Il Movimento 5 Stelle e la Sardegna: urge approfondire la riflessione, di Federico Francioni
In questo saggio lo storico Federico Francioni propone la prima analisi socio-storica del fenomeno del movimento 5stelle anche in Sardegna.
Il Movimento 5 Stelle e la Sardegna: urge approfondire la riflessione, di Federico Francioni.
Premessa.Il 36,3% conseguito a Porto Torres da M5S nell’ultima tornata elettorale deve far riflettere: è pressoché scontato ribadirlo; si pensi inoltre al risultato ottenuto dallo stesso schieramento in particolare a Carbonia (32,4%) ed a Sanluri (37,1%). In Sardegna M5S è il primo partito con il 29,7% raggiunto per la Camera dei deputati. S’impone allora un’analisi attenta, circostanziata, sulla lotta politica nell’isola. Mentre i principali leaders italiani fuggivano in prevalenza dalle piazze, una folla enorme, come non se ne vedeva da decenni, ha seguito il comizio tenuto in piazza d’Italia a Sassari da Beppe Grillo: “La Nuova Sardegna” ha pubblicato in prima pagina una foto che mostra una fiumana di donne e uomini che riempiva una parte di via Roma, ma sappiamo che anche i portici Crispo erano stipati. Grillo ha parlato della necessità, in particolare, di contrapporre ai meccanismi della dipendenza coloniale gravante sull’isola il no all’Eni ed alla cosiddetta “chimica verde”, i principi del “ritorno alla terra”, della sovranità energetica e alimentare (lo stesso quotidiano sassarese ha dato risalto a quest’ultima espressione): insomma M5S già occupa, di fatto, lo spazio teorico-politico, ma anche e soprattutto elettorale che dovrebbe essere proprio – specialmente – degli indipendentisti. Ma, insomma, doveva ricordarcelo con vigore proprio Grillo che dobbiamo liberarci dal colonialismo? In ogni caso si rende improrogabile una seria disamina che non abbia come prospettiva esclusivamente le prossime elezioni regionali, ma punti a creare unu fraile, insomma, un’officina di idee, di proposte, onde far emergere un progetto per il diritto insopprimibile della comunità sarda a decidere liberamente del proprio destino. Nelle considerazioni che seguono si cercherà, tra l’altro, di riprendere e sviluppare quanto ha scritto Salvatore Cubeddu che in questo spazio si è da tempo interrogato su Grillo “sessantottino”, dando inizio ad una stimolante discussione (si pensi all’intervento di Claudia Zuncheddu).
Dalle pieghe della storia d’Italia. Occorre in primo luogo mettere in evidenza gli elementi di continuità e quelli di profonda cesura portati da M5S nella storia e nella lotta politica italiana, senza ignorare – o sottovalutare – che siamo comunque in presenza di un soggetto in gran parte nuovo ed originale.
La recente affermazione di Grillo affonda le sue radici in vicende secolari, nella frammentazione istituzionale che si accompagna ai percorsi dei Comuni medievali (squassati da deleteri conflitti intestini, di cui Dante ebbe acuta consapevolezza), delle Signorie e dei Principati, caratterizzati da una sfarzosa vita di corte. La figura del buffone, dal tardo Medioevo in poi, deriva da questa storia che del resto non riguarda solo la penisola. L’Italia però, non dimentichiamolo, è il paese di Rigoletto – immortalato dal genio musicale di Giuseppe Verdi – per quanto il libretto, scritto da Francesco Maria Piave, fosse stato tratto da Le roi s’amuse, Il re si diverte, di Victor Hugo, trasportato e ambientato poi dalla reggia di Francia (per intervento della censura austro-ungarica) nei palazzi del duca di Mantova.
Tuttavia non esisteva solo il buffone di corte, per quanto questi potesse usufruire di licenze di cui non esitava a valersi; alle fine del Medioevo compare infatti il giullare come cantastorie – di piazza, di paese – irriverente, in grado di andare ben oltre i confini propri di un Carnevale legato alla visione di un mondo alla rovescia che doveva però durare lo spazio di una settimana (o di pochi giorni) e che era sempre e comunque alle prese con una cultura oppressiva, soffocante, che è stata definita della Quaresima, se non era, s’intende, la tremenda repressione abbattutasi sulla comunità di Romans, studiata – in una classica opera della storiografia francese – da Emanuel Le Roy Ladurie.
