mostruosi­tà folle e innocente che riman­da, nel film, all’ espressività sommessa e rassegnata dei sardi.

L’altra matrice forte (e voluta) dell’operazione è proprio l’an­corare la storia di Gesù ad una ambientazione sarda; in realtà era quello che i pittori rinascì­mentali facevano, trasportan­do le vicende sacre nei loro paesi e vestendo i protagonisti con i costumi del loro tempo. Così Columbu sceglie il calcare brullo del Supramonte che nul­la ha da invidiare ai sassi di Matera pasoliniani, girando ne­gli stessi luoghi dove John Hu­ston ambientò La Bibbia, poi squarci dell’ex chiesa di San­t’Andrea a Oranì.Ia chiesa di San Giovanni di Sinis a Cabras, il nuraghe Santa Barbara a Vìl­lanova Truschedu e molti altri, promuovendo un paesaggio (mai visto per intero) che si in­nesta sull’identità locale, raffor­zato dall’uso magico della lim­ba, ma che può far cogliere ­così radicata in un contesto cul­turale e geografico – altri aspetti del Vangelo. Per esempio il discorso sul potere, meglio sul­l’assenza del potere (le scene di Pilato), o sulla condanna o il perdono in assenza di giustizia, che rimandano al sentimento della vendetta, assai presente nella società sarda e nel prece­dente film di Columbu, Arcipe­laghi.

VOLTI ECCEZIONALI. Molto ci sarebbe da dire sulla mirabile capacità del regista di saper plasmare quei volti comuni (tra i quali ce n’è qualcuno cono­sciuto, Paolo Pillonca, Pietrina Menneas) per ottenere sguardi di verità antropologica carichi di una intensità poetica, dram­matica ed emozionante; o l’in­sistere sul fuori scena, dove ac­cade il fatto ma a noi arriva at­traverso parole, suoni, espres­sioni in primo piano delle per­sone .che assistono; o l’espe­diente di affidare Una seconda cinepresa al fotografo Uliano Lucas che ha, filmato altri ango­li rispetto alla visuale scelta dal regista, così da avere in mon­taggio una varietà di materiali sempre freschi, inaspettati, fa­cendo perno come scelta sugli scarti, sulla casualità.

Un vangelo secondo Giovan­ni (Columbu), ovvero un film radicale, autoriale e collettivo insieme, che merita un premio solo per il coraggio di andare contro ogni regola commercia­le. Uno di quei film viscerali, tormentati e sofferenti, che sanno entrare nella pelle dello spettatore. Come la voce del profeta Isaia che si sente all’ini­zio e alla fine sull’immagine di un grigio Supramonte attraver­sato da un cupo rombo premo­nitore: è di Michele Columbu, il padre di Giovanni, al quale il film è dedicato.

Sergio Naitza

 

 

Da ‘Avvenire’, 1 marzo 2013

ADESSO L’UOMO DEI DOLORI PARLA IN SARDO – Intervista al regista, DI DARIO ZONTA

Sin dal titolo, «Su Re» si pre­senta come l’adattamento in terra sarda, in lingua sarda, con attori e non-attori sardi della Passione del Cristo. Quali sono gli effetti principali di que­sta trasposizione?

«L’aver deciso di trasporre la sto­ria in terra sarda ha almeno due effetti: ci permette di scoprire qualche cosa di nuovo della sto­ria che si racconta, perché la stessa vicenda, filtrata da sensi­bilità diverse assume un tono di­verso; ci permette di apprendere e di rilevare qualche cosa del luo­go, del mondo in cui viene trasfe­rita, facendo della storia una sonda. Di questi due effetti, uno riguarda l’universalità e l’altro la località. A volte, e soprattutto in Sardegna, per una qualche paura si commette l’errore di chiudersi, di escludersi a un interesse più vasto, e allo stesso tempo si mi­nimizza il carattere locale. Invece sono proprio i caratteri di un luogo, circostanziato e dai tratti precisi, che permettono di co­municare qualche cosa di inte­resse generale, perché proprio quei caratteri specifici riveleran­no il diverso della storia che si racconta. La morte, l’ingiustizia, il tradimento, la debolezza, la ca­lunnia, le congiure sono cose che succedono ovunque».

 

In alcuni personaggi e in alcune soluzioni, il fìlm può ricordare un altro tipo di trasposizione, quella popolare legata alle rap­presentazioni rituali della Setti­manaSanta.

«Pietrina Menneas, che fa la mamma di Gesù, ha detto una cosa molto bella quando ha di­chiarato, minimizzando la sua recitazione, che si è limitata a fa­re qualche cosa che già conosce: piangere sul corpo di un figlio morto, ucciso. Anche se a lei non sono stati uccisi dei figli, quella è un’ esperienza che conosce, quel­la della madre che piange sul corpo del figlio ucciso ingiusta­mente. Lei ha pianto in modo ve­ro, senza ricorrere a trucchi, era­no lacrime vere, lei piangeva per­ché quella esperienza la conosce. La Menneas, giovane donna di Orgosolo, alla quale non è mai  morto un figlio ma che sa che co­sa significa la morte di un figlio, e che ha condiviso in altre occasio­ni la morte di un figlio di altre donne, che quindi è in grado di piangere in modo vero sulla mor­te di Gesù anche nella rappre­sentazione filmica. E lì che il film che dice delle cose».

 

Volendo proseguire nell’elencare i caratteri innovativi di «Su Re», è necessario soffermarsi su quello più evidente: la scelta di Gesù, questo Cristo non bello, interpretato con grande presen­za fisica da Fiorenzo Mattu. Co­me sei arrivato a questa soluzio­ne e perché?

«Mi sono lungamente domanda­to come si potesse rappresentare il Gesù, uomo e Dio, e chi mai potesse esserne l’interprete, Co­me avrebbe dovuto essere il suo volto, bello e fiero? Oppure quel­lo di un filosofo o di un leader impetuoso? Quello dell’agnello mite che si lascerà “muto con­durre al macello? Avevo fatto molti provini, senza mai trova­re un interprete possibile. La risposta migliore, anzi l’unica, mi sembrava riporsi in un’assenza visiva o in una rappresentazione indiretta, perché la sola possibile immagine di Gesù forse è quella che resta celata nella penombra del cuore e dell’immaginazione di ognuno di noi. C’è un passo nel Libro dell’Esodo dell’ Antico Testamento che, richiamando i limiti e le possibilità umane del mostrare e del vedere, sembra anticipare un principio che go­verna anche il cinema. Dopo a­vere chiesto a Dio di perdonare il suo popolo per avere adorato un vitello d’oro, Mosè chiede di mo­strargli anche la sua Gloria. Ma Dio non accoglie questa seconda preghiera perché, gli dice, “tu non potrai vedere il mio volto” e gli indica un luogo nelle cui vici­nanze sarebbe passato, e passan­do gli avrebbe coperto gli occhi con la mano, perché, dice ancora Dio, “vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”. Ecco, anche nel fare il mio film  a­vrei forse dovuto “coprire gli oc­chi” e le orecchie dello spettatore nei momenti in cui si sarebbe af­facciata la presenza di Dio, nei momenti in cui accade quello che non abbiamo mai visto e che non può essere visto e mostrato altro che “di spalle” o da lontano. Ma, come avrei potuto fare un intero film su Gesù senza mai mostrarne il volto? Ecco allora nei miei pensieri si affacciava un’altra soluzione, opposta. Ge­sù, il Cristo, ha il corpo e le par­venze di un uomo qualunque. Non è “grande” per l’ecceziona­lità delle doti umane, è grande perché è figlio di Dio e dunque per le parole che pronuncia e per gli atti che compie, e tutto sorti­sce effetti meravigliosi perché è Dio che lo vuole. Ma, era difficile tradurre questi pensieri in prati­ca, anche se la soluzione cominciava a maturare).

 

Così come c’è un Cristo non bel­lo, allo stesso tempo c’è un Giu­da mite, dolce. Questo ribalta­mento iconografico è significati­vo.

«Per la parte di Gesù, inizialmen­te, avevo scelto un giovane pa­store barbaricino che mi aveva colpito per l’aspetto fiero e me­lanconico e, per quanto lontano dall’iconografia corrente, richia­mava !’immagine del Cristo forte e mite. Ma dopo i primi giorni di ripresa mi ero accorto che un al­tro interprete, quello di Giuda, scelto per la forte intensità, cata­lizzava l’attenzione. Allora ho messo l’attore che interpretava Giuda al posto di quello che in­terpretava Cristo. E per contrap­punto, nella parte di Giuda ho messo un giovane dall’aspetto dolce e fragile. Una figura che ri­chiama l’eroe che si sacrifica con infamia descritto nelle Finzioni di Borges, che a me è sempre pia­ciuta molto e che trova una sua conferma anche nei frammenti di quel nuovo vangelo detto “di Giuda” rinvenuto recentemente. Così l’architettura del film ha tro­vato un equilibrio; il nuovo Cri­sto era davvero colonna centrale e, inaspettatamente, richiamava un passo della profezia di Isaia, contenuta nel Vecchio Testamen­to, in cui si afferma: “Egli non ha apparenza né bellezza per attira­re i nostri sguardi, non splendore . per provare in lui diletto. Di­sprezzato e rei etto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era di­sprezzato e non ne avevamo al­cuna stima”, Un passo che nel film è tradotto in sardo e letto da mio padre, in voce off».

 

Da dove provengono gli altri per­sonaggi?

 

«Provengono tutti dal mondo dei paesi della Sardegna interna, in particolare di Ovodda e Oliena, e sono pastori o allevatori, gente che vive molto in campagna».

 

Oltre a questi, hai lavorato con una comùnità di sofferenti psi­chìcì, In quale occasione li hai incontrati, cosa ti ha colpito di loro e come hanno elaborato la narrazione che gli hai proposto? «Ero entrato in contatto con loro casualmente quando un amico regista, Pierfranco Zappareddu, mi aveva domandato di filmare un suo spettacolo in un centro medico che ospita paralitici e sofferenti di varie patologie cere­brali e psicologiche, vicino a Ca­gliari. Avevo scoperto un’uma­nità fisicamente sofferente e profondamente triste e addolo­rata. In quel luogo, i ricoverati mi erano parsi chiusi in una tenebra dolorosa da cui non fossero in grado e neppure avessero desiderio di uscire. Poi, quello stesso giorno, dopo alcune prove di re­citazione con i meno sofferenti, alle quali altri assistevano strana­mente senza mai sollevare lo sguardo, il regista dello spettaco­lo si è avvicinato a loro e li ha ac­carezzati, come se li conoscesse, ma non li conosceva. Come ri­volgendosi al loro cuore, quasi i­gnorandone l’apparente assenza o le mani rattrappite, li ha affet­tuosamente baciati uno a uno, e in quel momento ho assistito a qualcosa che mi è parsa un mira­colo, un inatteso risveglio, un qualche sorriso che ha improvvi­samente illuminato di felicità i loro volti. È stato allora che ho pensato che Gesù nella mia rap­presentazione avrebbe dovuto comportarsi così con i diseredati, malati e “indemoniati” di cui si parla tanto nel Vangelo, accarez­zandoli e stringendo loro le ma­ni. E ho pensato di portare sulla scena quegli uomini e altri soffe­renti per rivolgere a loro le parole meravigliose delle Beatitudini ” … beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati, beati i puri di cuore, per­ché vedranno Dio”».

