Robot e grandi briganti, di Paul Krugman

 

Robot e grandi briganti

di Paul Krugman

Un altro contributo di Krugman che sembra fatto su misura per la situazione italiana. (Traduzione e introduzione di Gianni Mula)

 

Introduzione
In questi tempi di crisi economica e politica le analisi di Paul Krugman sono davvero illuminanti, perché riescono a rendere evidenti fenomeni importanti che qualcuno ha interesse a tenere nascosti. Nell’articolo appena uscito sul New York Times, che riporto qui di seguito in una mia traduzione, Krugman mette in evidenza come negli Stati Uniti si sia assistito negli ultimi decenni a un trasferimento significativo di reddito dal lavoro dipendente al capitale (cioè da coloro con meno denaro a quelli con più denaro), senza che questa operazione abbia trovato un qualche riscontro nel dibattito politico nazionale, che ha invece sempre riguardato altri temi, ultimamente quelli della necessità, per superare la crisi, di ridurre le tasse ai ricchi e quelle sull’eredità.
Sulle cause dell’aumento della disuguaglianza economica Krugman avanza due possibili spiegazioni, non necessariamente alternative e anzi probabilmente complementari: la prima attribuisce il trasferimento al fatto che ormai la tecnologia comincia a distruggere posti di lavoro ad alta qualificazione e alto stipendio, non più soltanto quelli a bassa qualificazione. La seconda è che le aziende in posizione di monopolio aumentano i prezzi senza trasferire parte del guadagno ai propri dipendenti. Le due cose stanno assieme perché coloro che decidono come trarre profitto dallo sviluppo tecnologico (e quindi scelgono quali tecnologie automatizzare) sono le stesse persone che guidano le grandi multinazionali che tutti i giorni fanno finta di farsi la concorrenza mentre invece operano praticamente in condizioni di cartello.
In sintesi, e per immagini, secondo Krugman conviene vedere il sistema economico come determinato da un lato dalla diffusione crescente di robot (il cui uso pone fuori dal mercato del lavoro quantità notevoli di forza-lavoro anche qualificata), e dall’altro dall’influenza esercitata sui mercati da poche persone di immenso potere finanziario, i grandi briganti.
Robber Barons, il termine inglese usato da Krugman, indica, circa dalla seconda metà dell’ottocento, grandi uomini d’affari che hanno ammassato ingenti fortune con mezzi eticamente discutibili, quindi grandi briganti. Ai tempi nostri indica personaggi quali Rupert Murdoch, Donald Trump, Vladimir Putin e Silvio Berlusconi, ma anche quali George Soros, Bill Gates, Warren Buffet e Carlo De Benedetti. Il fatto che questo secondo gruppo includa personaggi con un’immagine pubblica molto più presentabile non è di particolare significato, quello che conta è che poche persone sono in grado di mobilitare una massa enorme di denaro, e quindi di potere. I mercati, in altre parole, sono il risultato dei voleri di un numero relativamente piccolo di grandi briganti, che magari si fanno anche la guerra (finanziaria) l’uno contro l’altro, ma sanno sempre dove sta il loro interesse come gruppo, e quindi tra di loro non si mordono mai per davvero.
La tesi di Krugman è che è importante il fatto che di questi temi non si parli nel confronto politico a livello nazionale perché ignorarli (o parlare d’altro come discutere se sia più importante il ruolo dei robot o quello dei grandi briganti) significa in pratica avallare il sistema di potere che ha generato l’attuale situazione di disuguaglianza economica e minaccia di aumentarla ulteriormente.
La situazione italiana odierna è molto simile, anzi è un po’ peggio di quella degli Stati Uniti. Ad esempio in questi giorni i giornali parlano del grande pericolo che corre l’economia italiana a causa della decisione di Silvio Berlusconi di sfidare il presidente del consiglio in carica Mario Monti. Apparentemente i fatti sembrano proprio essere questi, un Berlusconi che genera instabilità politica e alti costi per l’economia e causa il conseguente aumento dello spread. In realtà lo spread è qualcosa il cui valore è il risultato di equilibri interni al cartello di fatto che governa l’economia mondiale e l’alternativa Monti-Berlusconi è un’alternativa semifinta: l’anno scorso il cartello ha deciso che Berlusconi doveva uscire di scena perché metteva a rischio gli affari di tutti e ha fatto mettere al suo posto Monti. Oggi Berlusconi con la sua rinnovata iniziativa politica sembra esercitare una grave azione di disturbo del progetto montiano. Di fatto, tuttavia, si tratta di null’altro che di fumo negli occhi del popolo bue. Otterrà qualche garanzia in più per le sue aziende e perderà con stile, ringraziato (certo con molto riserbo) dagli altri grandi briganti per la collaborazione mostrata nel distogliere l’attenzione dall’operazione di spoliazione della classe media che Monti sta eseguendo con una professionalità (e un’efficacia spoliativa) molto superiore a quella di Tremonti e Berlusconi.
E l’Italia continuerà a impoverirsi e ad autodistruggersi, diventando quella cosa irriconoscibile di cui parla Krugman per gli Stati Uniti, con la differenza che mentre gli Stati Uniti possono ancora evitare il disastro, noi sembriamo intenti a distruggere ogni via d’uscita. Persino le recenti dichiarazioni di supporto a Monti del cardinal Bagnasco sembrano da leggere, amaramente per un credente, nell’ottica della solidarietà da brigante a brigante, visto che lo IOR è sicuramente una delle grandi strutture d’appoggio delle operazioni finanziarie dei briganti.
Buona lettura!
Gianni Mula

New York Times 9/12/2012

Robot e grandi briganti

di Paul Krugman

(Traduzione di Gianni Mula)

L’economia americana è ancora, secondo la maggior parte degli indicatori, profondamente depressa. Ma i profitti aziendali sono ad un livello record. Come è possibile? È semplice: i profitti si sono impennati in percentuale del reddito nazionale, mentre i salari e altri tipi di compensi del lavoro sono in calo. La torta non cresce come dovrebbe – ma il capitale se la cava bene arraffandone una fetta sempre più grande, a spese del lavoro.

