Tempo di bilinguismo? , di Mario Cubeddu

Tempo di bilinguismo?

Se fosse a dar retta a quel che dicono i politici sardi, l’isola sarebbe avviata entro breve tempo a una dichiarazione di sovranità e a una applicazione del bilinguismo nelle istituzioni educative e culturali. L’assessore alla cultura della giunta Cappellacci, Sergio Milia, ha pronunciato, durante la settima conferenza regionale della lingua sarda ad Aggius un mese fa, un discorso di pieno sostegno all’insegnamento della lingua sarda nelle scuole e al suo uso in tutti i contesti. Questo è almeno ciò che possiamo desumere da affermazioni come questa:  “Il bilinguismo è una risorsa contro la crisi e può essere la base per un nuovo progetto di rilancio economico, sociale e culturale per la Sardegna. La lingua sarda e le varietà alloglotte devono unire le nostre genti e non dividerle”. Qualche settimana dopo il Consiglio Regionale ha approvato un ordine del giorno di pieno sostegno a questa linea. Queste le parole non nuove pronunciate dalla politica sarda a proposito di bilinguismo. Sul piano pratico esse si traducono in un attacco allo “stato tiranno” che negherebbe i fondi necessari alla tutela della lingua sarda. Con l’aggiunta ragionevole che se lo stato italiano ha le sue responsabilità, altrettante e maggiori ne ha la Regione sarda che ha ignorato questo problema per decenni e lo ha scoperto solo grazie a forti sollecitazioni di gruppi di intellettuali. Sulle opinioni presenti nella società sarda, sulla sensibilità e l’interesse al problema da parte dei cittadini, ci sono opinioni differenti. Una ricerca realizzata dalle due Università sarde, presentata qualche anno fa alla terza edizione della stessa Conferenza, concludeva che più della metà dei sardi conoscono e usano la lingua sarda, ne  riconoscono l’importanza e ne auspicano la tutela e valorizzazione. Sembrano invece prevalere i dubbi e le perplessità sull’introduzione dell’insegnamento del sardo nelle scuole come “lingua straniera” o addirittura come lingua veicolare da usare per insegnare le altre materie, la letteratura o la matematica, per fare un esempio. Una conseguenza minore, ma significativa, delle giornate di Aggius si è verificata nella rete, lo strumento oggi più diffuso di dibattito politico e culturale. In uno dei blog sardi più seguiti il giornalista cagliaritano Vito Biolchini, reduce dalle due giornate della conferenza, salutava con soddisfazione il clima unitario del dibattito dove si poteva verificare dal vivo la sostanziale unità della lingua sarda nel fatto che ciascuno degli intervenuti parlava il suo sardo davanti a un uditorio che lo capiva perfettamente e gli rispondeva con la sua variante. Attraverso i commenti all’articolo, scritti quasi tutti in sardo, si potevano leggere le principali posizioni sul problema oggi presenti in Sardegna: sostegno appassionato, dubbi, posizioni contrarie. Queste ultime ripropongono la presunta incapacità della lingua sarda di confrontarsi con i linguaggi della scienza e della cultura, a meno di perdere la sua natura di lingua “rustica”, e la sostanziale rassegnazione alla sua progressiva scomparsa. Dai sostenitori del sardo è nata invece una proposta diversa: se il modo migliore, o forse l’unico, per aiutare il sardo è quello di parlarlo in tutti i contesti, in famiglia, nella società, nella scuola, perché non costituire un gruppo in cui sardi di ogni parte dell’isola si incontrano per confrontare le varietà del sardo e discutere dal livello della società civile e urbana la questione della lingua in Sardegna? Tutti conoscono il sostegno manifestato da Antonio Gramsci al sardo come lingua materna da trasmettere ai bambini. Egli non riteneva che si trattasse di una battaglia reazionaria o di retroguardia. Anticipava le lodi del bilinguismo e la sua utilità nella crescita e nello sviluppo umano e culturale di bambini e ragazzi. Certo per lui la lingua della cultura era l’italiano. Il sardo, anche se riconosciuto sin dal XVI secolo dagli intellettuali sardi di allora come la lingua della “nazione” sarda, non ha avuto la forza di imporsi nella scuola e nell’amministrazione, al contrario di quanto era avvenuto per altre lingue come il catalano. Le classi dirigenti cittadine scelsero per i loro figli il castigliano, la lingua dell’Impero. Il sardo è ancora lingua delle classi dirigenti durante il triennio rivoluzionario e in sardo vengono cantate le rivendicazioni del movimento antifeudale. Quando poi nelle trincee il soldato sardo interpella l’ombra che si muove nel buio con la frase “si ses italianu, fuedda in sardu”, se sei italiano parla in sardo, fatti riconoscere come uno dei nostri, qui siamo tutti sardi, la questione della lingua è diventata secondaria per i movimenti popolari di massa rispetto alle grandi questioni dell’economia e della politica democratica. La conquista della lingua nazionale è stata considerata uno dei passaggi decisivi nel processo di sviluppo materiale e spirituale dei ceti popolari. Su questo è legittimo nutrire dei dubbi. Ogni lingua che muore costituisce una perdita drammatica. E’ giusto e naturale che chi l’ha ricevuta in eredità da una madre pensi di difenderla e proteggerla. Facendo qualcosa di concreto, parlandola, scrivendola. E’ il meglio che si può fare, probabilmente. Come è lecito e giusto sperimentare una sua presenza nell’ambito scolastico, almeno per fare in modo che se ne riconosca la dignità. Sarebbe molto triste che essa venisse inclusa da coloro che combattono i mali prodotti dal capitalismo tra quegli aspetti del mondo popolare che le dinamiche culturali prodotte dall’egemonia borghese hanno condannato al disprezzo e all’abbandono.

 

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