 

Perché hai pensato fosse impor­tante proporre una nuova tra­sposizione cinematografica del­la Passione?

«Nonostante le innumerevoli rappresentazioni, questa storia secondo me è ancora da raccon­tare. Premesso questo, c’è da dire anche che non ci si è mai posti questo problema quando alla rappresentazione di Cimabue se­guiva, ad esempio, quella di Raf­faello perché era evidente che quello che contava è il modo in cui veniva rappresentato l’even­to. Nel mio film il modo è rile­vante, perché si discosta notevol­mente dalle precedenti rappre­sentazioni cinematografiche, so­prattutto nella trasposizione».

 

Da “ LA REPUBBLICA”,  20 marzo 2013

 

Arriva un film francescano che ha stregato Nanni Moretti, di  ARIANNA FINOS

Se da regista aveva previsto con Habemus papam la rinuncia del pontefice, da distributore Nanni Moretti aveva intuito il nuovo corso intrapreso da papa Francesco: una Chiesa povera che guarda ai poveri. Su Re di Giovanni Colum­bu, che la Sacher porta in sala (domani in Sardegna e dal 28 nel resto d’Italia), è il potente rac­conto “povero” della Passione di un Cristo in bianco e nero, tra le rocce, i pastori e il vento aspro della Sardegna. È recitato in sar­do da non professionisti, tra cui ospiti del locale Centro di salute mentale. Un film francescano: «Amo lo stile essenziale e anche povero, credo che questo non si­gnifichi rinuncia alla bellezza», dice Columbu. Racconta che «questo Papa mi ha emozionato, fatto pensare a un nuovo inizio, che non sarà più dal centro e dai vertici. La sobrietà è necessaria in un momento in cui la Chiesa si è compromessa con il potere e il denaro. Difficile accettare sacer­doti vestiti d’oro, quando per molti è difficile trovare il pane».

Il sentimento, più che la ragio­ne ha spinto Columbu a girare Su Re «il bisogno di ritrovare una spiritualità che non necessita di apparenza e può essere rappre­sentata senza cornici dorate. Che può essere aspra e ruvida e per questo richiamare all’interio­rità». Ispirazione visiva dichiara­ta del film sono «le opere dei pittori rinascimentali che rappre­sentarono gli episodi del vangelo ambientandoli nel loro tempo», L’idea è venuta durante una visi­ta nella romana Chiesa di Santa Maria in via Lata, guardando una tavola che riportava i brani del vangelo su quattro colonne. I passi paralleli degli evangelisti, ognuno con una versione diver­sa, mi hanno suggerito l’idea di un sogno in cui gli eventi si ripro­pongono in sequenza non linea­re, come nel rituale collettivo del­la messa cristiana». Se il pasoli­niano Vangelo secondo Matteo resta «un riferimento di grande potenza incentrato insieme su parole e immagini, mentre io ho dato risalto al silenzio e ai suoni della natura», la violenza «com­piaciuta» esibita in La passione di Cristo di Mel Gibson è distante dal lavoro di Columbu, che inve­ce lp lascia sempre fuori campo. Il suo Gesù dai tratti forti, Fiorenzo Mattu, richiama alla profezia di Isaia «non ha apparenza né bel­lezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere». E Giuda, iI giovane Antonio Forma «è vicino all’ eroe che si sacrifica con infamia» nel­la scarna ultima cena consumata intorno al fuoco. Non manca la speranza «apertamente dichia­rata nelle parole di Isaia, narrate fuori campo da mio padre, che annunciano la Resurrezione: “Dopo tanto dolore Egli tornerà a splendere e come lui iI mondo”, mentre i bambini risalgono iI ver­sante pietroso della collina».

 

 

Da ‘La Nuova Sardegna’, 21 marzo 2013

“Su Re”, vangelo filtrato dalla identità sarda, di Gianni Olla

 

La voce sofferta e bellissima di Michele Columbu, a suo modo un patriarca, apre e chiude il film “Su Re”, di­retto da figlio Giovanni, il cui pa­dre è stato, fino alla sua morte, un collaboratore, o meglio un suggeritore. La cornice narrati­va cita il profeta Isaia che annun­cia l’avvento di un Messia “senza apparenza né bellezza” e soprattutto “disprezzato”. n ri­chiamo alla profezia può indica­re – secondo quando già dichia­rato dal regista – una sorta di universalità e atemporalità dell’ avvento di Cristo.

O, per variare i punti di vista religiosi, un richiamo all’infinito di numero di Messia, veri o falsi, che, prima e dopo Cristo, hanno punteggiato la storia dell’ebrai­smo. E difatti, il racconto sinotti­co dei quattro vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca, Giovan­ni), racchiuso nei suoi episodi fi­nali (dall’arresto di Cristo alla crocifissione), frantumato tra passato e presente, con continui salti e rìchìamimemorìaìì, è ambientato in un paesaggio che al di là della riconoscibilità dei luo­ghi (Monte Corrasi, con le sue rocce dirupate, le sue nebbie, e la sua solitudine ancestrale, pri­meggia), resta ancorato ad una civiltà ancora non occìdentalìz­zata dal cristianesimo paolino.

Costumi, dove si mescolano richiami storici e molta “sardìtà” da illustrazione pittori­ca, e lingua, con le sue infinite varianti – ma domina l’asprezza delle parlate barbaricine – ac­centuano l’estraneità nei con­fronti di una esegesi cristiana consolidata anche dalle tante “immaginette” cinematografi­che del passato.

Da quelle “immaginette”, co­me si sa, si staccò Pasolini con “Il Vangelo secondo Matteo”, ambientato in un’altra terra di­rupata (Matera e le sue rocce), ma pensato come ritorno ad un messaggio di redenzione fatto proprio dalle masse diseredate delTerzo Mondo.

Ma il film di Pasolini era, no­nostante le invenzioni sceniche, rigorosamente filologico, men­tre nel film di Columbu, proprio la struttura frantumata sembra  voler richiamare una sorta di segreto osservatore che ricostrui­sce mentalmente – e appunto at­traverso le sequenze più signifi­cative – una tragica vicenda a cui ha assistito e che non è interamente comprensibile, se non per quei tratti di orribile violenza e di  beffardo sarcasmo verso i reietti.

Sicché è anche possibile ri­chiamare, al di là delle intenzio­ni del regista, la lettera in cui Gregorio Magno, alla fine del 500, si rivolgeva al capo barbari­cino Ospitone, lamentando che le sue genti non fossero cristia­ne: quasi un riscontro, a metà strada tra storia e mito, di una tardiva evangelizzazione dell’isola e di un continuo so­vrapporsì, comune a tutto il Me­ridione italiano, delle culture tra­dizionali paganeggianti con il cristianesimo e i suoi santi.

È facile, infatti, richiamare, nel processo a Gesù – di fronte alle pietre di un nuraghe – una sorta di codice barbaricino esibi­to come cultura giuridica pro­priadella comunità.

Quasi una citazione, molto mascherata del celebre quadro di Mario Delitala sul “processo all’esattore”.

Così, nonostante l’ancestrali­tà che s’interroga sul mito della Sardegna non più preistorica, nelle straordinarie inquadratu­re del film, tra campilunghi, pri­mi piani (dominanti), movimen­ti di macchina volutamente con­vulsi, oscurità e nebbiosità, “Su Re”, è anche un’opera coltìssì­ma, che recupera dalla pittura altri richiami: da Grunewald, il Cristo ìpertìroìdeo “senza bellez­za” (Fiorenzo Mattu, già tra i protagonisti di “Arcipelaghi”, il primo lungometraggio del regi­sta), da Brueghel una sorta di spaesamento/indifferenza nel­la tragica salita al calvario, daAn­tonello da Messina, in quella po­vertà degli stessi legni consunti cheformanolacroce.

Asciutto ed essenziale (80 mi­nuti di proiezione, senza musica e con ampi spazi di silenzio che agghiacciano, nonostante tutti conoscano la vicenda), è ovvìa­mente un’opera che, come han­no già scritto i critici al Torino Film festival, si giustifica senza necessariamente invocare le ori­gini regionali.

Ma pure, poiché, da quando si è fatta avanti una sorta di “nouvelle vague” sarda che ri­vendica una sua specificità, il di­battito – a cui chi scrive non cre­de più di tanto – su che cosa si­gnifichi “cinema sardo” è anco­ra aperto, “Su Re”, il film di Gio­vanni Columbu – da oggi proiet­tato nelle sale dei maggiori cen­tri dell”isola – mette sul tavolo, al di là delle intenzioni dell’ auto­re, una risposta

Che si può ovviamente discu­tere e perfino contestare.

 

Il regista: «Felice di aver superato ostacoli e mille difficoltà»

di Sabrlna Zedda

Qualcuno l’ha già definito un “film francescano”, eppure non c’è niente di premeditato in que­sta pellicola intensa ed evocati­va che, guardando ai poveri e agli ultimi, sembra abbracciare la filosofia del nuovo Papa. «Quando l’ho scritto ero mosso dalla profonda commozione provata dopo la lettura dei Van­geli – dice Columbu_ Quella stes­sa provata dopo l’elezione di Pa­pa Francesco». Coincidenze che arrivano liete, quasi come un premio per questo film dalla la­vorazione tormentata «Provo soddisfazione per aver realizza­to un’impresa che ha incontrato tante difficoltà – conferma il regista – Tante bocciature, finanzia­menti che non si trovavano. Sin quando Nanni Moretti ha rico­nosciuto la validità dell’ opera». Un’opera andata avanti quasi per un senso di missione, dopo che tra attori e comparse, lassù, sulla cima del monte Corrasi, per le riprese sono arrivati uomi­ni e donne provenienti dai cen­tri di salute mentale di cagliari ed Elmas.

«Gente che non vive nell’ oro – sottolinea – Come potevo non andare avanti dopo la fiducia che ha dimostrato arrivando fin lì e portando, per finanziare il film, buste piene di soldi?». Loro erano accanto al regista, soddi­sfatti e pronti a ripetere al più presto l’esperienza. E c’erano anche, con occhi lucidi e sguardi pieni d’orgoglio, tutti quelli che in questi anni hanno lavorato sul set. ((E’ stato duro racconta Desirè Palma, la truccatrice che con il marito Toni Incani ha pas­sato anche 13 ore al giomo sul set. Vedere il risultato finale mi riempie di gioia». Emozionata è anche Stefania Grilli, costumi­sta, che ha recuperato gli abiti per rendere le scene più reali. « Nonostante le difficoltà non ab­biamo mai smesso di credere nel progetto», dice. Emozione anche nelle parole di Simonetta, 19 anni, figlia del regista e inter­prete nel film di Maria bambina: «L’esperienza di questo film mi ha insegnato che genio e follia non vanno mai soffocati, perché sono gli unici capaci di far anda­re avanti l’arte e la cultura».

