DESTRA E SINISTRA ESISTONO ANCORA, di Antony Giddens

A. Giddens è nato da una famiglia della media borghesia londinese, ha ottenuto la laurea alla London School of Economics, e si è specializzato a Cambridge.Ha iniziato ad insegnare psicologia sociale all’Università di Leicester dove ha incontrato Norbert Elias, prima di incominciare lo sviluppo della sua posizione teoretica. Successivamente ha lavorato e ha diretto la London School of Economics e dal 2004 siede presso la Camera dei Lord, appartenendo al partito laburista.

da La Repubblica, 15-01-2013

Destra e sinistra sareb­bero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale ita­liana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Cio­nonostante restano due con­cetti politici profondamente differenti e continuano ad ave­re un valore specifico anche nell’odierno mondo globaliz­zato.

La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occi­dente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatori­smo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalìsmo, in una maggiore regolarnenta­zione del mercato, nel liberali­smo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben vi­sibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A si­nistra non c’ è più l’utopia socia­lista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, co­me dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, pe­raltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.

Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’am­biente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento cli­matico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, per lo meno se

guardato senza paraocchi.

In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distin­guono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura ver­so l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere respingere le innovazioni, mantenere lo status quo. Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limita­ti. Ed è portato re di frequenti contraddizioni: vi sono par­titi apertissimi quando si tratta di discutere di libero mer­cato che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sci tema dell’immigrazione, senza com­prendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aper­to” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.

La discussione sci presunto superamento di concetti come” destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideo­logia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipen­desse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di primna, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana go­vernance internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta

Una migliore definizione del confronto politico odier­no verterebbe allora su un termine diventato assai popo­lare, seppure utilizzato spesso a sproposito: reformer. Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi indu­strializzati sono fortemente indebitati. Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora so­no state indicate e discusse due vie d’uscita da questa si­tuazione: incoraggiare la crescita economica con inve­stimenti pubblici, oppure puntare sci rigore, sui tagli al­la spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una paro­la sull’ austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio pa­rere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’ overdose e rischi di stare ancora peggio.

E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore eu­ropeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa so­stenibile. Una ripresa in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzii principali benefici della crescita sullo 0, l percento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito. Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere I’ ambien­te c la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dal­Ia crisi e diventerà più competitivo semplicemente ven­dendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. N é conti­nuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giova­ni d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i no­stri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.

Come realizzare un’impresa così immane e comples­sa? lo continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. 10 stesso spirito di quel­la Terza Via a cui ho dedicato una patte dei miei studi teo­rici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un pro­gressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti me­di su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico. La Terza Via va perciò adegua­ta ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato la­scia intravedere, non ultima quella di una nuova rivolu­zione industriale e tecnologica, che sarà necessaria per­ché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi so­no quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studio­si la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rin­saldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uni­ti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno sce­nario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che” destra” e” sinistra”

 

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