E se vincesse ancora Berlusconi?

Due editoriali sul tema: su LA STAMPA 20/01/2013, E se vincesse ancora Berlusconi? di Luca Ricolfi e su la Repubblica, 21-01-2013, Campagna elettorale formato reality, di Ilvo Diamanti


LA STAMPA 20/01/2013

E se vincesse ancora Berlusconi? di Luca Ricolfi

Luca Ricolfi

Lo so, all’estero sarebbero increduli. E anche fra noi italiani, che ci conosciamo abbastanza bene, serpeggerebbero sorpresa e costernazione. Però, arrivati a questo punto, l’ipotesi non può essere scartata completamente: Berlusconi potrebbe vincere le elezioni. Improbabile, a tutt’oggi. Ma non impossibile. Vediamo perché.

I sondaggi, per cominciare. Non tutti se lo ricordano, ma è esistito un tempo in cui i sondaggisti accorti «correggevano» i sondaggi. Se nelle interviste la Dc raccoglieva il 35% dei consensi, il sondaggista esperto diceva al committente: qui bisogna aggiungere qualche punto, perché molta gente preferisce nascondere che vota Dc; certo, la voterà, al momento buono, ma non ama dirlo, nemmeno a uno sconosciuto intervistatore.

Se nelle interviste i Verdi prendevano il 4%, il sondaggista esperto dimezzava la percentuale, perché sapeva che la dichiarazione di voto ai Verdi era la tipica risposta-rifugio.

Quella risposta-rifugio che non ti fa fare brutta figura (che male c’è a votare verde?) ma intanto ti permette di non dichiarare la tua vera preferenza. Meno diffusa era un altro tipo di correzione, che comincerà a essere presa in considerazione soprattutto nella seconda Repubblica: se tutti credono che le elezioni le vincerà un certo partito, conviene potare un po’ i consensi del vincitore annunciato. Si sarebbe dovuto fare fin dal 1976, quando ci si aspettava il trionfo del Pci (che poi non ci fu), ma sarebbe stato bene farlo soprattutto nel 1994 e nel 2006, quando un po’ tutti erano sicuri di una schiacciante vittoria della sinistra, che di nuovo non ci fu. Quest’ultimo, negli studi elettorali, si chiama effetto winner: saltare sul carro del vincitore al momento del sondaggio, per poi scegliere quel che si vuole quando si va a votare davvero.

Che c’entra tutto questo con Berlusconi ?

C’entra, perché anche oggi, verosimilmente, operano le distorsioni di sempre. C’è un vincitore annunciato (il Pd di Bersani), ci sono liste momentaneamente imbarazzanti (tutto ciò che sa di Lega e Berlusconi), ci sono liste rifugio, con cui sei abbastanza tranquillo di non fare brutta figura (lista Monti). Il sondaggista esperto, se vuole indovinare il voto o dare informazioni attendibili al suo committente, dovrebbe aggiungere un po’ di voti a Pdl e Lega, toglierne un po’ a Bersani e Monti. Insomma dovrebbe «aggiustare» i sondaggi. Non sappiamo se qualche istituto lo fa effettivamente o se, più correttamente, i numeri che vengono pubblicati ogni giorno sono quelli veri, quelli che risultano ai sondaggisti prima di ogni correzione o ritocco. Se, come dobbiamo augurarci, i dati resi pubblici non sono ritoccati, dovremmo concludere che il distacco effettivo del centro-destra è sensibilmente minore di quello che viene indicato dai sondaggi. Diciamo, giusto per dare un’idea, che dovremmo aggiungere un paio di punti al centro-destra e toglierne altrettanti al Pd e alla lista Monti.

C’è poi un altro fattore che gioca a favore di Berlusconi. Nella seconda Repubblica il cosiddetto incumbent, ossia l’ultimo che ha governato, non ha mai vinto le elezioni. Gli italiani hanno sempre bocciato chi aveva governato, e hanno sempre scommesso su chi stava all’opposizione.

Da questo punto di vista far cadere Berlusconi senza andare al voto è stato un grosso assist a Berlusconi stesso: ha concesso agli italiani il tempo di dimenticare la loro delusione per il duo Tremonti-Berlusconi e di convogliare tutta la loro rabbia sul governo Monti. Un anno fa Berlusconi era il governo uscente e Bersani era l’opposizione che si candidava a prendere la guida del Paese, oggi il governo uscente è quello di Monti, e l’opposizione è Berlusconi, non certo Bersani che con Monti e il suo governo è stato assai leale. Insomma lo svantaggio di essere l’ultimo ad aver governato ricade su Monti, e il vantaggio di essere l’opposizione – dopo lo strappo con Monti – è tutto di Berlusconi.

D’accordo, direte voi, ma sui programmi Berlusconi non è credibile. Qui occorre intendersi. Sui programmi nessuno è credibile, forse nemmeno Monti, la cui famigerata agenda ha già subito fin troppe giravolte (ad esempio su Imu e pressione fiscale). E naturalmente Berlusconi non fa eccezione, racconta di aver rispettato il «Contratto con gli italiani», ma non dice la verità, come sa chiunque abbia studiato seriamente le cifre (che fine hanno fatto le due aliquote Irpef al 23 e 33%?). Però un conto è fare promesse credibili, un conto è apparire credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Distinzione sottile, ma riflettiamoci su: fra Bersani, Monti e Berlusconi chi fa proposte che più facilmente possono essere credute?