 

 

 

 

 

Da ‘L’UNITA’’ 28  marzo 2013

Quando “Su Re” è un Cristo umile voce di speranza portata dal vento. Di Massimiliano Messina

Bibbia, Antico Testamento: “Egli non avrà apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per trova­ re in lui diletto. Disprez­zato e reietto dagli uomini… come uno davanti al quale ci si copre la faccia … “. La descrizione di Cristo, nella profezia di Isaia. L’immagine priva di bellezza’ esteriore, o diversa dai canoni conven­zionali’ di “Su Re”, come appare nel film di Giovanni Columbu, che arriva dopodomani, il 21, nelle sale in Sarde­gna, il 28 nel resto d’Italia. “Su Re”, fi­nalmente. È il caso di dirlo, perché il secondo lungometraggio (il primo fu “Arcipelaghi” nel 2001) del regista, nuorese di nascita, approda sul grande schermo dopo una lunga gestazione. «Ma la realizzazione è stata appassio­nante», dice Columbu. Un Cristo, in­terpretato da Fiorenzo Mattu, già visto in “Arcipelaghi”, molto lontano dall’i­conografia tradizionale: ” … si è addos­sato i nostri dolori e noi lo giudicava­mo castigato, percosso da Dio e umi­liato”, ancora Isaia. «Su Re è in un certo senso un film francescano, nello stile essenziale e ruvido, nell’assenza di musiche, nel prevalere dei silenzi», spiega il regista. Spiritualità scabra, “povera”. «Quella che rifuggendo dal­l’esteriorità rimanda ai valori interio­rì», sottolinea Columbu. Pellicola che esce proprio all’alba del pontificato di Papa Francesco, quasi profetica, si po­trebbe dire, nell’annunciare la svolta della Chiesa, «povera, per i poveri», al­l’insegna di un “francescanesimo” au­tentico, da rìscoprire. Opera tutta reci­tata in sardo, perché la Passione di Cri­sto è trasposta in Sardegna: «L’uso del­la lingua sarda è fondamentale. Pen­siamo poi ai pittori del Rinascimento, hanno sempre dipinto Cristo raffigu­randolo nel loro tempo».

 

«UNA VISIONE IMPEGNATIVA» “Su Re”, la genesi: «Leggendo il Van­gelo mi sono molto commosso, ho ri­trovato me stesso e l’esperienza di tutte le umane vicissitudini e ho sen­tito il desiderio fortissimo di tornare a raccontare questa storia con un nuovo film», racconta Columbu. Che ha avuto la prima intuizione circa quindici anni fa, a Roma, nella chiesa di Santa Maria in via Lata, dove era stata allestita una mostra sulla Sacra Sindone. «Una grande tavola riporta­va i brani dei Vangeli che descrivono i patirnentì di Gesù. Mi sono trovato di fronte a questi passi paralleli, frasi e parole con cui si descrivevano gli stessi fatti in modo non divergente nella sostanza ma nella forma, met­tendo in luce le diverse sensibilità dei narratori». Ecco, l’impostazione del film, «la rappresentazione e la reìte­razione dello stesso soggetto in modo leggermente diverso: pensiamo al­l’arte e la cultura moderna e contem­poranea». Opera che può colpire e toccare nel profondo lo spettatore. «L’ho verificato ai festival di Torino e Rotterdarn, anche se la visione del film è impegnativa, va elaborata», ammette Columbu. Nel film tutto af­fiora come sogno, ricordo. «La storia inizia e si conclude nel sepolcro con Cristo morto e Maria che piange sul suo corpo. Il racconto non segue un ordine lineare”. Si parte dalla fine, la rappresentazione della crocifissione sul Golgota, girata sul Monte Corrasi: «E brullo, primordiale, di pietra calca­rea, sembra una porzione di luna». Le altre location: «Una ex chiesa nelle campagne di Orani, l’ultima cena- è ambientata in una casupola poveris­sima, il processo nel sinedrio lo ab­biamo girato nel nuraghe di Santa Barbara, a Villanova Truschedu, vici­no a Fordongianus». Scenari di pietra, e rimandi, continui, «flashback e fla­shforward che portano avanti e indie­tro, i fatti vengono proposti nella loro misteriosa concatenazione». “Su Re” (con Pietrina Menneas, Tonino Mur­gia, Paolo Pillonca, fra gli altri) sarà distribuito dalla Sacher di Nanni Mo­retti: «Ha trovato interessante il pro­getto e l’ha sostenuto». Film conpo­che parole, rumori di vento, sibili, ma il regista non esclude una prossima edizione musicata. Rappresentare le ragioni della speranza, «forse è pro­prio questo il messaggio principale di “Su Re”». Le ultime parole del film, del profeta Isaia, recitate in sardo dal padre di Columbu, Michele, scom­parso lo scorso anno, dicono: «A pu­stis de tanti dolore Issu torrata luche­re, e cun Issu su mundu».

Massimiliano Messina

 

Da ‘L’OSSERVATORE ROMANO’  29 marzo 2013

 

Se Gesù muore in Sardegna, di Ritanna Armeni

 

«Non ha apparenza né bellezza per attira­re i nostri sguardi, non splendore per po­tercene compiacere». L’immagine di Gesù nel film Su Re di Giovanni Columbu è quella della profezia di Isaia. Un uomo fra i tanti che soffrono e muoiono. Un uo­mo tra gli uomini che non ha riferimenti nell’iconografia classica, nell’immagine tramandata dai grandi pittori e tanto me­no in quella cinematografica. Lontanissi­mo, per intendere, dalla figura di Cristo nel Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, dalla Passione di Cristo di Mel Gibson o dall’ Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.

È bene, quindi, cancellare ogni riferi­mento al già visto quando comincia il film di Giovanni Columbu e la cinepresa fissa il volto, di Cristo interpretato da Fiorenzo Matu. E bene dimenticare la Palestina e i sassi di Matera, o i sereni paesaggi dei quadri rinascimentali.

Gesù muore.rin Sardegna. È” “luiv fra., monti selvaggi di  Orgosolo, Ovodda e Oliena in un paesaggio scabro, arso e sfer­zato ,dal vento, che si svolge la sua passio­ne. E in Sardegna che la ferocia degli uo­mini contro il figlio di Dio si dipana sem­plice, arcaica, primordiale. È qui che la vi­ta di Cristo viene raccontata e ripercorsa a ritroso, cominciando dal giorno della sua morte e dal pianto di Maria sul suo sepol­cro.

L’idea del film è nata ben quindici anni fa quando il regista scoprì in una chiesa di Roma una tavola contenente i quattro Vangeli. Fu allora che immaginò di rac­contare la storia di Cristo dando voce ai quattro evangelisti e rispettandone le di­versità e le sensibilità.

Così il racconto non è lineare, non è cronologico, i sogni si avvicendano ai ri­cordi, i’ ricordi si alternano al presente. Le scene si svolgono e si ripetono. Pietro rinnega Gesù, Giuda lo tradisce e poi si impicca, Pilato si lava le mani, c’è il pro­cesso al Tempio. L’ultima cena si svolge attorno al fuoco come avveniva – e anco­ra avviene – fra i pastori.

Il figlio di Dio, mandato a morte, inchio­dato alla croce, il volto pesto e insangui­nato percorre il suo calvario inseguito da­gli insulti. Non era lui – gli gridano – il re che avrebbe salvato gli altri dalla mor­te? Ed ecco che muore e non riesce nep­pure a salvare se stesso. E soffre come un uomo qualunque. Altro che figlio di Dio.

Irrisione e ferocia contro un uomo che sputa sangue, che è trafitto dalle spine, che trascina la croce senza parlare, che be­ve l’aceto perché la sete è insopportabile, che viene inchiodato e he nelle apparenze, negli atteggiamenti non ha nulla di eroico e di divino.

La passione nel film di Columbu, viene volutamente spogliata dalla sacralità e ri­condotta all’umanità. Solo chi vuole, chi sa vedere in quella sofferenza, vede Dio, sembra suggerire il regista che ha voluto «un film sobrio nello stile, severo, privo di musica». Infatti i volti sono lividi e rugo­si, quasi brutti, le donne vestite di nero sono attonite e sofferenti, nessuna dolcez­za solo dolore nei loro occhi.

E poi, sguardi aspri, gesti ancestrali, fe­rocia, parole scarse scandite nella durezza della lingua sarda. E niente musica ap­punto, ma solo il rumore degli zoccoli e delle lance, il soffio forte del vento, i ge­miti. Gli attori non sono professionisti, ma gente del luogo, pa­stori, allevatori, alcuni pa­zienti dei centri di salute mentale. Ma nel racconto, che vuole rendere in tutta la sua spietatezza, la soffe­renza della passione di Cristo non c’è nessun compiacimento alla vio­lenza, nessun estetismo, nessuna spettacolarizzazione.

«Un film francescano – ha spiegato il regista nuorese – nel solco della nuova stagione annunciata da Papa Francesco, sobrietà, spiritualità vera profonda, pover­tà, non ostentazione della ricchezza».

 

 

“E’ innocente” grida Maria nel Sinedrio. A colloquio con il regista Giovanni Columbu, di Luca Pellegrini

Una lingua quasi arcana e sconosciuta, immagini essenziali accolte in una natura poco accogliente, una fotografia livida come il cielo solcato da molte nubi e rari raggi di sole. Su Re, la narrazione delle ultime ore di Gesù, nasce da una sceneg­giatura presentata nelle chiese di Cagliari prima di diventare film, in attesa di aiuti che sono poi arrivati, insieme al sostegno di alcuni parroci e la consulenza della fa­coltà Teologica della Sardegna e di don Antonio Pinna. Avvolti in manti neri di lana grezza e pelli fino ai piedi, i perso­naggi dei Vangeli stanno spesso immobi­li, dentro questo panorama brullo e pri­mitivo.

