Le guerre di classe del 2012, di Paul Krugman
New York Times – 29 novembre 2012
Le guerre di classe del 2012
di Paul Krugman
(Traduzione di Gianni Mula)
Segnalo, in una mia traduzione, un articolo di Paul Krugman appena uscito sul New York Times che mi pare di particolare interesse per il pubblico italiano. Infatti Krugman riesuma un concetto, quello di lotta di classe, che in Italia suona fuori moda perché sa di comunismo duro e puro come quello che c’era una volta e di cui si sono ormai perse le tracce. Lo riesuma però dal punto di vista della classe media americana che vede tradito il suo sogno dall’avidità insensata di quelli che Krugman chiama plutocrati, usando un linguaggio che sa(peva) di veteromarxismo ma che ora si limita a esprimere una denotazione di classe di reddito. P.S. Devo una segnalazione ai lettori abituali. Recentemente il Fatto Quotidiano ha inserito tra i suoi blogger tale Antonio Rizzo, un dirigente bancario che dichiara, nella sua presentazione di quest’anno, di aver iniziato dal 2009 a collaborare come editorialista economico con Il Fatto Quotidiano e a firmare i suoi articoli con lo pseudonimo di Superbonus. Mi sfugge perché abbia deciso solo ora di venire allo scoperto, ignorando che in internet si trovavano da subito tante attribuzioni all’economista israelo-argentino Mario Blejer. In ogni caso gli levo volentieri sia le aggravanti che gli avevo attribuite a causa della sua posizione, sia la presunta particolare autorevolezza che gli attribuivo per lo stesso motivo. Anche i suoi post più recenti confermano comunque il mio giudizio negativo sulle scelte del Fatto in campo economico, che presentano ambiguità che, in tempi di “guerra”, sono a mio parere difficilmente accettabili. New York Times – 29 novembre 2012 Paul Krugman (Traduzione di Gianni Mula) Il giorno delle elezioni, ha riferito il Boston Globe, l’aeroporto internazionale Logan di Boston era a corto di spazi di parcheggio. Non per le auto – per jet privati. Un’alluvione di grandi donatori era in città per partecipare alla festa della vittoria di Mitt Romney. Come si è scoperto poi questi plutocrati delusi erano disinformati sulla realtà politica, ma non si sbagliavano su chi fosse dalla loro parte, perché la scelta elettorale riguardava soprattutto gli interessi dei ricchi contro quelli della classe media e dei poveri. E in sostanza la campagna di Obama ha vinto perché ha scelto di ignorare gli avvertimenti dei “centristi” schizzinosi e di sottolineare invece la realtà e l’importanza dell’aspetto di lotta di classe del confronto elettorale. Questo ha fatto sì che non solo il presidente Obama vincesse con margini enormi tra gli elettori a basso reddito, ma che tali elettori si presentassero in gran numero, suggellando così la sua vittoria. La cosa importante da capire ora è che le elezioni sono passate, ma la guerra di classe non è passata. Le stesse persone che hanno scommesso grosso, e perso, su Romney stanno ora cercando di riguadagnare di nascosto – in nome della responsabilità fiscale – il terreno che non sono riusciti a guadagnare in un’elezione aperta. Prima di arrivare a questo aspetto, una parola sul voto vero e proprio. Ovviamente il mero interesse economico non spiega del tutto come gli individui, o anche ampi gruppi demografici, esprimano la loro preferenza. Gli americani di origine asiatica formano un gruppo relativamente benestante, ma hanno votato tre a uno per il presidente Obama. I bianchi del Mississippi non sono invece particolarmente benestanti, ma fra di loro solo uno su dieci ha votato Obama. Queste anomalie, tuttavia, non sono bastate a modificare il quadro generale. Nel frattempo, i democratici sembrano aver neutralizzato il tradizionale vantaggio repubblicano sui temi sociali, così che le elezioni sono state davvero un referendum sulla politica economica. E gli elettori hanno detto chiaramente no ai tagli