Riuscirà a guarire la Chiesa ferita? di EUGENIO SCALFARI

da  LA REPUBBLICA,  17 FEBBRAIO 2013

Torno oggi ad esaminare la rinuncia (o abdicazione) del Papa. Non perché non vi siano altri fatti di grande importanza come la corruzione sempre più diffusa nel corpo ammalato del nostro Paese o le elezioni politiche ormai incombenti o la recessione che morde con denti sempre più acuminati e infine l’Europa e il drammatico oblio della sua costruzione di Stato federale senza il quale tutti gli Stati nazionali che la compongono finirebbero nella totale irrilevanza.

Ma la rinuncia di Benedetto XVI questi fatti li supera tutti perché segna una svolta decisiva nell’essenza della massima religione dell’Occidente e le infligge una ferita dalla quale è molto difficile che possa riaversi.

Le conseguenze saranno enormi nella storia delle idee, dell’etica, della politica, della convivenza sociale e riguarderanno sia i credenti sia i non credenti.

La decisione di papa Ratzinger è stata giudicata in vario modo e con vari aggettivi: rivoluzionaria, epocale, storica, eccezionale nella sua grandezza, ma anche conforme a quanto previsto dal canone ecclesiastico e comunque liberamente decisa nell’interesse della Chiesa.

Vedo che ora si discute molto sul dogma dell’infallibilità del Pontefice ed anche dell’opportunità sostenuta da alcuni ma avversata da altri di porre un termine obbligatorio, come già vige per i cardinali e per i vescovi, oppure di mantenerlo come opzione.

Discussioni, tutte, interessanti ma irrilevanti. Resta, ed è ovvio che così avvenga, la diversa

visione tra credenti e non credenti con una zona grigia interposta tra gli uni e gli altri di quelli che relegano la loro fede in una zona marginale della mente.

Ho letto con interesse la lettera inviata al nostro direttore da Julián Carrón, presidente di Comunione e Liberazione. Stando alle sue parole l’evento è certamente eccezionale e accrescerà moltissimo il prestigio della Chiesa, il suo messaggio ecumenico e la forza della fede nel mondo. Benedetto XVI è stato sicuramente ispirato dallo Spirito Santo, tutto il popolo di Dio l’ha compreso e si è stretto ancor più attorno a lui. Questa, scrive Carrón, è la verità; tutte le altre sono interpretazioni.

Purtroppo per lui, anche questa di Carrón è un’interpretazione, come pure è un’interpretazione il fatto che la decisione del Papa sia stata da lui presa in piena libertà, come il canone prescrive.

Che cosa vuol dire “in piena libertà”? Non esiste alcuna magistratura che possa riscontrare l’esistenza di questo elemento e infatti non si tratta di dimissioni che possono essere accettate o respinte. Chi può dire se le divisioni all’interno della Curia e il devastante fenomeno della pedofilia o la fragilità del corpo e dell’anima di Joseph Ratzinger non abbiano condizionato la sua libertà?

Carrón afferma che lo Spirito Santo è quello che determina la scelta dei cardinali e non abbandona l’anima e l’intelletto del Capo della Chiesa.

Questa è la verità della Chiesa che si scontra tuttavia con moltissimi Pontefici che dettero di sé esempio devastante di cupidigia del potere, fornicazione, simonia. Dovremmo allora pensare che anche le loro malefatte furono volute nell’alto dei cieli affinché provocassero un risveglio delle coscienze e in tal modo contribuissero al bene della Chiesa? Del resto, questo singolare rapporto che congiunge il bene con il male lo troviamo anche nel tradimento di Giuda da fedele discepolo ad abietto denunciatore del suo Maestro.

Ma non era previsto e deciso – nell’alto dei cieli – che Gesù fosse tradito e poi suppliziato e crocifisso? Se tutto è stato disegnato e se l’esercizio del libero arbitrio mette chi lo esercita fuori dal popolo di Dio qualora quella libertà sia trasgressiva, allora la colpevolezza diventa impossibile da concepire.

Mi viene in mente quel sonetto del Belli dove un ebreo respinge l’accusa di deicidio lanciata dai cristiani contro il suo popolo, con questi versi: “Se Cristo era venuto pè morì / quarcheduno l’aveva da ammazzà”.
Se tutto è disegnato la scelta non è mai libera a meno che non vi sia trasgressione.

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Nel mio articolo di martedì scorso posi il problema dello scontro tra la Chiesa-istituzione e la pastoralità della Chiesa povera e missionaria.

L’istituzione – così ho scritto – doveva fornire alla pastoralità i mezzi per esercitare pienamente il suo mandato d’amore del prossimo.

È accaduto invece che la storia della Chiesa sia stata quella dell’istituzione che soffoca la pastoralità, cioè della gerarchia che reclama la sua “temporalità” subordinando la pastoralità.

Conosco la risposta di molti storici: l’istituzione avrà pure compiuto o consentito molti peccati ma senza di essa il Cristianesimo non sarebbe durato due millenni, si sarebbe rapidamente disperso in tante sette e infine avrebbe cessato di esistere. E poi non fu Cristo a dire a Simone: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa? È vero, così recitano le Scritture del Nuovo Testamento.