«Anche se le mie pietre – ci dice il re­gista Giovanni Columbu – assomigliano a quelle della Palestina, aver ambientato la Passione sugli altopiani più aspri della Sardegna dà un tono diverso al racconto: ruvido, asciutto, essenziale. Credo che i luoghi, i personaggi e la lingua (un sardo stretto, con una certa violenza nella paro­la) abbiano ‘allontanato qualsiasi tipo di edulcorazione, di esteriorità, aiutando a concentrarsi sull’interiorità di Gesù, quel­la che solo i puri di cuore possono vede­re. Per questo ho scelto come interprete del Cristo l’attore Fiorenzo Mattu, molto lontano dall’iconografia classica, una fi­gura non esteriormente bella. Mi sono ricordato del Quarto Canti­co del servo sofferente di Isaia, dove è scritto: “Non ha apparenza né bellezza, per attirare i nostri sguar­di, non splendore per potercene compiacere”. So’no partito più dai senti­lmenti che dai ragiona­menti: la rappresentazione del Cristo non poteva essere ancora una volta patinata, sentivo l’esigenza di un Gesù intenso. Intorno, gli ho posto co­me attori pastori e alleva­tori e un piccolo gruppo di sofferenti di patologie psichiche, che liberamente hanno accettato. Perché Gesù provasse davvero pietà per i poveri e i sof­ferenti».

Così è cambiata anche l’im­magine di Giuda.

 

Nel momento in cui ho adottato un Gesù che contrasta il nostro mondo in cui prevale tutto ciò che è apparenza, come contrappunto c’è un Giuda fragile, dolce. Antonio Forma, che lo interpreta, lo rende doloroso, sembra quasi innamo­rato del Maestro che tradirà. Rìcorda un altro profilo del personaggio che io amo molto, quello tracciato da Borges nel suo saggio Finzioni, in cui lo descrive come l’eroe che si sacrifica con infamia.

 

Perché la scelta di un andamento non cro­nologico della Passione?

 

Perché tutto è raccontato come un so­gno. Perché ormai questa storia – forte­mente inserita nel nostro immaginario, nel nostro sentire, nella nostra cultura e identità – non ha necessità di essere iscritta dentro un racconto cronologico. Inoltre, ogni cosa accaduta, appartenen­do a un evento così determinante per i destini dell’umanità, rìmane nella nostra memoria e tende a reiterarsi, appunto, come un sogno oppure come un incubo, nel susseguirsi di episodi edificanti e altri molto drammatici, violenti.

 

 

La natura, come il sibilare del vento, parte­cipa al racconto della Passione.

 

Tutto il film tende a nominare poco o a evocare solo in modo indiretto il miste­ro della divinità di Cristo. Rìmanda piut­tosto a quell’idea di Dio che è possibile ritrovare più nel non detto, che nelle pa­role degli uomini. Proprio in questo Su Re si differenzia dalla narrazione di Paso­lini: non sono più le parole poste al cen­tro, ma i silenzi e i rumori della natura.

 

 

La figura di Maria ha tratti forti.

 

I depositari del potere e della violenza, che la esercitano nei confronti di chi è dissidente, di chi cambia la dottrina, di chi ha successo, hanno una collocazione maschile. Fa da contrappunto la figura di Maria, l’attrìce Pietrina Menneas, che è madre mediterranea, dolorosa, ma è an­che interprete di un principio di giustizia inesorabile e universale: di fronte alla fol­la, nel Sinedrio, che si interroga sull’in­nocenza della vittima ribadendo come, se venisse confermata, il sangue innocente ricadrebbe su tutti, Maria urla: «È inno­cente». Questa affermazione significa escludere un singolo popolo dalla re­sponsabilità della morte di Gesù e inve­stire, invece, l’umanità intera delle cose che sono successe in quei giorni. È rimet­tere nella sua giusta collocazione un principio di giustizia che governa la real­tà, perché le conseguenze di quel delitto compiuto nei confronti di un innocente saranno a carico nostro e di tutti i nostri figli. Nella mia Passione sarda non ci so­no più ebrei e romani, ma solo uomini dinnanzi al sacrificio e al dolore.

 

Nel finale, quando Giuseppe di Arimatea chiede il corpo di Cristo per dargli sepoltura, entrano le note del Nunc dimittis di Arvo Pàrt. Per quale ragione?

 

Perché quello è un momento in cui, pur in una rappresentazione cruda e vio­lenta come si dà in questo film, dinanzi a Pilato chiuso in uno spazio metafisico e interiore, schiavo della sua razionalità, riaffiorano con Giuseppe la pietà e la speranza, ossia il desiderio di riscatto. In questo racconto in cui tutto sembra as­servito al potere e anche le persone più vicine a Gesù fuggono e tradiscono, alla fine ecco un uomo che non ha paura nel definirsi amico di Gesù, fino ad allora perseguitato da tutti. Questa è una cosa immensa. È il momento in cui si afferma­no le ragioni dei sentimenti, che sono molto più vaste di quelle della pura ra­zionalità. Le note di Pàrt richiamano una liturgia. Quindi un’anticipazione di ciò che seguirà il dolore: la Resurrezione e la Chiesa che ne farà memoria. Un cammi­no faticoso: nell’ultima immagine tre bambini s’inerpicano su una collina pie­trosa.

 

Da  ‘IL CORRIERE DELLA SERA’ 29 marzo 2013

La passione di Cristo tra i nuraghi sardi, di Paolo Mereghetti.

 

L’ allineamento delle da­te è perfetto: il film sulla Passione di Cri­sto esce a Milano il Venerdì Santo. Ma al di là delle coin­cidenze, le ragioni per non perdere questo «Su re» (da oggi in programmazione al Cinema Mexico) sono mol­te, a cominciare dalla forza emotiva e dalla bellezza aspra e selvaggia di questa inaspettata versione cinema­tografica degli ultimi giorni di vita di Gesù.

L’autore è Giovanni Co­lumbu, regista sardo con un passato televisivo e il no­tevole esordio al cinema con «Arcipelaghi». Adesso, dopo anni di gestazione e fi­nanziamenti tormentati (compresa una parte raccol­ta attraverso una sottoscri­zione popolare) e grazie al­l’appoggio di Nanni Moretti che distribuisce il film con la sua Sacher Film, ecco la ricostruzione della Passio­ne di Cristo, dall’ultima ce­na alla sepoltura Ma invece di inseguire una qualche ve­rosimiglianza storica, il regi­sta ha ambientato quei fatti nella sua Sardegna, tra nura­ghi preistorici e ruderi ro­manici, usando per le scene del Golgota quello stesso Supramonte Oliena dove Iohn Huston aveva girato sessant’anni fa «La Bibbia». E utilizzando voci e volti lo­cali, compreso quello di Ga­vino Ledda, in una piccola apparizione tra i membri del Sinedrio.

All’origine del film c’è l’idea di restituire la com­plessità di una storia che tut­ti conoscono attraverso le diverse versioni che ne danno i Vangeli. «Pensavo a qual­che cosa sulla scia di “Rashomon” di Kurosawa, dove ognuno dei personaggi dà una versione diversa dello stesso fatto. Usare i quattro Vangeli per restituire sullo schermo quattro modi diffe­renti di raccontare la stessa storia. Poi ho preferito una struttura più libera, che avanzava e tornava indietro nel tempo, a cercare una “verìtà” che spesso sfugge».

Ne è uscito un film affasci­nante e misterioso, dove la «durezza» della lingua e del­la natura moltiplica la forza emotiva della pagina evan­gelica Tra situazioni e perso­naggi che tornano con sem­pre nuove possibilità di in­terpretazione’ lo spettatore viene catturato dal percorso ondivago del film, dove i si­lenzì sono squarciati dall’im­provviso ripetersi di una frase o di un dialogo mentre il ricordo dell’iconografia più tradizionale (cinematografi­ca o pittorica che sia) viene spazzato via da questo Cri­sto per niente «bello» ma forte e commovente insie­me. Un’operazione decisa­mente insolita, per certi ver­si non facile, ma emotiva­mente forte e artisticamente indimenticabile.

Paolo Mereghetti

 

Da “Lo straniero”, marzo 2013

 

Su Re: l’assenza e il silenzio, di Costantino Cossu

Su Re è un film che si nutre di assenza e di silenzio. La prima assenza è quella di Dio. Dio che nega il suo volto e nega la sua parola. Dio che al Figlio che implora perché il calice amaro del sacri­ficio sia allontanato da lui, non risponde. Dio che stabilisce la legge, che indica la via della sal­vezza, ma lo fa da una distanza che resta per gli uomini incolmabile. È esattamente in questa umana debolezza, in questa irrimediabile inadeguatezza che sta il senso tragico dell’esi­stenza, il suo essere inevitabilmente destinata allo scacco. Il volto di Dio non apparirà mai. Il senso, la verità, Dio o qualunque altro nome vogliamo dare alla pienezza cui tendiamo senza poterla mai attingere, sempre di nuovo inghiottiti dal vuoto, sono un mistero avvolto nel silenzio.

Il film di Giovanni Columbu si apre con l’immagine del Golgota. Il campo lungo inquadra

un’arida pietraia, sul versante più alto del Supramonte di Oliena. Nessuna voce umana. A rompere il silenzio, solo il rumore del vento. La scena è subito di una violenza senza remis­sione. Tutto il film è di una violenza senza remissione. I chiodi penetrano nelle mani e nei piedi di Gesù, conficcati nel legno dal gesto di un uomo, mentre altri uomini vigilano che giustizia si compia su chi ha osato proclamarsi figlio di Dio. La croce è issata come vessillo di apertura della pellicola. L’esito della Passione, la morte dopo una lunga agonia per effetto di una decisione che gli uomini dichiarano giusta, apre la rappresentazione. E questa cifra, di fero­ce violenza chiamata a reggere l’ordine che gli uomini impongono al creato, resta quella di tutto il film. Che si compone per quadri successivi slegati da ogni “consecutio” temporale rispetto all’azione narrata dai Vangeli, ma soprattutto senza nessuna “consecutio” logica. Columbu non ragiona, sogna. La dimensione onirica penetra sin nelle scelte stilistiche più proprie del film, a cominciare dai movimenti rapidi e a scosse della camera a mano, che can­cella ogni tratto realistico.

Come nel suo film precedente, Arcipelaghi, Columbu resta fedele a una sua dimensione espressiva che è prevalentemente espressionistica. La realtà è scomposta in lacerti che non hanno alcuna possibilità di ricomporsi in un senso unitario. Conta il momento in cui la realtà è percepita: sono i modi della visione che la strutturano e in qualche modo la fermano. Ultima cena, processo davanti a Pilato, tradimento di Giuda, preghiera nel giardino del Getsemani, la via crucis, la crocifissione e la deposizione: sono quadri di un sogno che comunicano tra loro solo attraverso gli elementi formali di una rappresentazione, di una messa in scena, che scompone la superficie del reale squassandola, costringendola a rispondere all’interroga­zione estrema introdotta dal dolore e dalla violenza. In ogni immagine del film, ciò che conta è la violenza – umiliante, devastante – compiuta in ogni modo immaginabile (proprio in ogni modo) sul corpo di un uomo.