Secondo me è Berlusconi che ha più probabilità di intercettare gli umori della gente. E spiego perché. Da almeno due anni, dunque da prima dell’avvento di Monti, i sondaggi segnalano che il problema delle tasse è diventato assolutamente prioritario, come non lo era mai stato prima. Di fronte a questo problema chi è più credibile? La sinistra, che le tasse e la spesa pubblica le ha nel suo Dna? Il governo Monti, che i mali dell’Italia li ha curati innanzitutto con maggiori tasse? O Berlusconi che promette di eliminare l’Imu sulla prima casa e l’ha già fatto con l’Ici?

E sul lavoro, l’altro grande problema degli italiani, chi è più credibile?

La sinistra, verrebbe da dire. Però guardiamo anche al linguaggio, alle parole che si usano per farsi capire dagli italiani. «Mettere il lavoro al centro», slogan ripetuto fino alla noia dai dirigenti della sinistra, non evoca nulla di preciso, di concreto. Dire che chi vuol assumere un giovane a tempo pieno potrà farlo senza pagare un euro di tasse e contributi («come fosse in nero», ha detto Berlusconi in tv), uno dei cavalli di battaglia del centro-destra, è una proposta che chiunque capisce, e chi ha un’attività apprezza.

Naturalmente ognuno può pensare che nulla di quel che dice Berlusconi sarà realizzato, o all’opposto che tutto sarà realizzato e proprio questo ci porterà al disastro. Ma resta il fatto che quel che vuol fare Berlusconi si capisce subito, mentre quel che vogliono Bersani e Monti si capisce meno, o appare lontano, astratto, difficilmente traducibile in misure concrete. Per dirla con Adriano Celentano, Berlusconi è rock, Monti è lento, come si vede bene in tv. Non sono categorie politiche, ma nella comunicazione sono cose che contano. E la politica è anche questo, comunicazione, energia, saper arrivare agli elettori. Tutte cose che in un mondo ben ordinato dovrebbero contare poco ma che, quando nessuno è veramente credibile, finiscono per contare molto.

 

la Repubblica, 21-01-2013

Campagna elettorale formato reality, di Ilvo Diamanti

Manca ancora un me­se al voto. Anzi, qual­cosa di più. Ma è come se, a spoglio iniziato, si discu­tesse degli exit pol. In attesa delle proiezioni. Con il timore che le stime fornite si rivelino sbagliate. È già avvenuto. Nel 2006, in particolare. Quando gli exit pol annunciarono la larga vittoria dell’Ulivo di Pro­di. Mentre, a spoglio concluso, la competizione si risolse in un quasi-pareggio.

Oggi, a un mese al voto, è come se fos­simo ancora lì, dentro e davanti agli schermi, a interrogarci sull’attendi­bilità delle stime prodotte dai son­daggi. Che da troppo tempo e con troppo an­ticipo hanno decretato il successo del centro­sinistra e del Pd, guidato da Bersani. Oggi, co­me nel 2006, si teme – oppure si spera, a se­conda dei punti di vista – l’idea della rimonta di Berlusconi. Alimentata da alcuni sondaggi, che registrano un avvicinamento tra il centro­sinistra e il centrodestra. Tra Bersani e Berlu­sconi la forbice si stringe, è la voce che corre. Amplificata da Berlusconi, che, come high­lander, affolla gli schermi, più volte al giorno, per narrare la leggenda del proprio eterno ri­torno. E che è li, addosso a Bersani. Anzi, l’ha praticamente superato. Sondaggi alla mano. I propri, naturalmente. Come nel 2006. Oggi, quel precedente incombe. E legittima ogni ti­more e ogni speranza. Tanto che Luca Ricolfi, sulla Stampa, autorevolmente, si chiede e chiede: “E se Berlusconi vincesse ancora?”. Tanto più dopo la performance a “Servizio Pubblico”, la trasmissione di Santoro. All’in­domani, giornali e giornalisti, sondaggi alla mano, “hanno dato i numeri” del (presunto) recupero prodotto da quella prestazione.