Il giullare adoperava uno strumento che il potere temeva particolarmente: l’arma del lazzo, dello sberleffo, del dileggio. Adoperiamo i termini di buffone e giullare non certo per disprezzare Grillo – come ha fatto invece il leader socialdemocratico tedesco Peer Steinbrueck che ha messo il comico (molto, ma molto impropriamente) sullo stesso piano di Silvio Berlusconi – ma per capire la grande ed anche positiva scossa che M5S ha dato al quadro italiano: in tal senso è stimolante riflettere su quanto da tempo ha scritto, recitato e detto Dario Fo, a partire da Mistero buffo, questa sorta di “sacra rappresentazione” che vuole ritrovare slanci, passioni, proteste dei ceti popolari attraverso l’espressività di una “lingua padana del ‘400”, “inventata” dallo stesso premio Nobel.
Vogliamo a questo punto osservare che, durante la campagna elettorale, la comparsa nello stesso palco, insieme a Grillo, di Fo – da sempre schierato su posizioni di sinistra estrema (o radicale che dir si voglia) – ha rappresentato (ne sono convinto) uno dei fattori decisivi per uno spostamento di voti che ha impedito a Rivoluzione civile di Antonio Ingroia di raggiungere l’agognato quorum. Il resto lo hanno fatto l’attacco furibondo ed inconsulto portato contro lo stesso Ingroia dalla collega milanese Ilda Boccassini, nonché l’improvvisazione con cui sono state formate le liste capeggiate dal magistrato siciliano, dietro alle quali erano partiti ormai espressamente dichiarati impresentabili, già reduci da uno storico, clamoroso fallimento politico-organizzativo e ideologico (chi scrive non gode certo nel fare tali affermazioni, anzi!).
Ma torniamo a Fo: il suo impegno contro il potere, al di fuori di schemi precostituiti e dei circuiti teatrali ufficiali, gli procurò, non dimentichiamolo, un arresto a Sassari che reagì con una pronta, memorabile mobilitazione di massa, mentre Aldo Cesaraccio, il Frumentario de “La Nuova” inneggiava alla repressione, così come lo stesso giornalista avrebbe poi fatto per l’arresto, la detenzione e la condanna a quattro anni di carcere dell’indipendentista Bainzu Piliu. Cesaraccio stesso adoperava contro Fo, in senso spregiativo, la parola “guitto”, di cui lo stesso attore e autore invece si vantava (cfr. P. G. Cherchi, F. Vargiu, Hanno arrestato a Dario Fo, libro pubblicato di recente dalla Edes di Sassari). Insomma Fo ha adoperato – e lo fa tuttora – la parola “giullare” con un’accezione assolutamente positiva. Infatti il giullare ha la capacità, l’inventiva, il gusto di mettere il potere in mutande, di mostrarlo nei suoi aspetti più ridicoli, grotteschi, sozzi, insomma, repellenti.
Sempre nelle pieghe, più o meno riposte, della storia d’Italia va cercato – e trovato – il motivo del trionfo del perverso intreccio fra interessi privati e quelli pubblici, tipico della biografia di Berlusconi: l’Italia è il paese (per fare solo alcuni esempi) del conte Ugolino della Gherardesca, il personaggio dantesco capace di operare per conto della Repubblica di Pisa nel provocare la caduta del Giudicato di Cagliari (1258) e, inoltre, di invadere Sassari con Tuscio Ruffo e cum aliis perfidis (com’è scritto in un documento dell’epoca) fino a signoreggiare sulla città di propria iniziativa e per mero tornaconto personale (1267); l’Italia è il paese in cui Cosimo il Vecchio dei Medici (fondatore di una delle prime banche europee) governa dal 1434 Firenze senza ricoprire cariche pubbliche. Dalla Repubblica di Genova parte l’avventura del Banco di San Giorgio che domina la Corsica con i metodi coloniali più criminali, non disdegnando di fare ricorso – contro le popolazioni locali – a metodi oggi definibili di “pulizia etnica”. Tutto ciò ha lasciato sedimentazioni durature.