Si potrebbe dare a questo una lettura storica e socio logica: la violenza che il Potere (ogni potere) esercita al fine di mantenere se stesso. Ai testimoni sentiti dal tribunale del Sinedrio Columbu fa dire che Gesù predicava contro i ricchi e contro i preti. Ma sarebbe banalizzare di molto l’operazione compiuta con Su Re. Che invece è un film sull’irrimediabile distanza tra umano e divino e insieme sulla necessità tutta umana di credere. Di credere che l’orizzonte del mondo – così com’è e come sempre è stato – non sia l’unico possibile, che possa esser­ci altro. Perché se non ci fosse altro, allora sì che sarebbe impossibile, insopportabile, accet­tare una debolezza di cui non solo si ha sempre coscienza, per quanto oscura, per quanto rimossa, ma di cui si ha anche un terrore estremo, Il terrore che alla fine del gioco si scopra che le sole regole sono l’egoismo, la viltà, il tradimento, la spietatezza del dominio sugli altri e sul resto di quanto non umano è vivo. Che alla fine dell’uomo resti solo il primate. Columbu sa che il cristianesimo è un umanesimo. Di più: è la matrice dell’umanesimo sul filo del quale s’è mossa quella che chiamiamo civiltà occidentale. Un umanesimo mille volte tradito e oggi persino oltrepassato nella perfettamente coerente a se stessa disumanizza­zione imposta da un ordine che è mosso dalla tecnica e dalla circolazione delle merci. Ma Su Re e la violenza senza remissione che ne innerva la trama vanno oltre ogni orizzonte sto­rico. E richiamano, come dicevamo, la solitudine degli uomini di fronte al silenzio di Dio, di fron­te alla sua assenza. Le lacrime di Maria che alla fine cadono sul corpo massacrato del figlio sono solo lacrime di disperazione. Niente resta più dell’annuncio dell’Angelo. Sul Golgota s’è celebrato il rito dell’irredimibilità dell’umano.

Se nessun uomo si salva da solo, resta la misteriosa forza salvifica dello Spirito? Dalle paro­le di speranza, tratte dalle scritture, che chiudono il film, sembra che Columbu sia incline a una risposta positiva: “Dopo tanto dolore, torna a risplendere. E con lui il mondo”. È la resur­rezione, per gli uomini promessa di futura salvezza. Il presente è occupato dalla pietraia del Golgota, dal deserto del Supramonte di Oliena sul quale si staglia il profilo della croce.

E le ultime cose vorrei dirle proprio sull’ambientazione sarda di Su Re, con attori non pro­fessionisti che parlano in sardo-barbaricino, persone inserite nel tessuto di una comunità che è segnata da una forte connotazione identitaria. La scelta di Columbu ha in qualche modo a che fare con questa connotazione, ma in maniera secondaria. Perciò ci tornerò dopo. Il motivo principale che rende necessaria – stilisticamente e psicologicamente necessaria­l’ambientazione barbaricina più che sarda, ha a che fare con l’assenza e con il silenzio; le due forze, abbiamo detto, che muovono il film. La Barbagia è una terra di infinito silenzio e di eterna separatezza. Il silenzio dei pascoli e delle lande desolate che restano ancora oggi fuori dalla presa dei tentacoli dell’urbanizzazione; la separatezza di un luogo dove la moder­nizzazione ha in gran parte cancellato – e con quanta inaudita violenza, con quanto dolore, con quante croci – segni e simboli della civiltà pastorale. Civiltà mediterranea antichissima, la stessa che ha visto germogliare e crescere le tribù di Davide con le loro sacre scritture e il loro Dio guerriero e identitario. Civiltà ancora viva in Sardegna sino a prima del miracolo economico e poi stravolta, violentata, indotta a percepirsi come insignificante, privata della parola (della lingua), volta da cultura a folclore. Spazio e tempo marginali, quindi, quelli in cui si muovono gli attori-persone del film di Columbu.

Marginalità ferita, dolorosa e perciò essenziale all’operazione espressiva compiuta da Columbu in una pellicola che della distanza – abbiamo detto – de!l’irrimediabile lontanan­za continuamente si alimenta. Dall’infinito silenzio e dall’eterna separatezza della Barbagia il film ricava una sorta di potenzia mento, una forza che è di immagine ma anche d’anima. Dalle rovine postmoderne della società pastorale, Dio appare forse ancora più lontano che dalla sala contrattazioni della Borsa di Wall Street. Rovine, ma anche lingua e volti di una civiltà millenaria, dove le mediazioni che nelle nostre cosiddette democrazie nascondono la brutalità del Potere (dei poteri molteplici e minuti che strutturano le nostre esistenze) sono assenti o ridotte al minimo. E perciò la ferocia contro la verità e la giustizia può dispie­garsi in una forma originaria, immediatamente leggibile per quello che è: volontà di annien­tamento che subito si volge in autoannientamento, in negazione, cioè, di qualsiasi possibi­lità di redenzione dell’umano. Columbu è lontanissimo dall’idealizzare il mondo pastorale in un’arcadia culla dei valori di un’identità etnica minacciata.

E questo è un altro grande pregio del suo film.

Il Vangelo in Sardegna

di Giovanni Columbu incontro con Dario Zonta

Sin dal titolo, Su Re si presenta come l’adattamento in terra sarda, in lingua sarda, con attori e non-attori sardi della Passione del Cristo. Quali sono gli effetti principali di questa tra­sposizione?

L’aver deciso di trasporre la storia in terra sarda ha almeno due effetti: ci permette di scoprire qualche cosa di nuovo della storia che si racconta, perché la stessa vicenda, filtrata da sen­sibilità diverse assume un tono diverso; ci permette di apprendere e di rilevare qualche cosa del luogo, del mondo in cui viene trasferita, facendo della storia una sonda. Raccontare la Sardegna chiedendo ai sardi di confrontare la loro lingua, la loro complessa identità – che è fatta di espressioni, di modi di manifestarsi e di relazionarsi gli uni agli altri – con la storia di Gesù morto sulla croce, vuoi dire fare una nuova esplorazione, scavare con rinnovato sguar­do in quel mondo. Di questi due effetti, uno riguarda l’universalità e l’altro la località. A volte, e soprattutto in Sardegna, per una qualche paura si commette l’errore di chiudersi, di escludersi a un interesse più vasto, e allo stesso tempo si minimizza il carattere locale. Invece sono proprio i caratteri di un luogo, circostanziato e dai tratti precisi, che permetto­no di comunicare qualche cosa di interesse generale, perché proprio quei caratteri specifi­ci riveleranno il diverso della storia che si racconta. La morte, l’ingiustizia, il tradimento, la debolezza, la calunnia, le congiure sono cose che succedono ovunque.

In alcuni personaggi e in alcune soluzioni, il film può ricordare un altro tipo di trasposizione, quella popolare legata alle rappresentazioni rituali della Settimana Santa. I non-attori che interpretano i sacerdoti appaiono come dei briganti, discostando così la trasposizione dalla tradizione che li vede come dei dotti, degli intellettuali che giudicano Gesù in quanto deten­tori della dottrina.

Questa è una delle cose che si rende possibile grazie alla trasposizione popolare: i sacer­doti non sono dei dotti, è vero. Pietrina Menneas, che fa la mamma di Gesù, ha detto una cosa molto bella quando ha dichiarato, minimizzando la sua recitazione, che si è limitata a fare qualche cosa che già conosce: piangere sul corpo di un figlio morto, ucciso. Anche se a lei non sono stati uccisi dei figli, quella è un’esperienza che conosce, quella della madre che piange sul corpo del figlio ucciso ingiustamente.

Un altro elementi distintivo di questo adattamento riguarda l’assenza della parola, da una parte, e la presenza massiccia di silenzi, rumori, sguardi, pause …

Da una parte c’è una imponente iconografia (immagini ricorrenti, il cristo, la croce, i piedi e le mani trapassati dai chiodi…), dall’altra c’è però tanto che sembra essere ignorato. Quando le rappresentazioni tentano di ripercorrere a ritroso questo passaggio, dai fatti ai ricordi e alla struttura per poi ritornare ai fatti, se non si propongono di raccontare anche quello che probabilmente non è stato detto nella parola scritta, ma che comunque c’era, alla fine portano a delle rappresentazioni devitalizzate, prive di elementi importanti, gli unici che possono far apparire veri quei fatti. È un problema che in generale riguarda i film storici. Quando gli eventi sono importanti e abbracciano archi temporali estesi, si finisce per incentrare la rap­presentazione sui passaggi più essenziali, deprivandoli di qualche cosa che è imprescindibile, come gli sguardi, i rumori, le attese e i silenzi. I fatti storici non sono stati una successione nuda cruda di accadi menti, sono stati accompagnati dai silenzi. Se vengono spogliati di tutto quel­lo che caratterizza le vicende umane, alla fine risultano fasulli e astratti.

La mia idea era cercare di raccontare le attese, i silenzi, le incertezze … le cose marginali, come nell’Ultima Cena in cui ho cercato di mostrare quello che potrebbe essere avvenuto nell’anti-cenacolo, fuori dalla cena, le incertezze, i silenzi, le pause … Ho cercato di evitare la centralità, perché è quella che restituisce minor verità. È come se quello che sta ai mar­gini, proprio perché ai margini, fosse più vero. Anche nel lavoro di regia, ho avuto molte riprove di questo. Quello che precede il ciak e quello che segue lo stop rappresentano mornen­ti di verità. Le macchine continuano a girare e gli attori restano ancora lì, nel limbo. Stranamente, proprio questa testa e questa coda, piuttosto che il cuore della scena, risul­tano più veri, come se la verità stesse ai margini piuttosto che al centro. Per questo motivo mi sono concentrato su questi dettagli, salvo poi approdare a quelle figure riconoscibili, a quel­le immagini popolari e popolaresche che fanno parte di una certa iconografia.

Volendo proseguire nell’elencare i caratteri innovativi di Su Re, è necessario soffermarsi su quello più evidente: la scelta di Gesù, questo Cristo non bello, interpretato con grande pre­senza fisica da Fiorenzo Mattu.

