La politica dei minimi termini, di Carlo Galli
Da visione del mondo a compito a casa
la politica ridotta ai minimi termini
Un tempo c’erano i progetti da realizzare. Ora i leader parlano per elenchi di “cose da fare”: una sorta di ideologia che crede che l’agire pubblico sia neutro e non produca opere, ma manufatti.
CARLO GALLI
la Repubblica, 03-01-2013
La politica è soprattutto fare, agire. Il conoscere (la teoria) è importante, il parlare e il convincere (la retorica) lo sono altrettanto, senza un rapporto con la morale la politica è monca; ma idee e visioni restano astratte, interessi e forze sociali restano opache, la morale resta un fatto interiore, se la politica non ha capacità operativa. Benché il rapporto tra il fare e le altre dimensioni sia instabile e mutevole, benché la politica si fondi più sul senso del possibile che su quello del necessario, più sulla parzialità che sulla totalità, benché, insomma, sia più un’ arte che una scienza, da essa ci si attende un prodotto, un’opera.
Ma che fare? Se lo chiedeva Lenin, nel 1902, come se lo era chiesto, in carcere, Nikolaj Cernysevskìl nel 1863. E in realtà la domanda chiave della politica è proprio questa: quali siano le cose da fare, e in quale rapporto stiano con le cose pensate (oltre, naturalmente, all’altra domanda, chi siano i soggetti che agiscono). In politica arrivare all’agenda – che in latino significa «le cose da fare, che devono essere fatte» – è indispensabile; tutto sta nel capire chi vi arriva, e per quale via.
La modernità ha dato una grande risposta: con la teoria, con la visione del mondo, con
una grande narrazione dalla quale si deducono, o si chiarificano le cose da fare. Che di solito sono grandi cose: una rivoluzione (borghese o proletaria), un oltrepassamento del presente stato del mondo verso un assetto migliore. È la politica come sintesi di pensiero e azione, di lucidità e di speranza, a individuare le cose da fare. Che in questo contesto, però, non si chiamano “agenda” – non è possibile definire così gli immortali principi dell’ Ottantanove, o il Sol dell’avvenire quanto piuttosto “manifesti”, enunciazioni di principi, dichiarazioni di guerra al mondo intero. Le cose da fare, qui, sono la prassi che fa della storia il regno della libertà. Altro che agenda!
Ma le cose da fare possono avere anche un aspetto più prosaico; e ciò avviene quando la politica non mette più all’ordine del giorno l”‘Uomo nuovo”, ma l’amministrazione; non più la rivoluzione ma le riforme. Quando cioè la politica si è assestata nelle istituzioni democratiche, e consiste nell’agire dei partiti e nei loro programmi. Il programma certamente contiene –lo dice anche la sua etimologia – un’ apertura al futuro, e discende da una visione del mondo; ma la stempera e la rende, al contempo, concreta; ha infatti una dimensione analitica, minuziosa, operativa (ricordiamo il programma di Prodi nel 2006, di qualche centinaio di pagine) che all’ occorrenza può essere riassunta in uno slogan; questo però non è un grido di battaglia ma un brand, un marchio che deve riuscire accattivante, vincente nella gara elettorale. Il programma è meno impegnativo del manifesto o della dichiarazione, ma è pur sempre un atto apertamente politico, che nasce da una soggettività (il partito), da un modo specifico di interrogare il mondo, da una precisa impostazione del rapporto teoria-prassi.
Una potente sernplificazione è intervenuta quando al programma è stato sostituito il contratto: Berlusconi, un politico-venditore dotato di molto denaro e di molta parlantina ha istituito, a suo tempo, un rapporto diretto (televisivo, in realtà) con i cittadini: chiedendo voti in cambio di benefici annunciati (mirabolanti, ma concreti, misurabili). La politica, qui, ha ancora una dimensione di soggettività, ma è una soggettività privata; quel contratto è il contrario del contratto sociale: è una personalizzazione che è anche una banalizzazione (oltre che un’illusione). La politica non è un’opera, ma un’ operetta.
Ancora diversamente stanno le cose con l’agenda vera e propria, cioè con la forma con cui oggi da più parti (ha iniziato Monti, è venuto al seguito Grillo, altri lo faranno) si denota l’impegno pratico rivolto al futuro. E la diversità consiste nel fatto che le cose da fare, in questo caso, non sono presentate in forma soggettiva, cioè come frutto di una posizione politica, di un’interpretazione di parte; le cose da. fare, qui, hanno un che di oggettivo, come se fossero dettate dalle cose stesse, come un Diktat dotato di un’intrinseca necessità: la mano che scrive sul taccuino le cose da fare è la mano delle cose stesse. In un’agenda c’è ben più imperiosità . che in un manifesto o in un programma: c’è tutta l’ideologia della tecnica, dei tecnici che ignorano la parzialità della politica, che deducono meccanicamente le cose da fare dalle cose che sanno, senza riguardo alle circostanze e alla loro interpretazione, c’è !’ideologia che crede che la politica non produca opere, ma manufatti o equazioni. Ma c’è anche tutto il populismo di chi crede, o vuol far credere, che la politica è una cosa semplice, neutra, oggettiva. C’è, in realtà, il conservatorismo (anche se molti elaboratori di agende si dicono innovatori o rivoluzionari) di chi crede di sapere una volta per tutte quale sia il corso del mondo.
Non è questione di avere forti convinzioni; queste sono benvenute. Nel concetto di agenda c’è piuttosto !’idea che per determinare le cose da fare non si devono avere convinzioni; far politica con le agende significa voler ignorare la complessità della politica, la sua parzialità intrinseca. Significa, a ben guardare, collocarsi in una posizione tanto ideologica da non chiedersi nemmeno Che fare? Non a caso, a differenza di Lenin, che pure di forti convinzioni ne aveva, non si sogna nemmeno di mettere il punto interrogativo.