Un momento – non siamo mica tornati davvero a parlare di capitale contro il lavoro? A quella specie di discussione vecchia, quasi marxista, ormai fuori luogo nella nostra moderna economia informatizzata? Beh, questo è quello che molti pensavano; le discussioni sulla disuguaglianza nella generazione passata si sono concentrate prevalentemente non sul tema capitale contro lavoro, ma su questioni legate alla distribuzione tra lavoratori, sul divario tra lavoratori più e meno istruiti o sull’impennata dei redditi di una manciata di superstar nella finanza e in altri campi. Ma questa può essere storia di ieri.

Più in particolare, mentre è vero che la gente dell’alta finanza fa ancora soldi come banditi – in parte perché, come sappiamo, alcuni di loro in realtà sono banditi – il divario salariale tra i lavoratori con una laurea e quelli senza, che è cresciuto molto negli anni 1980 e all’inizio del 1990, da allora non è cambiato granché. In realtà i neolaureati avevano redditi stagnanti anche prima che scoppiasse la crisi finanziaria. Invece, sempre più spesso, i profitti sono aumentati a scapito dei lavoratori in generale, compresi i lavoratori con quelle competenze che nell’economia di oggi avrebbero dovuto portare al successo.

Perché succede questo? Per quanto posso vedere ci sono due spiegazioni plausibili, che in una certa misura potrebbero esser vere entrambe. Una è che la tecnologia mette il lavoro in condizioni di svantaggio, l’altra è che stiamo guardando agli effetti di un forte aumento del potere dei monopoli. Queste due storie possono essere pensate come l’attribuzione di una maggiore importanza da un lato al ruolo dei robot, dall’altro a quello dei grandi briganti.

Sui robot: non c’è dubbio che in alcune industrie di alto profilo, la tecnologia stia prendendo il posto dei lavoratori di tutti, o quasi tutti, i tipi. Ad esempio una delle ragioni per cui negli Stati Uniti in alcuni settori manifatturieri di alta tecnologia ultimamente si torna a produrre è che oggi il pezzo più importante di un computer, la scheda madre, è sostanzialmente fatta da robot, così che il lavoro a buon mercato dei paesi asiatici non è più una ragione per la loro produzione all’estero.

In un recente libro, “Race Against the Machine”, due economisti del Massachusets Institute of Technology, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, sostengono che storie simili si verificano in molti campi, tra cui quello di servizi come traduzione e ricerca giuridica. Ciò che colpisce nei loro esempi è che molti dei posti di lavori eliminati sono ad alta specializzazione e ad alto salario; cioè la tecnologia non si limita a eliminare i lavori più umili.

Ma possiamo davvero dire in generale che l’innovazione e il progresso possono far male a un gran numero di lavoratori, forse anche a tutti i lavoratori? Sento spesso dire che ciò non può succedere. Ma la verità è che succede, ed è da quasi due secoli che gli economisti seri sono a conoscenza di questa possibilità. L’economista dei primi anni dell’ottocento David Ricardo è ben conosciuto per la sua teoria del vantaggio comparato, che sostiene il libero mercato, ma lo stesso libro del 1817 nel quale veniva presentata quella teoria comprendeva anche un capitolo su come le nuove tecnologie ad alta intensità di capitale della rivoluzione industriale avrebbero potuto effettivamente rendere peggiore, almeno per un po’, la condizione dei lavoratori: cosa che gli studiosi moderni ritengono possa essere effettivamente accaduta per diversi decenni.

Che dire dei grandi briganti? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli, ma le norme antitrust sono state applicate sempre meno durante gli anni di Reagan e non hanno mai ripreso vigore. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono, in maniera a mio avviso convincente, che l’aumento nella concentrazione delle imprese potrebbe essere una causa importante della situazione di stallo nella domanda di lavoro, in quanto le aziende usano il loro crescente potere di monopolio per aumentare i prezzi senza passare gli utili al loro dipendenti.

Non so quanta parte della svalutazione del lavoro sia spiegata dalla tecnologia o dal monopolio, in parte perché si è discusso così poco di quello che sta succedendo. Penso che sia giusto dire che il dibattito sul trasferimento di reddito dal lavoro al capitale non è ancora arrivato a livello nazionale.

Eppure questo trasferimento sta avvenendo – e ha importanti implicazioni. Ad esempio, vi è una grande pressione, generosamente finanziata, per ridurre le imposte sulle società, ma è davvero questo quello che vogliamo fare in un momento nel quale i profitti aumentano a spese dei lavoratori? E che cosa dire sulla pressione per ridurre o eliminare le tasse di successione, visto che stiamo tornando a un mondo nel quale il capitale finanziario, non l’abilità o l’istruzione, determina il reddito? Vogliamo davvero rendere ancora più facile l’avere in eredità la ricchezza?

Come ho detto, questa è una discussione che è appena iniziata – ma è il momento di iniziare, prima che i robot e i grandi briganti trasformino la nostra società in qualcosa di irriconoscibile.

 

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