Mi sono lungamente domandato come si potesse rappresentare il Gesù, uomo e Dio, e chi mai potesse esserne l’interprete. Come avrebbe dovuto essere il suo volto? Bello e fiero? Oppure quello di un filosofo o di un leader impetuoso? Quello dell’agnello mite che si lascerà “muto” condurre al macello? Avevo fatto molti provini, senza mai trovare un interprete possibile. La risposta migliore, anzi l’unica, mi sembrava

riporsi in un’assenza visiva o in una rappresen­tazione indiretta, perché la sola possibile immagine di Gesù forse è quella che resta celata nella penombra del cuore e dell’immaginazione di ognuno di noi. C’è un passo nel Libro dell’Esodo del Vecchio Testamento che, richiamando i limiti e le possibilità umane del mostrare e del vedere, sembra anticipare un principio che governa anche il cinema. Dopo avere chiesto a Dio di perdonare il suo popolo per avere adorato un vitello d’oro, Mosè chiede di mostrargli anche la sua Gloria. Ma Dio non accoglie questa seconda preghiera perché, gli dice, “tu non potrai vedere il mio volto” e gli indica un luogo nelle cui vicinanze sarebbe passato, e passando gli avrebbe coperto gli occhi con la mano, perché, dice ancora Dio, “vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”. Ecco, anche nel fare il mio film avrei forse dovuto “coprire gli occhi” e le orecchie dello spettatore nei momenti in cui si sarebbe affacciata la presen­za di Dio, nei momenti in cui accade quello che non abbiamo mai visto e che non può esse­re visto e mostrato altro che “di spalle” o da lontano. Avrei dovuto farlo spostando il nostro sguardo e quello del pubblico sui “piani d’ascolto” o sui “fuori campo” e se possibile in un lasso di silenzio, affinché nella cesura del visibile e dell’udibile lo spettatore possa invertire la direzione del proprio sguardo e in se stesso ritrovare la visione dell’inenarrabile. Ma, come avrei potuto fare un intero film su Gesù senza mai mostrarne il volto? Ecco allora nei miei pensieri si affacciava un’altra soluzione, opposta. Gesù, il Cristo, ha il corpo e le parvenze di un uomo qualunque. Non è “grande” per l’eccezionalità delle doti umane, è grande perché è figlio di Dio e dunque per le parole che pronuncia e per gli atti che compie, e tutto sorti­sce effetti meravigliosi perché è Dio che lo vuole. Ma, era difficile tradurre questi pensieri in pratica, anche se la soluzione cominciava a maturare.

Così come c’è un Cristo non bello, allo stesso tempo c’è un Giuda mite, dolce. Questo ribol­tamento iconografico è significativo. Dice molto della figura di Giuda, così complessa e umana, e anche della figura di Cristo che, nel suo essere “non bello”, quando lo scorgiamo morto, devastato dal dolore, gli occhi gonfi, la bocca torta … sembra davvero il “volto” di un animale sacrificato.

Per la parte di Gesù, inizialmente, avevo scelto un giovane pastore barbaricino che mi aveva colpito per l’aspetto fiero e melanconico e, per quanto lontano dall’iconografia corrente, richiamava l’immagine del Cristo forte e mite. Ma dopo i primi giorni di ripresa mi ero accor­to che un altro interprete, quello di Giuda, scelto per la forte intensità, catalizzava l’atten­zione. Allora ho messo l’attore che interpretava Giuda al posto di quello che interpretava Cristo. E per contrappunto, nella parte di Giuda ho messo un giovane dall’aspetto dolce e fragile. Una figura che richiama l’eroe che si sacrifica con infamia descritto nelle Finzioni di Borges, che a me è sempre piaciuta molto e che trova una sua conferma anche nei fram­menti di quel nuovo vangelo detto “di Giuda” rinvenuto recentemente.

Così l’architettura del film ha trovato un equilibrio; il nuovo Cristo era davvero colonna centrale e, inaspettatamente, richiamava un passo della profezia di Isaia, contenuta nel Vecchio Testamento, in cui si afferma: “Egli non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Un passo che nel film è tradotto in sardo e letto da mio padre, in voce off. Quanto alla tua impressione di un Cristo prossimo al mondo animale mi viene ora in mente che nella stessa profezia di Isaia, in un passo che segue a quello citato nel film, si dice anche: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e no n aprì la sua bocca”.

Questo Cristo può ricordare alcuni personaggi di Cipri-Maresco.

Più volte, anche con riferimento al mio primo film Arcipelaghi, è stata richiamata la vicinan­za a Ciprì e Maresco. Ho sempre trovato questa impressione un po’ superficiale perché i miei interpreti, anche se molto connotati e spesso “non belli”, non hanno valenze grottesche o provocatorie. Una vicinanza invece c’è semmai nel proposito di traslare la storia, di raccon­tare i fatti mostrando qualcosa che esula dall’immaginario e che quindi può essere vissuta dallo spettatore come una storia nuova. Ancora citerei quel passo del Libro dell’Esodo sul­l’impossibilità di mostrare e vedere Dio, l’inenarrabile. E più in generale quell’indirizzo stili­stico che nel cinema è volto più che a mostrare le cose, a stimolare l’immaginazione dello spettatore attraverso delle rappresentazioni indirette.

Da dove provengono gli altri personaggi?

Provengono tutti dal mondo dei paesi della Sardegna interna, in particolare di Ogodda e Oliena, e sono pastori o allevatori, gente che vive molto in campagna.

A questi, hai lavorato con una comunità di sofferenti psichici. In quale occasione li hai incontrati, cosa ti ha colpito di loro, come hanno elaborato la narrazione che gli hai proposto?

Ero entrato in contatto con loro casualmente quando un amico regista, Pierfranco Zappareddu, mi aveva domandato di filmare un suo spettacolo in un centro medico che ospita paralitici e sofferenti di varie patologie cerebrali e psicologiche, vicino a Cagliari. Avevo scoperto un’u­manità fisicamente sofferente e profondamente triste. Avevano certamente ogni necessa­ria assistenza medica e tutto quello che di pratico poteva loro occorrere, ma in un luogo separato dal mondo, quasi che alle loro infermità fisiche corrispondesse un’assenza di sen­sibilità e di emozioni e l’esclusivo bisogno di essere tenuti in vita. In quel luogo, i ricoverati mi erano parsi chiusi in una tenebra dolorosa da cui non fossero in grado e neppure aves­sero desiderio di uscire. Poi, quello stesso giorno, dopo alcune prove di recitazione con i meno sofferenti, alle quali altri assistevano stranamente senza mai sollevare lo sguardo, il regi­sta dello spettacolo si è avvicinato a loro e li ha accarezzati, come se li conoscesse, ma non li conosceva. Come rivolgendosi alloro cuore, quasi ignorandone l’apparente assenza o le mani rattrappite, li ha affettuosamente baciati uno a uno, e in quel momento ho assistito a qual­cosa che mi è parsa un miracolo, un inatteso risveglio, un qualche sorriso che ha improvvi­samente illuminato di felicità i loro volti. È stato allora che ho pensato che Gesù nella mia rappresentazione avrebbe dovuto comportarsi così con i diseredati, malati e “indemoniati” di cui si parta tanto nel Vangelo, accarezzandoli e stringendo loro le mani. E ho pensato di portare sulla scena quegli uomini e altri sofferenti per rivolgere a loro le parole meravigliose delle Beatitudini ••… beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati, beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.” A queste persone devo il suggerimento di nuove preziose chiavi registiche. Ad esempio, nella scena della crocifissione, loro non guardano i tre personaggi crocifissi, così come hanno fatto durante lo spettacolo a cui avevo assistito nel cen­tro di cura; mantenevano lo sguardo basso o rivolto altrove, sembravano assenti, ma osser­vando bene i loro volti era possibile rendersi conto che quell’assenza era una maschera e che quello che accadeva di fronte ai loro occhi stava accadendo nel toro cuore. Nel film anche t’episodio delle beatitudini è venuto meno, ma ho potuto domandare loro di interpretare la scena del terremoto che sopravviene alla morte di Gesù. Un terremoto che può essere rite­nuto “interiore”, che non si sa se si verifica effettivamente o solo nell’immaginazione di chi sta attorno alle croci, e che ognuno di toro recita quasi immobile, ma ognuno in modo un po’ diverso, ascoltando un rombo e un tremore che cresce dentro di loro.

Un altro elemento che rende originale e nuova questa trasposizione riguarda la struttura narrativa del film.

L’idea del film risale a circa quindici anni fa, un giorno in cui mi trovavo a Roma nella chie­sa di Santa Maria in via Lata dove era stata allestita una mostra sulla Sacra Sindone. Allora fui colpito da una grande tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro Vangeli che descrivono i patimenti inflitti a Gesù. Quelle descrizioni mi fecero pensare a diversi testi­moni che avessero visto e poi raccontato lo stesso fatto come in base alla propria soggetti­va percezione e alla propria sensibilità. Lo stile apparentemente impersonale dei singoli testi, per effetto del loro affiancamento, sembrava trasformarsi e rinviare ai raccontatori e rivelare il tono incerto ma ancora più verosimile e coinvolgente di un ricordo. Fu allora che pen­sai a un film che raccontasse i “passi paralleli” del Vangelo, reiterando e intrecciandone le scene, quasi come nel Rashomon di Kurosawa, in cui quattro testimoni ricordano e raccon­tano lo stesso delitto ogni volta in modo diverso.

Come sei passato dall’idea di una lettura sinottica a quella di un’azione “sognata”, posta in una sequenza non lineare, fatta di flashback e salti temporali?

Lungo il cammino della realizzazione ha prevalso un motivo più profondo e per me più vero di interesse per le diverse versioni dei Vangeli, qualcosa che più delle divergenze, che non sono mai sostanziali, riguarda la forma della narrazione. Piccole differenze che si rivelano nel­[‘affiancamento dei quattro Vangeli e che riguardano il linguaggio, talvolta solo l’ordine delle parole, attestando soprattutto la soggettività di ogni possibile racconto e il riporsi di ogni racconto nella sfera della memoria e del sogno. Proprio come accade anche di fronte al mede­simo fatto di cui noi stessi siamo stati testimoni. Mi viene in mente un saggio di Musatti. Nei suoi Elementi di psicologia della testimonianza, Musatti afferma che “non esistono testi­monianze di cui si possa dire che sono integralmente vere, perché ogni fatto di cui si viene a conoscenza è visto da ciascuno attraverso la sua specifica persona”. Dunque, mi è parso affascinante fare emergere, anche in una storia così nota e conclamata e nelle stesse testi­monianze degli evangelisti, alle quali la Chiesa ha conferito statuto di verità, questa umana soggettività e anche qualcosa che nel racconto cinematografico avrebbe favorito l’imme­desimazione e forse restituito al racconto una nuova veridicità. Ho citato il Rashomoon di Kurosawa, forse avrei dovuto citare tra i miei autori di riferimento anche Robbe Grillet e il suo modo di raccontare e ricordare in modo incerto parole e dettagli di fatti accaduti, in una ricerca che è soprattutto ricerca della verità della percezione. Anche in Su Re il ripetersi ogni volta in modo un po’ diverso delle stesse scene rimanda alla verità che si testimonia nelle incerte e dolorose tracce del ricordo, nelle emozioni e nei sogni dei protagonisti. E poiché tutto è accaduto e tutto permane nella memoria e tutto, nella missione di Gesù, era previ­sto prima che accadesse, il montaggio è in una sequenza non lineare e la scelta di raccontare tutto come un sogno è divenuta la chiave per immaginarla e mostrarla vera.