La corruzione – di un’entità fisiologica (o quasi) in altri paesi, ormai patologica in Italia – fa il resto: non è mai scontata, immediata, automatica la ripulsa morale, etica, verso i meccanismi della corruttela, in grado, anzi, di creare ed attivare consenso, come la più avvertita ricerca socio-politologica ha messo da tempo in chiaro. Il riferimento al “culo flaccido” di Berlusconi – secondo l’espressione formulata da una giovane partecipante ai festini di Arcore, organizzati con “sistema prostitutivo” (secondo la più recente accusa della magistratura) – lascia pressoché imperturbabili fette consistenti degli elettori di centro-destra, per quanto nell’ultima tornata essi siano diminuiti di parecchi milioni. Del resto la denuncia etico-politica, se non si accompagna alla proposta, al progetto alternativo, non è in grado di far breccia nel muro degli interessi materiali, nel grumo delle logiche corruttive, capaci purtroppo (e ciò va ribadito) non di disperdere, ma di aggregare.
Un fenomeno in gran parte inedito. L’occupazione, anzi, l’intasamento, dei luoghi, dei meccanismi decisionali, dei canali comunicativi da parte delle oligarchie autoreferenziali dominanti nei partiti, completamente sorde, incapaci di dare una risposta alle istanze della società civile – in preda alla crisi socioeconomica più grave dal 1929 ad oggi – ha aperto spazi enormi, anzi, praterie (come è stato giustamente scritto) all’azione di Grillo, giullare non di corte, non asservito, anzi, fornito di un curriculum professionale caratterizzato sicuramente da scelte scomode che lo hanno messo talvolta in conflitto con altri comici italiani.
Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, nel senso, soprattutto, che sarebbe impensabile (o quasi) in un altro paese: il paragone – che pure è stato avanzato – con il comico francese Coluche regge solo in parte, perché questi dura giusto il tempo (forse neanche quello) della campagna elettorale per le presidenziali francesi del 1980-81, mentre il M5S, da solo, compete in cifre con le due maggiori coalizioni. Si è formulato anche un parallelo – ma anch’esso convince fino ad un certo punto – con il Piratenpartei tedesco perché, anche in relazione a questo soggetto, le cifre vantate da Grillo sono esorbitanti. In Germania inoltre appare molto, molto difficile – se non impossibile – che si possa imporre una forza dominata da un comico. Eppure anche la Germania viene – come l’Italia – da una lunga storia di frammentazione, dagli Stati territoriali tedeschi, da quei sovrani che, dopo la sconfitta subita da Napoleone III a Sedan (nella guerra franco-prussiana), incoronano Guglielmo I di Prussia come Deutscher Kaiser nella sala degli specchi a Versailles (ciò avviene nel 1871, dieci anni dopo l’unità italiana). Peraltro, dopo questa data, i principi tedeschi rimangono al loro posto in ben 25 Stati. Ma, ripetiamo, uno schieramento dominato da un comico ben difficilmente avrebbe modo di affermarsi fra i tedeschi i quali dispongono di gruppi dirigenti che, comunque li si giudichi, non sono certo al livello etico-politico e culturale, talvolta infimo, delle oligarchie italiane.
Si è posto il problema della rete che, indubbiamente, ha avuto un ruolo di rilievo in rapporto ad altri contesti geopolitici, dall’esplosione degli indignados spagnoli alla rivolta delle masse egiziane contro la dittatura di Hosni Mubarak. Ma in tali paesi, per motivi diversi, non ha preso piede una forza capace di raggiungere in tempi relativamente brevi un suffragio tanto cospicuo. A questo punto diventa imprescindibile riflettere ancora sulle peculiarità tipiche della situazione italiana.
Torna il partito personale. Il M5S è anche il prodotto della storia italiana più recente: non è dunque esclusivamente figlio della longue durée. Al simbolo del movimento è infatti abbinato beppegrillo.it. Siamo di fronte, ancora una volta, alla personalizzazione della politica, alla biopolitica – come l’ha efficacemente definita il politologo Mauro Calise (il suo libro è stato pubblicato da Laterza nel 2007) – cioè all’identificazione del partito, dello schieramento, non tanto e non solo con la figura, con la personalità, quanto, addirittura, col corpo del leader. Ora, in nessun paese d’Europa e del mondo sono nati e si sono sviluppati tanti “partiti personali” come in Italia: prescindendo dal partito-azienda di Berlusconi, il primato, cronologicamente, spetta a Mario Segni, ma è indispensabile fare riferimento anche alla Lista di Lamberto Dini (noto Rospo), ad Antonio Di Pietro (al quale era stato pur chiesto di togliere il nome dal simbolo) ed allo stesso Nichi Vendola. Tristissima, deprimente, l’immagine di Ingroia che indica il proprio cognome aggiunto a Rivoluzione civile, altro fattore, a mio avviso, che deve aver suscitato più di una perplessità in un elettorato di sicuro sconcertato dal singolo che balza in primo piano per soffocare quasi tutto il resto.