Ci sono tuttavia due altre religioni monoteiste completamente prive di gerarchia, che sono durate fino ad oggi e dureranno ancora: l’Ebraismo ha già tremila anni di storia e non ha gerarchia né sacerdozio, i rabbini sono soltanto maestri della legge. La medesima struttura ha l’Islam. Non ha sacerdoti ma solo dottori del Corano e Imam che insegnano nelle università islamiche. L’Islam ha una storia di millecinquecento anni e durerà ancora, nel bene e nel male.

Dunque non è l’istituzione la custodia della religione. Lo stesso Benedetto XVI se l’è lasciato sfuggire quando, parlando ai fedeli mercoledì scorso e ai preti romani giovedì ha detto che la sua rinuncia è dovuta anche alle divisioni e agli scandali che hanno turbato la Curia ammettendo che questi accadimenti hanno imbrattato il volto della Chiesa e che lui non ha avuto la forza di fare le pur necessarie riforme, augurandosi che sarà il suo successore a compiere ciò che egli lascia incompiuto.

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La Curia ha sempre adottato il metodo della cooptazione e ha sempre tentato di far trionfare al Conclave uno dei suoi. Spesso è riuscita nel suo intento, talvolta no, ma in ogni caso la dialettica tra Curia e Papa si è manifestata determinando anche rotture traumatiche.

In tempi a noi vicini ce n’è stata una soltanto, quella di papa Giovanni.

Alla morte di Pio XII la Curia, che era ancor più conservatrice del Papa, puntò sull’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, mentre settori più progressisti del Sacro Collegio preferivano Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna.

Alla fine fu scelto Roncalli, patriarca di Venezia. Fu scelto perché era vecchio e malandato in salute, sarebbe durato poco e non avrebbe comunque messo in discussione i poteri e le strutture curiali a quell’epoca guidate dai cardinali Canali, Pizzardo, Micara e Ottaviani.

Roncalli durò poco, ma determinò un terremoto: dopo meno di novant’anni dal Vaticano I indisse il Concilio ecumenico Vaticano II al quale dette il compito di rinnovare la liturgia e la teologia e di confrontarsi con il mondo moderno. Una rivoluzione.

Wojtyla ereditò questo lascito ma delegò la Curia ad occuparsene. Lui aveva ben altri problemi: la lotta contro il comunismo che soffocava la libertà e i diritti della Chiesa, e poi gli ideali della pastoralità anticapitalistica concentrati nella sua predicazione. Fu ferito in un attentato, viaggiò nel mondo, sconfessò la teologia della liberazione ma chiamò attorno a sé i giovani, i poveri, gli esclusi. Trionfò in America Latina e in Africa, riconobbe gli ebrei come fratelli maggiori.

Era un grande attore papa Wojtyla e morì da grande attore, atrocemente sulla scena fino all’ultimo respiro.

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Joseph Ratzinger, non dimentichiamolo, era uno dei principali esponenti della Curia quando Wojtyla morì.

Assunse con impeto la guida del Sacro Collegio, officiò la messa di apertura del Conclave e fu il solo destinatario d’una trentina di suffragi alla prima votazione. Nel frattempo il cardinal Martini comunicò ai suoi sostenitori di non votarlo, il suo Parkinson era già molto avanzato e non gli avrebbe consentito di sostenere il ruolo pontificale. Suggerì anche che concentrassero i loro voti su Ratzinger per scongiurare un’ipotesi di Camillo Ruini sul soglio pontificio. Così avvenne, alla seconda votazione Ratzinger superò i cinquanta suffragi, la terza fu fumata bianca.

Ma otto anni dopo è arrivata l’epocale abdicazione. Sono stati otto anni di vera e propria rissa all’interno della Curia, con il Papa che tentava di dare pienezza al suo ruolo di governo non solo religioso ma temporale, senza tuttavia riuscirvi; tensioni crescenti tra Sodano, Bertone, Ruini e poi Bagnasco; scoppio dello scandalo della pedofilia; crollo delle vocazioni soprattutto in Europa; pressioni in tutti i settori e soprattutto sulle strutture e sulle organizzazioni tradizionali da parte delle Comunità: Comunione e Liberazione, Sant’Egidio, Opus Dei, focolarini, salesiani, gesuiti, una fenomenologia del tutto nuova, già presente ai tempi di Giovanni Paolo II ma al culmine con Benedetto XVI.

Infine il processo di secolarizzazione di tutto l’Occidente e in particolare in Europa e nel Nord America.

Nessuno di questi problemi è stato risolto da Benedetto ed è questa la vera ragione che l’ha indotto alla sua clamorosa rinuncia.

Questa decisione ha rotto la sacralità, ha messo a nudo la natura lobbistica della gerarchia, ha indebolito il ruolo del Papa innalzando quello della Chiesa conciliare. Il Concilio sarà d’ora in poi un’istanza suprema, il colloquio con la modernità risveglierà probabilmente una Chiesa minoritaria e depositaria di un’etica meno ingessata dai dogmi.

La Curia dovrà essere inevitabilmente riformata. Ci vorrebbe un Gregorio VII per riuscirci e forse lo troveranno. Lo scontro è ancora e sempre tra il popolo di Dio e la gerarchia. Ma chi c’è dietro Dio? La risposta (blasfema?) dei non credenti è che dietro Dio ci siamo noi uomini che l’abbiamo inventato come esorcismo contro la morte. Ma è un esorcismo che comporta comunque un altissimo senso di responsabilità individuale. Da questo punto di vista la predicazione di Gesù di Nazaret, figlio di Giuseppe e Maria, è un lascito prezioso cui attingere.

(17 febbraio 2013)

 

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