Inoltre mi è sembrato che la soluzione dei ricordi e dei sogni che si avvicendano, piuttosto che dei “passi paralleli” esplicitamente legati ai quattro Vangeli, sia più rispondente al desiderio di un racconto che mantenga sommessi i propri significati, nelle poche parole, nei silenzi e nel­l’assenza di musica. Una soluzione che può trovare riscontro anche in altri aspetti. Ne cito alcuni: il mio proposito di distrarre gli attori da un’eccessiva consapevolezza di sé, adope­randomi per un verso affinché fossero partecipi, catturati dalla vicenda narrata e al tempo stesso un po’ impreparati o spiazzati al momento della rappresentazione, così come nel pro­posito di rifuggire dalla mia stessa consapevolezza; oppure nell’introduzione di una secon­da unità di ripresa, affidata a Uliano Lucas, col suo altro, libero e indipendente punto di vista, che io non dovevo conoscere anticipatamente affinché le sue immagini divergessero dalle dinamiche da me pensate e volute. E infine nella mia disposizione a ritrovare in me stesso i sogni attribuiti ai personaggi della storia, senza domandarmi quali fossero i significati, sui quali certo ho riflettuto, ma poi li ho voluti dimenticare. E alla fine credo che quei significati permangono nel film, anche se non resi espliciti e rinviati alla riflessione dello spettatore.

Perché hai pensato fosse importante proporre una nuova trasposizione cinematografica della Passione?

Nonostante le innumerevoli rappresentazioni, questa storia secondo me è ancora da rac­contare. Premesso questo, c’è da dire anche che non ci si è mai posti questo problema quan­do alla rappresentazione di Cimabue seguiva, ad esempio, quella di Raffaello perché era evidente che quello che contava è il modo in cui veniva rappresentato l’evento. Nel mio film il modo è rilevante, perché si discosta notevolmente dalle precedenti rappresentazioni cine­matografiche, soprattutto nella trasposizione.

La scelta del momento della Passione, tra i diversi periodi della vita di Cristo, conferisce al film un tono cupo, talvolta accusatorio, altre volte fortemente interrogativo. Da cosa deriva que-

sta scelta?

Avrei voluto raccontare qualcosa anche delle predicazioni e dei miracoli di Gesù. Mi sareb-

be piaciuto molto. Nella sceneggiatura c’erano diversi episodi che riguardavano le guari­gioni miracolose, gli insegnamenti agli apostoli e soprattutto le meravigliose Beatitudini. Ma, alla fine, ho dovuto stare sulla Passione, per ragioni produttive e anche perché l’interprete di Gesù si è rivelato capace soprattutto nel rappresentare la sofferenza. Comunque il centro del progetto è sempre stato la Passione. Mi chiedi il perché? Ora me lo domando anch’io. Mi sorprende che quello che ho raccontato possa essere colto dagli spettatori come un atto di accusa nei loro confronti. Certo è vero che tutto quello che accade non è da attribuire solo ai cattivi o a un potere che avverte il cambiamento come un’insidia e perseguita chi mette in discussione i valori o la dottrina e come Gesù, con la sua azione, suscita pericolo­samente il consenso e l’amore delle folle. Tutti concorrono alla tragedia, perfino gli apostoli che non capiscono, che hanno paura, temono essi stessi di essere traditori, perché avver­tono che un potenziale traditore è in ognuno di loro, durante l’Ultima Cena, quando Gesù annuncia il tradimento e tutti domandano “Sono forse io?”, e di lì a poco, quando il Maestro viene arrestato nell’Orto degli ulivi, fuggono, lo rinnegano. Ma questo oltre che il vangelo è la rappresentazione della società umana e degli esseri umani, o della “natura du~lice” che è anche degli esseri umani, costantemente divisi tra il male e il bene, tra la debolezza e il coraggio, tra l’attaccamento a quanto è terreno e la disposizione alle cause più nobili e ideali. Dicevo che mi sorprende l’impressione di cui riferisci perché il racconto della Passione per me è stato al contrario un motivo di commozione e di conforto. E mi sembra che possa esserlo per tutti coloro che sono stati anche solo sfiorati dall’ingiustizia e dalla persecuzio­ne. Quanto alla speranza e a un riscatto possibile, ora che quest’opera comincia ad allon­tanarsi da me e anch’io comincio ad avere uno sguardo un po’ più distaccato, anche se non proprio come quello degli spettatori, direi che nel film c’è ed è rintraccia bile in molte scene, anche se chiede di essere elaborata e capisco che sulle prime prevalgano le impress-ioni cupe di violenza e di crudeltà. Una speranza, espressa attraverso la parola, è nell’Ultimo Comandamento che Gesù affida agli apostoli durante la Cena. Ancora una speranza è dlchia­rata esplicitamente alla fine, nella profezia di Isaia e nell’immagine dei tre bambini che risal­gono il colle, pietroso e inondato di luce, che allude al proseguo difficoltoso ma inarrestabile della vita. Un motivo di speranza per me è in quell’uomo che si presenta a Pilato per domano dargli di seppellire il corpo di Gesù e, pur in un mondo dominato dalle temibili ragioni del potere, si definisce con l’appellativo più antico e profondo che qualifica un legame: come “un amico”. Solo allora quel Pilato che, precedentemente, compare in uno spazio interiore e metafisico, lui prigioniero della ragione, condannato al confronto con la parte emotiva e fem­minile di se, rappresentata dalla moglie, solo allora, di fronte a quel coraggioso amico di Gesù, scopre o si può immaginare che scopra la risposta che solo il cuore, e non la ragio­ne, può dargli. Parteggiare, e operare, rispondendo ai sentimenti e ai valori morali, piuttosto che alle ragioni della logica e dell’opportunità. La speranza è anche nel coraggio e nell’orgoglio di Maria che di fronte a Pilato e alla folla che invoca la morte di Gesù dichiara l’innocenza del figlio e implicitamente afferma un inesorabile principio di giustizia. E ancora credo che una ragione di speranza possa essere colta nei volti silenziosi dei poveri e dei malati che con­dividono le sofferenze di Gesù.

Per un film come Su Re il sapere se lo sguardo dell’autore sia quello di un credente o meno, ha una certa rilevanza. Durante l’incontro con il pubblico al Festival di Torino, hai rimprove­rato uno spettatore che ti ha chiesto se sei credente o meno.

Nell’incontro con il pubblico mi sono arroccato in una posizione teoricamente giusta, ma in pratica sbagliata che coincide con l’affermazione che è il film che deve parlare. È vero, in teoria, ma se c’è un autore, questi deve dire di sé e dell’opera, deve accompagnarla con delle riflessioni che fanno parte del film. La domanda di quello spettatore, invece, era legit­tima e mi offriva una bellissima opportunità.

Se dovessi rispondere ora a quella domanda, cosa diresti?

La questione, dunque, è sapere quanto il sentimento religioso dell’autore possa influire sulla rappresentazione. È un problema che vorrei io stesso cercare di capire. Per un verso sarei portato a pensare che questo aspetto non sia così importante, che contino altre sen­sibilità. Ma il punto è anche un altro. Anche se non mi piace la definizione che si dà oggi di “cre­dente”, io mi sento credente. Riconosco, cioè, un qualcosa che lega un individuo con gli altri individui, e con tutto quello che li circonda (quel che si dice altrimenti il creato). Tutto questo, poi, è connesso a un tempo indefinito che li precede e li seguirà, a quello che è considerato l’al di là. Un al di là che è vivo, che si affianca all’al di qua, sorta di transito breve nel quale ci troviamo. Noi dialoghiamo con l’al di là, io lo faccio e credo che lo facciano tutti quanti, sia i credenti che gli atei, perché i nostri cari continuano a parlarci anche dopo che sono morti. Per rispondere alla domanda, posso dire che io mi relaziono con questa dimensione miste­riosa, riscoprendo, ad esempio, l’importanza della preghiera.

Pregare per me è una cosa importante. Rileggendo il Vangelo scopro che Gesù non solo prega, ma invita alla preghiera, fa miracoli e insegna a fare miracoli. A volte si rimprovera alla religione cristiana di porre gli esseri umani in una condizione di subalternità, per cui devono chiedere e attendere, ecco io credo che questa sia una deformazione. Gesù nel Vangelo dice che chiunque può spostare una montagna, basta che abbia fede e preghi, ovve­ro che liberi una forza che c’è nell’individuo e che permette di fare cose che altrimenti si con­siderano impossibili. Questo, in sostanza, è il miracolo: operare con un proposito che non si ferma di fronte a tutto quello che è razionale. Devo dire, tra l’altro, che se sono riuscito a fare questo film, nonostante tutto, è grazie a un proposito non razionale. Se io avessi dovu­to assecondare delle considerazioni razionali, avrei probabilmente desistito. Invece il mio proposito era irriducibile, ed è per questo che ho superato molte difficoltà, perché era un credere, e volere.

Pur trattando della Passione, con tutto il carico ideologico che questa “narrazione” porta con sé, il film si concentra principalmente sugli accadimenti e non indugia sui corollari reli­giosi. In quanto sequenza di accadimenti, tra l’altro non cronologica, il film parte dalla cro­cefissione, che si assume come perno narrativo a cui tutte la azioni tornano. La crocifissione, però, è vissuta come un evento in sé, come messa a morte, nuda e cruda. Nel film la pre­ghiera non è centrale.

È vero, il film mostra dei fatti, una sequenza di accadimenti. Penso che l’interrogarsi sull’e­sistenza o sulla rappresentazione di una dimensione trascendentale che alluda a Dio, può trovare in questo caso soltanto delle risposte indirette. Nel film, Dio non viene quasi nominato, non si prega, non ci sono miracoli. Però ci sono sguardi, silenzi, suoni e rumori di pietre e di vento, ci sono ansimi e gemiti. C’è la natura, c’è la trascendenza e forse anche la speran­za. Le storie riproducono sempre gli stessi meccanismi narrativi: i nemici più pericolosi sono sempre quelli interni, e anche a Gesù succede proprio questo.

Vorrei ora soffermarmi sul alcuni aspetti formali e tecnici di un film che riesce a essere inno­vativo anche da questo punto di vista. Mi sembra che più che al cinema tu abbia guardato alla pittura per immaginare l’estetica della tua messa in scena.

Comincio col dirti che tra i miei pittori prediletti c’è un fiammingo, Bruegel “Il Vecchio”, che con la sua Salita al Calvario, ambientata in un vasto paesaggio dominato da una rupe su cui campeggia inequivocabile un mulino a vento, ha dato conforto alla mia trasposizione, ingiustamente accusata di localismo. C’è Memling, con un’altra Passione ambientata in una Gerusalemme immaginaria e fantastica, rappresentata in una visione quasi assono­metrica che ricorda i disegni di Escher, in cui è possibile scorgere, in una molteplicità di scene che si affiancano sincronicamente, in modo quasi cinematografico, tutti i momenti che vanno dall’Ultima Cena alla crocifissione. Di Memling mi colpisce, e mi è stata di sti­molo, la sua rappresentazione fortemente astratta e metafisica. Rispetto ad altre rappre­sentazioni pittoriche, in cui la folla è rappresentata più o meno realisticamente, nella sua Passione la folla è del tutto simbolica, composta da poche e isolate figure. Direi che una

visione simile a quella di Memling può essere ritrovata nella rappresentazione del Calvario che c’è all’inizio di Su Re. Tutto si riduce a un uomo semi nudo e disteso per terra che atten­de di essere inchiodato su una croce. Un altro uomo è in piedi con un martello. Fuori campo un ordine: “Inchiodalo”. Poi il campo si allarga e compaiono man mano altre figure. E c’è senza dubbio Grunewald tra i miei maestri nell’avere immaginato un Cristo doloroso, espressivo e non bello.