Quando, sotto il simbolo di un partito, compare il nominativo del leader, si può stare pressoché sicuri che da quel corpo, da quella biopolitica, ben difficilmente potranno sorgere e svilupparsi dibattiti con il coinvolgimento della base, elaborazione di temi e contenuti, programmi, progettualità. Le esperienze consumate al riguardo lo dimostrano ampiamente: ultima la parabola di Idv, costretta a confluire nella lista di Ingroia nel timore di mancare la soglia del quorum. Ma l’analisi storica e politologica del partito personale investe evidentemente anche M5S.
Una disamina quanto mai articolata sarebbe essenziale anche in riferimento alla breve vicenda di Progetto Sardegna, improvvisamente “oscurato” da Renato Soru: e, si badi bene, non poteva essere altrimenti, perché, anche in questo caso, siamo di fronte ad un “partito personale”. Eppure quel logo fascinoso e la parola “progetto” – tanto odiata dagli oligarchi, dai capobastone – avevano suscitato l’interesse, se non l’entusiasmo, di varie componenti della società civile isolana, avevano consentito, grazie al carisma (reale) ed all’azione di Soru, il raggiungimento di circa l’8% alla prima prova elettorale. Con quella formazione Soru avrebbe potuto condizionare dall’esterno tutto il centro-sinistra, pressoché atterrito dalla conquista di consensi da lui ottenuti, ma il destino di Progetto Sardegna era quasi ineluttabilmente inscritto nella casistica ben delineata dallo studio del già citato Calise. Eppure Soru si sarebbe potuto attrezzare, partire da lì, da Progetto Sardegna, per andare alla conquista dell’Italia – sarebbe stato lui l’antagonista vero di Berlusconi! – ma i condizionali sono resi quanto mai d’obbligo dai limiti del partito personale, nonché dalla logica della storia controfattuale (al riguardo è indispensabile riprendere e sviluppare: B. Bandinu, S. Cubeddu, Il quinto moro. Soru e il sorismo, Domus de janas, Selargius, 2007, in particolare le pp. 245 e ss.; S. Cubeddu, L’ultima battaglia, Cuec, Cagliari, 2009; M. Dadea, La febbre del fare. I sette giorni che cancellarono la speranza, prefazione di G. Mameli, Cuec, Cagliari, 2009).
Grillo sessantottino? Se lo è chiesto Cubeddu, come si è già accennato. Si può rispondere al quesito dicendo che M5S ha dimostrato capacità notevoli nel percepire, captare, intercettare malumori, profondo malcontento, provocati dalla crisi economica squassante, istanze e temi dei movimenti sociali che hanno preso corpo negli ultimi anni. In tal senso Grillo è stato “imprenditore politico” del dissenso, di una domanda lasciata inevasa dagli altri partiti, come ha scritto Piergiorgio Corbetta (docente di Sociologia nell’Università di Bologna, direttore dell’Istituto di ricerca “Carlo Cattaneo” e curatore, con Elisabetta Gualmini, del volume Il partito di Grillo, edito di recente da Il Mulino). Certo, Grillo non può essere accostato a Mario Capanna, Guido Viale, Mauro Rostagno, Adriano Sofri ed altri che non si limitavano a fornire un megafono, ma erano alla testa delle masse. Invece una certa continuità col Sessantotto è data, com’è stato giustamente osservato, dallo spirito di protesta, dalla ricerca di una democrazia di base e dalla confluenza di determinate percentuali del voto giovanile in favore di M5S. Le indagini di Corbetta e Gualmini d’altra parte hanno posto in luce che il grosso dell’elettorato di M5S è formato da una fascia d’età che si colloca fra i 34 e i 44 anni. È riscontrabile fra loro un rifiuto del leaderismo e, allo stesso tempo, il riconoscimento pieno di Grillo come capo: una bella contraddizione in termini!
