Il concilio: i cristiani, da gregge di pecore a popolo di Dio, di ENZO BIANCHI.

Caro Diogneto – 50 – JESUS, febbraio 2013

di ENZO BIANCHI

Alla mia età è data una grazia: quella di poter fissare con lo sguardo i tempi passati, leggerli più facilmente come storia e quindi penetrare tra i fili dell’ordito e della trama che formano il tessuto della vita della chiesa. Non dimentico, anzi, si è fatto più vivo il ricordo degli ultimi anni cinquanta quando il pontefice Pio XII era, come si diceva, “felicemente regnante”. Cresceva nella chiesa un fermento che chiedeva un vero rinnovamento della fede, della liturgia, della missione e, nello stesso tempo, emergeva un gemito per la sclerosi di molte forme di vita ecclesiale. Cosa si chiedeva, a volte forse in modo confuso, altre volte da parte di uomini e donne profetiche in modo evangelico e determinato, anche al caro prezzo dell’emarginazione e perfino della censura e della condanna ecclesiastica? Si chiedeva innanzitutto la presa della parola: poter parlare nello spazio ecclesiale, manifestare il proprio pensiero, confrontarsi in uno spirito costruttivo e fraterno. Soprattutto i semplici fedeli, chiamati allora “laici”, desideravano assumere una soggettività che li rendesse membra vive del corpo ecclesiale, membra responsabili. Risuonavano ancora in sottofondo le parole di Pio X nell’enciclica Vehementer del 1906: “la chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i pastori e il gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali [cioè della chiesa]; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi pastori”.

Ma in quella gestazione faticosa il popolo di Dio desiderava anche aprirsi, passando dall’angustia di una cittadella arroccata, assediata e da un magistero intransigente e autoreferenziale a un nuovo atteggiamento di ascolto dell’altro e di dialogo. Apertura verso i fratelli che vivono il cristianesimo in altre chiese, apertura verso quelle presenze storiche e travagliate per l’occidente come gli ebrei e i musulmani, apertura verso le altre religioni e spiritualità, dialogo con ogni persona, credente o non credente. Sì, era un desiderio di ascolto di tutta l’umanità e di dialogo con tutti. Anche Pio XII aveva compreso la necessità di questo cambiamento e nel maggio del 1958 – lo ascoltai io stesso in udienza – disse all’Azione cattolica che per la chiesa stava germinando una primavera: parole davvero profetiche!

Ed ecco, nell’autunno di quello stesso anno venne un papa chiamato Giovanni… quel fermento, quell’attesa trovarono una risposta: il concilio per un “aggiornamento” della chiesa. Giovanni XXIII aveva una buona conoscenza della storia, in particolare del concilio di Trento, e gli parve evidente che in una situazione difficile l’unica cosa da fare era mettere la chiesa in stato di concilio, per ascoltare lo Spirito santo e la storia. Così l’evento-concilio fu innanzitutto un’iniziazione, una scuola per i vescovi e la chiesa intera in vista di una conversione spirituale accompagnata da una conversione teologica e pastorale. Quell’esperienza di “novella Pentecoste” diede ai pastori e ai fedeli un’altra coscienza teologica così ben espressa dal Codice di diritto canonico frutto del concilio: “Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno” (Can. 208).

In questi cinquant’anni postconciliari, quella dinamica di aggiornamento ha conosciuto accelerazioni, ritardi, a volte anche contraddizioni, e oggi appare debole, minacciata da paralisi e soprattutto da interpretazioni restrittive del Vaticano II. Molti si lamentano, parlano di “chiesa in cui manca il respiro”, leggono la situazione ecumenica come “invernale”, altri ancora temono che le contraddizioni al concilio prevalgano sulla attuazione, tuttora da realizzarsi pienamente; alcuni si spingono fino a chiedere un nuovo concilio. Resto convinto che oggi occorre realizzare il concilio di cui siamo stati partecipi e testimoni, e così preparare una nuova primavera per la chiesa. Sì, essa può ancora arrivare. Faccio mia questa preghiera del vescovo Guy Deroubaix: “Signore, aiutaci a edificare una chiesa in cui è buono e bello vivere / in cui si può respirare, dire cosa si pensa / una chiesa di libertà / una chiesa che ascolta prima di parlare / che accoglie prima di giudicare / che perdona senza voler condannare / che annuncia piuttosto che denunciare. / Una chiesa di misericordia / una chiesa in cui l’audacia del “nuovo”, dell’ “inaudito” / sarà più forte dell’abitudine di fare come prima. / Una chiesa in cammino in cui lo Spirito potrà farsi invitare / perché non tutto sarà previsto, regolato, deciso in anticipo. / Una chiesa aperta / una chiesa di cui non si possa dire: “Vedete come sono organizzati” / ma piuttosto: “Vedete come si amano! Sono discepoli di Gesù Cristo!”.

 

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