L’editoriale che propongo alla vostra attenzione è un tassello molto importante delle riflessioni di politica economica che Krugman conduce da un anno circa a questa parte. Nell’articolo l’economista, premio Nobel per l’economia per il 2008, spiega come le previsioni economiche ufficiali a lungo termine si reggano su due ipotesi fondamentali del tutto prive di giustificazioni razionali.
La prima ipotesi è che la crescita media nei prossimi trent’anni sarà la stessa che nei passati trenta: è come se si vincolassero le previsioni meteorologiche per i prossimi tre mesi a stare entro intervalli prefissati (e piccoli) attorno ai valori medi registrati nelle scorse tre settimane nelle quali c’è stato bel tempo. Basta sostituire mesi con decenni, e gli indicatori meteorologici (sole, venti, pioggia) con analoghi indicatori economici e si avrà un’idea abbastanza precisa dell’affidabilità di previsioni economiche (a lungo termine) così costruite.
La seconda ipotesi è che le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, che sono cresciute significativamente negli ultimi tre decenni, non crescano più nei prossimi tre. È come risolvere il problema dell’aumento del riscaldamento globale semplicemente negandolo, anzi neanche dandosi la pena di negarlo. Anche questa ipotesi la dice lunga sull’affidabilità delle previsioni economiche ufficiali a lungo termine.
Vi assicuro che non sto scherzando, e che mi sono limitato a trasferire fedelmente al campo meteorologico le ipotesi sulle quali sono costruite le previsioni a lungo termine in campo economico. Certo un mese è molto diverso da un decennio, ma è un fatto noto che la non linearità delle equazioni della meteorologia le rende strutturalmente inaffidabili al di là di qualche giorno, per cui le previsioni meteorologiche per i prossimi tre mesi sono effettivamente l’analogo di previsioni economiche a lungo termine. Infatti le previsioni meteorologiche a tre mesi non si fanno, o, se si fanno, non inducono variazioni significative nel comportamento delle persone.
Invece le previsioni economiche ufficiali (e anche quelle ufficiose) a lungo termine non solo si fanno, ma hanno conseguenze economicamente rilevanti per i popoli interessati. Basta pensare alla distruzione del nostro sistema pensionistico e a quella del nostro sistema di assistenza sanitaria allegramente intraprese, tra le acclamazioni della quasi totalità dei mezzi di comunicazione, da un distinto signore in loden. Questo tecnico al di sopra delle parti ha infatti deciso, sulla base di dati e metodologie validi soltanto per il breve periodo, ma estrapolati arbitrariamente al lungo periodo, che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, che l’apparato statale è pieno di sacche di inefficienza, sprechi e corruzione, e che quindi bisogna intervenire subito con decisione perché il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.
Per dirla in parole meno tecniche ma più chiare: se qualcuno ci chiedesse di pagare oggi le tasse per i disastri che un uragano particolarmente distruttivo causerà fra tre mesi lo guarderemmo con la pietà riservata ai dementi e non ci sogneremmo certo di obbedirgli. Se invece quel distinto signore in loden ci dice che i vincoli europei ci impongono di distruggere oggi il nostro sistema pensionistico e di assistenza sanitaria perché le previsioni economiche di oggi ci dicono che fra trent’anni non riusciremo più a pagarlo lo prendiamo sul serio e ci diamo da fare per obbedirgli.
Il problema di fronte al quale ci troviamo è allora quello di capire perché nel campo economico l’irragionevolezza evidente di un simile modo di procedere viene presa per buona anziché sbeffeggiata senza pietà, come accadrebbe invece nel campo meteorologico.
Krugman, in quanto economista, non può dire queste cose con la mia stessa chiarezza, ma va capito: si trova infatti nella stessa situazione di un cardinale della Chiesa cattolica che ritenesse sbagliato il comportamento della sua chiesa su un’infinità di temi ma che si ritenesse vincolato dal suo appartenervi a dirlo senza alzare troppo i toni. Per cui si limiterebbe, molto probabilmente, a dire che la sua chiesa è arretrata di un paio di secoli e che servirebbe un nuovo concilio.
Nello stesso modo Krugman si limita a dire che noi non sappiamo quasi niente sulle previsioni economiche a lungo termine e attira invece l’attenzione, molto giustamente, sul cambiamento qualitativo epocale che l’economia contemporanea sta per subire a causa dello spegnersi del motore che ne ha assicurato la crescita negli ultimi due secoli e mezzo. E di questo cambiamento promette di parlare in un prossimo articolo.
Buona lettura!
Gianni Mula
New York Times – 27 dicembre 2012
E se la crescita fosse finita?
di Paul Krugman
La grande maggioranza dei commenti economici che si leggono oggi sui giornali è focalizzata sul breve periodo: gli effetti del “fiscal cliff” sulla ripresa economica degli Stati Uniti, le tensioni nella zona euro, l’ultimo tentativo del Giappone di uscire dalla deflazione. Questa attenzione è facilmente comprensibile, poiché una depressione globale può rovinare un’intera giornata. Ma i nostri attuali problemi non dureranno per sempre, e dovremmo allora chiederci: che prospettive ci sono per una crescita di lungo periodo?
La risposta è: ne sappiamo molto meno di quanto crediamo.