Le schede biografiche degli eletti di tale forza in Parlamento ci parlano di uomini e donne attivi laddove si verificano allarmi, emergenze occupazionali ed ambientali addirittura drammatiche. Di qui le cifre elevatissime del suffragio a M5S nella Val di Susa dei No Tav (a Venaus raggiunge il picco del 58%), così come a Porto Torres (considerato dal radiologo Vincenzo Migaleddu di Isde, Medici per l’ambiente, uno dei luoghi più inquinati del mondo) e a Taranto: Massimo Dadea ha scritto (su “La Nuova” del 6 dicembre 2012) che a Porto Torres e a Portoscuso la gravità dei problemi ambientali e sanitari non è certo inferiore a quella del capoluogo meridionale. Per non parlare del 41 e del 43% conseguito da M5S, rispettivamente, a Priolo e ad Augusta (in Sicilia), mentre in quel di Civitavecchia, dove è in corso la battaglia contro la centrale a carbone, si attesta sul 34,6%.
È stato anche fondatamente sostenuto che M5S non è stato orientatore, suscitatore, guida di movimenti. E non poteva esserlo, dal momento che ciò avrebbe comportato uscire dalla claustrofobia della rete, stare fra le persone in carne ed ossa, dialogare, magari tramite strutture intermedie, ciò che gli aderenti a M5S non possono fare. Ma è possibile il confronto-scontro politico senza avere davanti, senza guardare, fissare il volto dell’Altro, degli Altri, per dirla col filosofo francese Emanuel Lèvinas?
Al riguardo appare emblematica la vicenda di Valentino Tavolazzi, consigliere comunale di Ferrara, espulso da M5S, come reo, non – si badi bene – di dissenso o di aver organizzato, promosso una riunione – ciò è severamente vietato dentro M5S – bensì di aver partecipato ad un convegno in cui si discuteva di democrazia interna al movimento stesso. Al riguardo è da approfondire il ruolo di Gian Roberto Casaleggio, guru di Internet, prima legato contrattualmente a Di Pietro e a Idv, poi a Grillo e che quindi con quest’ultimo ha stabilito un rapporto economico. Tuttavia Casaleggio (provenienza ideologica leghista e di destra) interviene, poi, politicamente, sulle tematiche e le vicissitudini del Movimento. In definitiva siamo di fronte ad un altro aspetto del fortissimo intreccio personale-pubblico che costituisce una costante dello scenario storico italiano. Grillo, dal suo canto, si è proclamato “garante” del movimento stesso, ruolo in cui si è collocato da solo – e tale permane – senz’altro mandato. La rete può essere strumento di democrazia, ma lo è anche di controllo: l’uso che ne fa il tandem Grillo-Casaleggio potrebbe non solo condurre a sventare i tentativi di profittatori e di aspiranti oligarchi, ma anche preludere a inaspettate riedizioni del Big Brother, non quello televisivo, ma quello di orwelliana memoria.
Cosa accadrà? Conclusioni. L’immagine televisiva dei neoeletti che fuggono – quasi spauriti – di fronte alle telecamere non giova certo alla crescita di M5S che potrebbe invece utilizzare determinati canali per riproporre i temi riguardanti la critica alle logiche di banca e finanza internazionali (Grillo è stato il primo a denunciare l’entità del crack Parmalat), per la difesa e la salvaguardia dell’ambiente, contro il gigantismo industriale (caro a colossi come Impregilo, sempre in bilico tra legalità e illegalità), per il rilancio della scuola e della sanità pubblica, per il ridimensionamento netto dei costi della politica (per citare solo alcuni temi programmatici). A differenza di quanto è stato detto pretestuosamente, M5S possiede un suo programma; sono piuttosto gli oligarchi di partito, i capobastone, che non ne hanno, non possono e, soprattutto, non devono averne, perché ciò richiederebbe l’avvio di un dibattito di massa da evitare accuratamente, in quanto potrebbe pur sempre promuovere qualcuno capace di mettere in ombra l’oligarca stesso. Giusta, azzeccatissima, peraltro la decisione di Grillo di non partecipare al grande circo Barnum televisivo che omologa, che degrada.