 

Il problema è che mai come oggi i sondaggi sono apparsi tanto discordanti. A livello na­zionale, infatti, il centrosinistra oscilla dal 33% a oltre il 40%. Il centrodestra dal 24% a 34%. Così tutto – ma davvero tutto – diventa possi­bile. La vittoria larga e schiacciante del cen­trosinistra. Oppure la rimonta di Berlusconi. Peraltro, questa carovana di sondaggi e di da­ti si snoda ovunque. In televisione e sui gior­nali. Non c’è emittente, tg e talk politico che non abbia il suo istituto demoscopico e il suo pollster di riferimento. Che fornisce i suoi nu­meri e le sue stime ogni settimana, a volte ogni giorno. La Rete, da parte sua, rilancia tutti i sondaggi, tutte le stime e tutte le statistiche. Così viviamo immersi in una sorta di reality a reti – e testate – unificate. Di cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. D’altronde, i talk politici e di approfondimento stanno ot­tenendo indici di ascolto elevati. In particolare, quando va in scena Berlusconi. Possibil­mente, in terreno nemico o comunque insi­dioso. Dove gli è possibile recitare la pane de Cavaliere di Monchausen. Che si risolleva, per miracolo, quando tutti lo danno per finito. Berlusconi: può contare sull’assuefazione al modello che egli stesso ha inventato e affer­mato – in Italia. La politica come marketing e come spettacolo. A cui è difficile sottrarsi. Non vi riescono neppure gli avversari. Per cui reci­tano, insieme a lui, nel teatro della (media) po­litica. Affiancati da altri attori. I conduttori te­levisivi, i giornalisti, gli esperti. I pollster. (Lo preferisco a “sondaggisti”). Nuovi protagoni­sti. Perché recitano la parte dei “garanti”. E dei giudici. Quelli che misurano il gradimento e il consenso dei partiti e dei politici presso l’opi­nione pubblica. Per cui traducono la compe­tizione elettorale – he avverrà tra un mese op­pure una settimana – in un plebiscito conti­nuo. Che si rinnova e si ripropone ogni giorno e in ogni momento del giorno. Con il limite _ oppure il vantaggio – che non c’è un solo ri­sultato, un solo indice, una sola misura. Ce ne sono molte. Così nessuno vince e nessuno perde, in modo definitivo. Dipende dal mo­mento, dal sondaggio, dalla trasmissione.

 

Naturalmente, l’approssimazione che ca­ratterizza le stime dei sondaggi riflette alcune ragioni molto ragionevoli. Ne segnalo solo al­cune, a cui ho fatto cenno in altre occasioni.

 

  1. I sondaggi rilevano le opinioni degli elet­tori, che però cambiano, via via che il voto si avvicina. Gran parte degli elettori non si inter­roga sulla propria scelta a mesi e neppure a settimane di distanza. Anche per questo la quota degli indecisi è alta. E tende a ridursi in­sieme alla distanza dalle elezioni.

 

2. Le scelte degli elettori (sondati) dipendo­no dall’offerta politica. Fino a un mese fa solo il Centrosinistra era sceso in campo. Trainato, peraltro, dalle primarie. Tutto il resto era so­speso. Il ruolo di Berlusconi, l’alleanza fra Pdl e Lega. La presenza di Ingroia a Sinistra. E, in particolare,l’iniziativa e lo spazio di Monti.

 

Ciò spiega l’ampiezza dei consensi attri­buiti al Pd e al centrosinistra. Fino a qualche settimana fa, soli in un campo politico confu­so. Ma ciò spiega anche la “riduzione” della forbice registrata dai sondaggi, nell’ultima fa­se. Perché oggi il centrosinistra fa i conti con altri soggetti politici. Veri e definiti.

 

3. Tuttavia, la “misura” di questa tendenza è difficile da dimostrare. Perché manca anco­ra oltre un mese al voto e gli indecisi sono an­cora circa il 30%. E molto può cambiare. An­che perché la campagna elettorale serve pro­prio a questo: a rafforzare oppure a modifica­re le tendenze rilevate dai sondaggi.

 

Infine c’è la questione fondamentale. I son­daggi’ come ha sottolineato Nando Pagnoncelli, si sono trasformati “da strumento di co­noscenza ed analisi … a strumento di propa­ganda e di previsione”. E, aggiungo, di spetta­colo. Più che rilevare l’opinione pubblica, la mettono in scena e la costruiscono. Un’ evolu­zione particolarmente favorevole a Berlusco­ni. Che prima degli altri ha introdotto la poli­tica come marketing. E meglio di altri ne con­trolla gli strumenti e le tecniche. Così, nella confusione demoscopica e nel reality della campagna elettorale, che oggi impazzano, il Cavaliere è riuscito a rilanciare il bipolarismo personale: Pdl-BerIusconi vs Pd-Bersani.

Complice l’afasia di. Ha messo all’angolo Monti e la sua coalizione. Ma anche Grillo e la Sìnistra di Ingroia. E riuscito, inoltre a sollevare il dubbio: “E se vincesse di nuovo Berlusconi?”. Non importa se sia vero. Un altro autorevole analista di sondaggi, come Paolo Natale (su “Europa”), anzi, definisce la rimonta una “leggenda”. Ma sol­levare il dubbio e perfino contestarne il fon­damento, in fondo, significa legittimarlo. E accettare il gioco della (video) politica come marketing significa riprodurre il berlusconi­smo. Una recita ormai stanca e invecchiata. Come il protagonista. E come gli altri attori chela assecondano, pur recitando la parte de­gli avversari. Come gli spettatori – elettori. Noi.

Che abbiamo l’occasione, tra un mese, di chiuderei! Realityshow a cui partecipiamo da vent’anni.

 

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