Le previsioni a lungo termine fatte da organismi ufficiali come l’Ufficio Bilancio del Congresso, si basano in genere su due ipotesi fondamentali. La prima è che la crescita economica nel corso dei prossimi decenni sarà simile a quella degli ultimi decenni. In particolare che la produttività – il principale motore della crescita – sia destinata ad aumentare a un ritmo non troppo diverso da quello che ha avuto dal 1970 in poi. La seconda è che le disparità nella distribuzione del reddito, che sono salite drammaticamente nel corso degli ultimi tre decenni, nei prossimi tre aumenteranno invece solo in misura modesta.
Non è difficile capire perché gli uffici fanno queste ipotesi. Considerando quanto poco sappiamo sulla crescita nel lungo periodo, ipotizzare che il futuro sarà simile al passato è abbastanza naturale. D’altra parte, se le disparità di reddito continuassero a salire, questo significherebbe un futuro da incubo, di lotta di classe generalizzata – non proprio il tipo di futuro che gli uffici governativi amano considerare.
Il problema è che la saggezza elementare che sta alla base di una, o di entrambe, le ipotesi, non ha alcun fondamento. Robert Gordon della Northwestern University ha recentemente creato un certo scalpore sostenendo che la crescita economica dovrebbe rallentare bruscamente – anzi, che potremmo essere alla fine del lungo periodo di crescita che ha avuto inizio nel settecento.
Gordon sottolinea che la crescita economica in tutto questo periodo non è mai stata un processo ad andamento costante, ma che è stata guidata da distinte “rivoluzioni industriali”, ciascuna basata su un particolare insieme di tecnologie. La prima rivoluzione industriale, basata in gran parte sulla macchina a vapore, ha guidato la crescita tra il tardo settecento e l’inizio dell’ottocento. La seconda, resa in gran parte possibile dall’applicazione della scienza a tecnologie come l’elettrificazione, i motori a combustione interna e l’ingegneria chimica, è cominciata intorno al 1870 e ha guidato la crescita sino agli anni ’60 del secolo scorso. La terza, incentrata sulle tecnologie dell’informazione, definisce la nostra epoca attuale.
Come rileva giustamente Gordon, i ritorni economici conseguenti alla terza rivoluzione industriale sono stati sinora di gran lunga inferiori a quelli che hanno caratterizzato la seconda. Sul piano economico l’elettrificazione, per esempio, è stata molto più rilevante di Internet.
È una tesi interessante, e un utile contrappeso a ogni tipo di esaltazione automatica degli ultimi sviluppi tecnologici. E anche se non credo che Gordon abbia ragione, il modo in cui probabilmente sbaglia mostra ugualmente che la saggezza elementare di cui parlavamo prima non ha alcun fondamento. Le speranze di battere il tecno-pessimismo di Gordon sono infatti in gran parte legate all’idea che la gran parte del ritorno economico delle tecnologie dell’informazione, che è appena iniziato, verrà dalla crescita nel campo delle macchine intelligenti.
Chi segue questi temi sa che il campo dell’intelligenza artificiale è stato per decenni un terreno di costanti frustrazioni, in quanto si è dimostrato incredibilmente difficile per i computer eseguire compiti che ogni essere umano trova facili, come comprendere il parlato normale o riconoscere i diversi oggetti che appaiono in un’immagine. Di recente, però, le barriere sembrano essere cadute – non perché abbiamo imparato a replicare i meccanismi della comprensione umana, ma perché i computer, attraverso metodi sofisticati di ricerca in enormi database, possono ora fornire risposte apparentemente intelligenti.
È vero, il riconoscimento vocale è ancora imperfetto: secondo uno di questi software un signore adirato mi ha chiamato per informarmi che ero ancora rimasto al “problema dell’autunno” [“Fall issue yet”, è il testo inglese, intraducibile e incomprensibile, prodotto dal software, NdT]. Ma si tratta comunque di software di gran lunga migliore di quello di pochi anni fa, e che è già diventato uno strumento professionalmente utile per molte applicazioni. Il riconoscimento degli oggetti è invece un po’ più indietro: è ancora una notizia eccitante che una rete di computer abbia spontaneamente imparato a identificare i gatti contenuti in immagini ricavate da YouTube. Ma a questo punto con un piccolo sforzo in più si può passare dal riconoscimento dei gatti a una miriade di applicazioni economicamente importanti.
Così, nonostante l’opinione di Gordon, le macchine potrebbe presto essere pronte per eseguire diverse attività che attualmente richiedono grandi quantità di lavoro umano. E quindi avremo una rapida crescita della produttività e, di conseguenza, una forte crescita economica complessiva.
Ma – ed è questa la questione cruciale – chi guadagnerà da questa crescita? Purtroppo, ed è fin troppo facile previsione, la maggior parte degli americani sarà lasciata indietro, perché le macchine intelligenti finiranno per svalutare il contributo dei lavoratori, anche di quei lavoratori altamente qualificati le cui competenze diventeranno improvvisamente ridondanti. Ci sono perciò buone ragioni per credere che la saggezza elementare che sta alla base delle previsioni di bilancio a lungo termine – previsioni che informano quasi ogni aspetto delle discussioni politiche di oggi – sia un atteggiamento del tutto sbagliato [perché non considera l’insostenibilità sociale di uno sviluppo economico che espella dal processo produttivo quantità rilevanti e crescenti di forza lavoro, NdT].
Quali implicazioni dovremmo allora trarne per la politica? Beh, dovrò affrontare quest’argomento in un prossimo articolo.
(Traduzione di Gianni Mula)
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