 

L’unico rapporto che possiamo in tessere tra Su Re e le altre più note trasposizioni cinema­tografiche è, forse, con il Vangelo di Paso/ini. Cosa ha significato per te quell’opera? In che modo l’hai tenuta presente?

Avevo deliberatamente evitato di rivedere il Vangelo secondo Matteo, come avevo evitato di leggere la sceneggiatura del vangelo (mai realizzato) secondo Dreyer, che è in assolu­to il regista che più amo. Sentivo di dover seguire il filo della mia immaginazione senza essere influenzato e senza neppure sentirmi obbligato a fare scelte del tutto diverse dagli autori a cui mi sento più vicino. Arrivò così il giorno del primo ciak, cominciammo a gira­re la congiura e il processo a Gesù nella basilica quattrocentesca di San Giovanni di Sinis a Cabras. Ci eravamo dotati di mezzi piuttosto sofisticati ma pesanti, che era possibile muo­vere solo su binari e che non lasciavano spazio all’improvvisazione. Questo aveva com­portato un effetto di irrigidimento nello stile e nelle dinamiche della messa in scena che mi aveva portato a realizzare immagini terribilmente somiglianti a quelle di uno sceneg­giato televisivo. Quando me ne resi conto trascorsi qualche notte insonne. Fu allora che venni meno al proposito di ignorare Pasolini e cominciai a leggere una sua biografia. Scoprii allora che anche Pasolini girando il Vangelo secondo Matteo era incorso in una circostan­za simile. In un suo diario racconta che dopo i primi glorni di ripresa fu sul punto di rinun­ciare, perché le prime immagini erano a suo dire “orribili”. Immagini girate con uno stile “sacra le” che risultavano inaccettabili in una storia per se stessa sacrale. Lo stile doveva essere per contrasto quello informate del cinemà verité. Fu un momento di svolta. Per for­tuna, a causa di finanziamenti non pervenuti, le lavorazioni erano state interrotte dopo pochi giorni e quando ricominciammo, dopo circa un anno, ritrovai lo spirito e lo stile con cui avevo girato i provini. Solo macchine a mano, niente luci artificiali, location completa­mente diverse e il cambio, di cui ho già detto, dell’interprete principale. I punti di contatto tra Su Re e l’opera di Pasolini sono comunque consistenti. Innanzitutto la trasposizione in uno scenario diverso da quello storico, anche se la Matera di Pasolini forse allude anco­ra a Gerusalemme, mentre gli scenari di Su Re sono e rappresentano dichiaratamente la Sardegna. Inoltre, il ricorso ai non attori e il rilevante proposito di raccontare le vicende evangeliche filtrandole attraverso lo spirito e l’identità di un diverso e altro universo popo­lare. “Il vangelo è ovunque” è la grande intuizione di Pasolini che vale per il vangelo e per ogni altra storia. Un’intuizione di cui si dà un precedente solo nelle opere dei pittori del Rinascimento europeo. Quanto alle differenze tra Su Re e il Vangelo secondo Matteo. La struttura narrativa delle due opere è molto diversa, in un caso domina la parola e nell’altro prevalgono i silenzi.

 

Il film sembra lavorare su due assi: la superfice dell’immagine digitale (raccontata splendi­damente, ad esempio, dalle immagini sospese del sonno degli apostoli) e l’immersione della visione che scava tra le persone, i corpi, le rocce rimandando a una sensazione di estre­ma immanenza. Come hai lavorato tra queste due tensioni?

Ho lavorato su due registri. Quello espressionista, con inquadrature molto rawicinate e dal basso, con un obiettivo 35 e in qualche caso col 25, per dare enfasi ai primi piani, e con piccoli aggiustamenti progressivi dell’inquadratura che precedono gli spostamenti dei personaggi, per dare la sensazione che fossero come guidati dalla macchina da presa, owero dallo sguardo di un essere invisibile o da qualcosa di misterioso e oscuro che stava in loro. Quell’essere invi­sibile naturalmente ero io, che stavo di fronte a loro tenendo la cinepresa, e suggerivo, bisbi­gliando, quello che avrebbero dovuto fare, aspettandoli a volte quasi fuori campo o ai mar­gini dell’inquadratura. In certi casi i miei suggerimenti diventavano ordini bruschi e contrad­dittori per creare nell’interprete uno stato di incertezza e di tensione. Chiamavo la battuta, ma ordinavo che la battuta venisse pronunciata in sllenzlo, senza parole. Una cosa senza senso. E in virtù della mia autorità insistevo, quasi con violenza, ma un attimo prima che l’in­terprete pronunciasse la battuta convenuta, o che io gli avevo chiesto, un momento prima con macchine da presa già in azione, sempre con voce perentoria, aggiungevo che la pro­nunciasse “senza parole”. E solo quando la tensione giungeva al massimo e l’interprete non sapeva più cosa fare, una volta che si era dimenticato di essere un interprete e si era dawero arreso a quello che accadeva sia pure nella finzione, lasciavo che la battuta affiorasse libera da ogni predeterminazione. Poi ho lavorato sul registro quasi documentaristico, usando anche obiettivi più stretti, perché anche questo mi è sembrato importante e bello in un film che pur con tutte le sue trasposizioni resta in certa misura di genere storico. Dico per inciso che non ho mai amato nei film di genere storico il fatto che tutto sia sottomesso alla regia, alle luci di scena, al copione e ai movimenti preordinati. Ecco dunque la necessità di riproporre anche i tempi non cinematografici della realtà, le azioni non del tutto convenute e perfettamente visi­bili, le sfocature, le immagini traballanti. Sulle immagini instabili, che tremano e oscillano anche nei campi lunghi, devo dire che il motivo non è solo estetico. È vero che c’è la reazione alla grammatica del giusto e del dovuto che tante volte si sovrappone a quanto è più vero e intenso e che va ascritta al Dogvi/le di Lars von Trier, ma c’è anche una ragione di contenuto che trova rispondenza nella storia del Cristo che con la sua parola e con la sua azione scuote le coscienze e il mondo. È il terremoto, il crollo dei vecchi valori, il cambiamento profondo e immenso. Per questo tutto trema, anche le immagini. .

 

” film ricorre molto alla macchina a mano, e tu sei anche l’operatore. Perché hai scelto di stare in macchina?

Avrei volentieri demandato, solo che improwisando sarebbe successo che l’operatore avreb­be fatto dei movimenti eccessivi, mentre a me in certi casi piace che il personaggio esce fuori campo, perché io so quando farlo rientrare, ed è bello che la macchina non segua l’at­tore, la macchina deve muoversi per conto proprio, in certi casi può precedere, ma mai segui­re, deve avere un suo comportamento.

 

C’è anche una convenzionalità della macchina a mano, ma non si può dire che questa mac­china a mano sia convenzionale. È, invece, molto soggettiva e personale.

Non è solo un discorso tecnico, perché ha a che fare con lo sguardo, il racconto, è un discor­so che riguarda la centralità e marginalità, di cui parlavamo prima … Ad esempio, è interessante analizzare la sequenza dell’Ultima Cena: la macchina si muove e spesso si sofferma sullo spazio vuoto tra gli apostoli e Gesù. Nelle convenzioni del cinema è scritto che lo spazio che intercorre tra due figure è uno spazio imbarazzante, non sostenibile, di puro intralcio. Altra regola micidiale: la macchina da presa non deve traballare, e neanche deve avere movimenti troppo bruschi. .. da qui nascono queste riprese innaturali, lente, controllate. Invece lo spa­zio in mezzo a due personaggi può essere bellissimo e pieno di significato. Questo film è giocato sull’assenza, sul vuoto, in primo luogo di Gesù, come nella scena della Cena. Gesù non si vede, è molto a margine, tutto quanto viene fatto immaginare piuttosto che essere mostra­to … è chiaro che anche la tecnica di ripresa ne risente e diventa un problema estetico ed espressivo. Per questo sono in macchina perché non posso spiegare all’operatore cosa deve fare, o lo trova in sé oppure niente. Prima ti citavo il passo dell’Antico Testamento relativo all’invisibilità di Dio. Questo io l’ho accolto come un precetto cinematografico e narrativo. Dio, ovvero il mistero, non può essere mostrato, afferrato, visto in faccia, può essere solo immaginato, e quindi visto di spalle e a distanza. Ovvero, fuori campo o attraverso i piani di ascolto, perché è solo dentro di noi che lo possiamo trovare. Mi è sembrata interessante questa formulazione perché torna con un certo tipo di cinema, rispetto alle due correnti: quella che tende a stringere, mostrare, sottolineare, musica re, rispetto a quella che tende ad allontanarsi e generare dei vuoti, degli spazi di silenzio o lavorare sul fuori campo, sui piani d’ascolto nei momenti drammaturgicamente più acuti. È chiaro che io abbracciando questa seconda linea, anche nella ripresa ho adottato questo modulo.

 

Una delle sequenze che mi ha colpito di più è quella che alterna l’Ultima Cena al sonno degli apostoli nell’Orto degli ulivi. 1/ risultato è che l’Ultima Cena sembra un incubo, un sogno …

Il Vangelo racconta l’ultima cena come se fosse un incubo. Tutti si domandano chi è il tradi­tore; Gesù prima non risponde, e poi dà una risposta ellittica che gli apostoli non capisco­no, lasciandoli così nella tragedia. Ecco è verosimile, con un po’ di libertà che loro se la sognano … La sequenza del sonno degli apostoli mi ha creato diverse domande. Mi chiedevo, ad esempio, come dormissero gli apostoli quella sera nell’orto. Loro erano vittime di un incantesimo, perché Gesù gli dice di stare svegli mentre lui sarebbe andato a pregare, ma allo stesso tempo li fa piombare in un sonno profondo. Gesù, che è duplice, parla e agisce su due livelli: da una parte il Gesù uomo chiede conforto, chiede di pregare, ma dall’altra il Gesù più elevato non può che prendere la decisione se vivere o morire se non da solo, senza il conforto di nessuno. Per questo motivo, il Gesù più elevato addormenta gli apostoli. Gli chiede di stare svegli e di pregare per lui, ma in realtà li addormenta perché questi precipitano in un sonno che è quasi stregato. E per questo mi sono a lungo chiesto come poter rappre­sentare questo sonno stregato. Li avrei dovuti fare tutti che dormivano con gli occhi aperti, che dormivano con gli occhi aperti. .. questa era la chiave, ma l’ho capito solo dopo.

 

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