Pinta il cardo e portalo in Sardegna, di Ignazio Camarda

dal sito di  SARDEGNA DEMOCRATICA, 08/04/2013

 

Credo che molti sardi conoscano il detto “Pinta la legna la portala in Sardegna”. In effetti di “linna pintada” ne abbiamo vista tanto spacciata per oro colato, che quando è passata l’euforia ha lasciato i disastri di terreni inquinati e cumuli di materiali inerti carichi di metalli pesanti, che dovrebbero essere risanati e che invece, come si suol dire, stanno sempre lì. Sono stati “pintati” anche gli alberi, chi è meno giovane ricorderà la stagione del famoso pino radiato californiano che avrebbe dovuto fornire cellulosa alla cartiera di Arbatax e sappiamo come è finita. Senza parlare delle irrecuperabili discariche delle cave di granito della Gallura. Tutta ciò fa della Sardegna, decantata per “i prodotti buoni per natura” una delle regioni più inquinate d’Italia.

La cosiddetta chimica verde sembra ormai avere conquistato cuore e la mente dei sardi. Energia pulita, rinascita dell’agricoltura, valorizzazione del miracoloso cardo, olio dai semi, cellulosa dalle foglie e dai fusti, e davvero sembra incredibile che nessuno vi abbia pensato prima. Nel leggere articoli e resoconti di incontri con tecnici e amministratori, nel vedere servizi televisivi che decantano il cardo è davvero difficile non restare ammirati e riconoscenti a Matrica e alle industrie che partecipano all’impresa di rinverdire la Sardegna.

Purtuttavia, tra tutti questi plausi qualche dubbio rimane. Innanzitutto le immagini che circolano ancora sono a volte di cardo mariano (una pianta che cresce in ambienti ruderali, ovili e luoghi ricchi di deiezioni animali) e il cardo chiamato sardo, che in realtà è una varietà di carciofo, coltivato come ortaggio. In realtà, di un carciofo (Cynara scolimus var. altilis) si tratta e non del carciofo selvatico (Cynara cardunculus) e di sardo non ha proprio nulla. Ma se diciamo che è cardo-sardo sembra che stiamo valorizzando una pianta selvatica nostrana e questo facilita il consenso.
Si richiede che si faccia la sperimentazione per verificare se le produzioni sono davvero miracolose, ma a mio parere non è necessario.

Credo che gli agricoltori conoscano, le altre cultivar sarde del carciofo. Gli agricoltori sanno bene che per la loro crescita occorre coltivare; ossia arare, irrigare, concimare, sarchiare, eliminare le infestanti e i parassiti, raccogliere, trasportare, insilare, conservare, anche perché non è pensabile che tutto venga raccolto e bruciato contemporaneamente. Ciò significa ore di lavoro e costi che ogni buon agronomo può facilmente calcolare. Si dice che si prevede una superficie coltivata di 30.000 ettari. Adesso pare che, per la rinuncia ad utilizzare il FOQ per alimentare la centrale, la superficie raddoppierà.

Ma quali saranno questi terreni, saranno davvero i terreni marginali, cioè quelli improduttivi che invece sempre miracolosamente produrranno tonnellate di semi di carciofo?. Occorrerà dissodarli? O saranno i terreni irrigui? Scomparirà la pastorizia a beneficio del carciofo? Scompariranno le altre attività agricole? Aumenterà ancora la dipendenza di derrate alimentari che per quattro quinti viene da fuori Sardegna? Tutti i proprietari convertiranno le loro attività a favore del cardo per fare olio combustibile? E se ciò non dovesse accadere, cosa verrà bruciato in queste centrali?. Ecco, da sprovveduto mi piacerebbe che qualche risposta sia più chiara e convincente di quanto sinora sono riuscito a capire. E, per favore, non diteci che siamo contro i disoccupati. 08/04/2013

 

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