alle tasse per i ricchi, no al taglio dei benefici per la classe media e dei poveri. Così che cosa deve fare chi vuole la guerra di classe a tutto campo? Come ho già suggerito la risposta è di affidarsi al furto con destrezza – cioè contrabbandare politiche favorevoli ai plutocrati per risposte sensate al deficit di bilancio. Si consideri, come primo esempio, l’esigenza di innalzare l’età pensionabile, l’età di ammissibilità per Medicare (il sistema federale di assistenza medica per gli anziani, N. d. T.), o entrambe. Questo è solo ragionevole, ci è stato detto – dopo tutto, l’aspettativa di vita è aumentata, quindi non dovremmo tutti andare in pensione più tardi? In realtà, tuttavia, sarebbe un cambiamento di politica estremamente regressivo, che significherebbe imporre oneri severi agli americani a basso e medio reddito, colpendo a mala pena i ricchi. Perché? Anzitutto perché l’aumento della speranza di vita si concentra tra i ricchi: perché mai i portinai dovrebbero andare in pensione più tardi visto che gli avvocati vivono più a lungo? In secondo luogo, sia la Social Security (il sistema federale di assistenza, N. d. T.) che Medicare sono molto più importanti, in rapporto al reddito, per gli americani meno abbienti, così che ritardare la loro accessibilità sarebbe un colpo di gran lunga più grave per le famiglie comuni che per l’uno per cento di quelle più ricche. Oppure si consideri, per prendere un esempio meno evidente, l’insistenza sul fatto che eventuali aumenti delle entrate debbano provenire dal ridurre le deduzioni piuttosto che dall’introduzione di aliquote fiscali più elevate. La cosa fondamentale da capire è che la matematica di questa proposta non funziona: non c’è, infatti, nessun limite alle deduzioni che possa far aumentare le entrate provenienti dalle classi agiate tanto quanto si può ottenere semplicemente lasciando scadere i tagli fiscali dell’era Bush. Quindi qualsiasi proposta di evitare un aumento delle tasse è, qualunque cosa dicano i suoi sostenitori, una proposta per spostare, in un modo o nell’altro, il carico fiscale dall’uno per cento dei più ricchi alla classe media o ai più poveri. Il fatto è che la lotta di classe c’è ancora, e questa volta con una dose aggiuntiva di inganni. E questo, a sua volta, significa che bisogna guardare con molta attenzione a tutte le proposte provenienti dai soliti noti, anche – e soprattutto – se la proposta viene presentata come una soluzione bipartisan, di buon senso. In particolare bisogna ricordarsi, ogni volta che qualcuno (soprattutto fra le cassandre che gridano che il problema è il debito pubblico accumulato dallo stato) parla di “sacrifici condivisi” , di chiedere: sacrifici rispetto a che cosa? Come i lettori abituali sapranno, io non sono tra i fan della relazione Bowles-Simpson sulla riduzione del disavanzo. Il piano definito in questa relazione è mal progettato anche se per qualche motivo ha raggiunto uno status quasi sacro stato presso l’elite politica di Washington. Eppure per Bowles-Simpson si può dire almeno questo: per parlare di sacrifici condivisi è partito da una “base” che aveva già incorporato la fine dei tagli fiscali alle persone abbienti di Bush. A questo punto, però, quasi tutte le cassandre sembrano volerci far considerare la scadenza di questi tagli – che sono stati introdotti con pretesti falsi, e non avremmo mai potuto permetterceli – come una sorta di grande concessione da parte dei ricchi. Non lo è. Quindi tenete gli occhi aperti perché lo spennamento del pollo fiscale continua. Si tratta di una verità scomoda ma reale che non siamo tutti sulla stessa barca; l’America della guerra di classe a tutto campo ha perso alla grande le elezioni, ma ora cerca di usare la pretesa di essere preoccupata per il deficit per strappare la vittoria dalle fauci della sconfitta. Non permettiamogli di farlo. Venerdì 30 Novembre,2012 Ore: 17:43 |