Un prete sardo, uno … tra i pochi.

Non c’è vertenza industriale degli ultimi anni a cui non abbia preso parte, specialmente per il centro Sardegna. Non solo con il ruolo che più gli è proprio, quello del buon pastore che assiste i lavoratori in lotta e le loro famiglie, ma partecipando in prima persona ai tavoli delle trattative. Come quella volta a Roma, nel maggio 2003, per il caso apparentemente senza sbocchi Enichem-Montefibre. Per accedere all’incontro alla Presidenza del Consiglio, don Pietro Borrotzu indossò i panni del sindacalista, in modo da poter consegnare al sottosegretario Gianni Letta una petizione firmata da oltre diecimila fedeli per la salvezza di Ottana. Letta si accorse del piccolo inganno, nonostante don Pietro anche quella volta non indossasse il clergyman ma una normale camicia senza cravatta sotto la giacca scura: da ex giornalista conosceva i meccanismi della categoria per “imbucarsi” a riunioni ufficiali, e certo gli parve singolare che lo stratagemma venisse utilizzato da un prete. Ma accettò di buon grado la presenza del sacerdote e soprattutto la petizione, che contribuì all’esito positivo della vertenza. «In realtà – dice don Pietro – non ho mai nascosto il mio ruolo, in quella e altre vertenze, perché ho sempre avuto in bella mostra il mio crocifisso. A Palazzo Chigi se non ricordo male entrai in quota Cisl, ma tutti e tre i sindacati confederali mi hanno offerto la loro tessera. Ho rapporti ottimi con tutti». Oranese, 63 anni, don Pietro Borrotzu dirige la Pastorale sarda del lavoro, l’organismo della conferenza episcopale che si occupa di dinamiche sociali, dalle fabbriche al reinserimento dei detenuti. In realtà il ruolo che con gli anni si è cucito addosso è quello del prete sindacalista, e di sicuro vanta una esperienza e una capacità d’analisi che pochi suoi “colleghi” possono vantare. Porta con orgoglio nome e cognome di un partigiano di Giustizia e Libertà, suo compaesano, fucilato dai nazisti in cambio della liberazione di alcuni civili che lo avevano ospitato. «Quella che per me è stata autentica folgorazione risale al 1971, a un convegno della Pastorale sarda sul lavoro nella diocesi di Nuoro», ricorda. Borrotzu era un seminarista, studente di Teologia all’università di Cagliari. «Fui invitato a partecipare con i miei coetanei, ma c’erano anche i sindacati e i borsisti di Ottana, coloro che in quel periodo frequentavano i corsi di formazione da cui sarebbe nata la classe operaia di Ottana. Mi si aprì un mondo. Ricordo che la chiesa aveva due visioni diverse sull’industrializzazione della Sardegna centrale. C’era chi, come don Menne, all’epoca responsabile della Pastorale per la diocesi di Nuoro, aveva un atteggiamento che potremmo definire operaista, aperto allo sviluppo economico e sociale che un’industria importante avrebbe portato in un mondo dominato dalla pastorizia, e poverissimo. A lui si contrapponeva don Cugusi, che invece vedeva un atteggiamento troppo protettivo da parte della chiesa verso il mondo operaio, a scapito di quello agropastorale, che rappresentava il tessuto vitale dei nostri paesi e certo era più vicino all’ambiente ecclesiale». E lei, don Pietro? «Io fui affascinato dalla consapevolezza dei giovani operai. Tra loro c’era chi era emigrato per lavorare nelle fabbriche del Continente ed era rientrato per fare l’operaio nella propria terra. Insomma, rientravano nell’isola molti lavoratori che avevano acquisito una coscienza di classe operaia, un senso dell’agire collettivo, superando i limiti originari dell’individualismo, tipici del mondo agropastorale». Parla da marxista consumato, don Pietro, ed è molto probabile che “Il Capitale” abbia davvero fatto parte delle sue letture giovanili, a differenza di quanti allora se ne riempivano la bocca senza averlo mai aperto. «Il risultato della preparazione di quei giovani operai – dice il sacerdote – si vide già poco tempo dopo, nel 1973, quando si opposero al licenziamento a Ottana degli operai delle imprese esterne. Avrebbero potuto disinteressarsene, perché il loro posto di lavoro non veniva toccato. Ma lottarono ugualmente. C’era, appunto, la consapevolezza di adoperarsi per il bene comune e non solo per il proprio». La chiesa come era vista in fabbrica? «C’era diversità di vedute, ma soprattutto una difficoltà comune di comprensione, come evidenziò Paolo VI rivolgendosi ai lavoratori dell’Ilva di Taranto. I pochi operai vicini alla chiesa quando intervenivano nelle discussioni venivano messi a tacere rapidamente perché “puzzavano di sacrestia”. Oggi quei muri sono caduti. Certo, io ho ereditato una situazione dove si era lavorato molto per il dialogo, con le Acli e don Menne. Ricordo che un sacerdote, don Cossu, quando discutevamo dell’argomento diceva sempre che non dovevamo preoccuparci di quanto gli operai fossero indifferente ai temi religiosi, ma di quanto le parrocchie fossero estranee, più o meno consapevolmente, al loro mondo». E oggi, com’è cambiata la classe operaia? Questa definizione a lungo evocativa ha ancora senso? «L’atteggiamento è mutato, di sicuro c’è più rassegnazione. Il rischio è che si ricada in un nuovo individualismo. Dieci anni fa ho visto lo smarrimento negli occhi degli operai di Ottana, quei 250 che poi sono stati accompagnati verso la pensione. Alle manifestazioni c’erano sempre tutti. Oggi bisogna quasi raccogliere la gente. È scemata la sensibilità di classe. Alcuni cassintegrati si accontentano del loro stato, non capiscono che la difesa del lavoro è una lotta per la dignità personale e per il futuro del territorio, dunque dei propri figli. È un segno dei tempi? Può darsi, sicuramente è un ritorno al passato». Nelle scorse settimane don Borrotzu si è impegnato molto per la crisi industriale dell’isola. «Ho fatto una sorta di via Crucis da Portovesme a Porto Torres, sino a Ottana». Ne è scaturito un documento durissimo, che parla di “deserto Sardegna”, e chiede che le forze politiche si facciano carico di una vertenza unitaria e di un progetto di sviluppo per l’isola.Ma ne valeva la pena, don Pietro, di percorrere la strada dell’industrializzazione della Sardegna centrale visti gli esiti? «Sì. Bene o male questa realtà economica ha quarant’anni di vita, ha portato una relativa ricchezza in un territorio dove il termine busta paga non esisteva, ha permesso di far studiare tanti giovani grazie al lavoro dei genitori. Il rischio è l’assuefazione alla cassa integrazione, agli ammortizzatori sociali. La dignità dell’uomo è soprattutto nel lavoro».

 

 

LA NUOVA SARDEGNA – Don Borrotzu e la via Crucis del lavoro, 23.10.2012

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