C’è poi il problema, già accennato, di uscire dalla claustrofobia della rete. Come si è detto, è proibito da Grillo-Casaleggio organizzare riunioni ed incontri pubblici (non parliamo poi di congressi!), perché ciò, secondo tale binomio, comporterebbe la perpetuazione di rituali e liturgie partitiche ormai vecchie, superate e ritenute antidemocratiche. Su questo e su altri nodi ci saranno, non è difficile prevederlo, divisioni e scontri; Grillo è verbalmente violento, molto maschile-maschilista: con gli strumenti di cui dispone è in grado di annichilire gli oppositori interni, come ha fatto con Tavolazzi, ma, alla lunga, ciò potrebbe suscitare un conflitto sempre più accentuato; sull’occupazione e su altri temi potrebbero delinearsi inedite contrapposizioni; forse, però, dall’esperienza di M5S potrà nascere qualcosa di positivo. Non è da escludere che una sorta di complesso edipico porti al rigetto dello stesso comico da parte di quote consistenti degli eletti nelle istituzioni. Certo l’inesperienza totale dei parlamentari comporterà errori e prezzi da pagare sul piano della credibilità politico-elettorale, ma i meccanismi di selezione, che abbiamo storicamente conosciuto, ormai da tempo sono saltati, né si vedono all’orizzonte modalità nuove, in grado di far emergere una credibile leadership.
In ogni caso non può, non deve essere Grillo a costruirci, a regalarci graziosamente un progetto per il diritto della Sardegna all’autodeterminazione; e, d’altra parte, la messa a punto di tale disegno riguarda ognuno di noi e non solo gli indipendentisti (condizionati, spiace sinceramente dirlo, da divisioni e da gravi ritardi politici, culturali, organizzativi). Si rende dunque indispensabile, come si accennava all’inizio, l’allestimento di unu fraile, di un’officina, di un laboratorio dove possano confluire ed esprimersi energie e proposte che conducano in direzione di tale progetto.
By Giancarlo Casalini, 6 aprile 2013 @ 15:51
Credo che l’unica cosa vera che ha detto Bolognesu sull’articolo di Francioni è che non ci ha capito niente del successo di Grillo in Sardegna. Come fa a dire Bolognesu cosa c’entri la riflessione sui dati elettorali di Grillo con la Sardegna ? Ma Grillo i voti straripanti li ha presi in Groenlandia, nel Congo Belga o forse li ha presi in Sardegna ed il lettore non si è accorto dell’autentico terremoto politico che questa ha determinato nella nostra isola. Se dal fenomeno di Grillo i cosidetti partiti “indipendentisti” sono stati quasi tutti letteralmente polverizzati non può essere determinato anche dalla loro carenza di analisi e proposte e soprattutto dall’esiguo seguito di massa. Purtroppo se si è stritolati da una visione microscopica della realtà politica e ci si preoccupa di autoconsolarsi su sedicenti letture “sarde” da contrapporsi a fantomatiche letture “italiane” fatalmente non ci si riesce a liberare da analisi frettolose settarie, tipiche di chi non riesce a vedere un palmo oltre il proprio naso magari autosuggestionandosi un po’ volgarmente “ita cunnu b’intrat”. Personalmente non ho votato Grillo ma a me pare che l’artcolo di Francioni non fosse quello di spiegare le proposte di Grillo, dal momento che lo stesso Francioni non è il portavoce di tale movimento ma piuttosto di analizzare i motivi che possono aver portato alla crescita massiccia, soprattutto nelle grandi città del movimento 5 Stelle. Se poi non si vuole vedere e ci si accontenta nell’autoproclamarsi “partiti sardi ” mentre gli altri sono “partiti italiani” vorrei modestamente capire come mai gli scozzesi raggiungano il 25-30% dei risultati elettorali mentre gli indipendentisti sardi non riescano a schiodarsi dall’1-2%. Non credo che i “veri sardi” si riducano solo all’1-2% della popolazione per cui inviterei persone come Bolognesu a fare uno sforzo di analisi più articolato e complesso, evitando scorciatoie sloganistiche, propagandistiche abbondantemente infarcite di petizioni di principio , parole d’ordine e luoghi comuni.