Vogliono cancellare anche l’autonomia speciale della Sardegna? di Mario Medde

QUESTIONE SARDA E QUESTIONE ITALIANA. Il comunicato del segretario della Cisl sarda -  la Repubblica 06-10-2012 Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale, di FRANCESCO MERLO - Il CORRIERE DELLA SERA, 07/10/2012, Due italiani su tre non credono più alle Regioni , di Renato Mannheimer.

 

 

7 ottobre 2012

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COMUNICATO STAMPA

La lotta ai costi abnormi della politica e ai sempre più diffusi casi di malaffare e illegalità non può avere come conseguenza la riduzione  o addirittura la cancellazione dell’esperienza storica dell’autonomia e della specialità. Per questo la Cisl sarda chiede alla politica e alle istituzioni, in primo luogo alla Regione e ai parlamentari isolani di contrastare i tentativi di ridurre i diritti dei cittadini sardi, la stessa autonomia speciale e la giusta aspirazione  a un migliore autogoverno.

Nell’emergenza produttiva e finanziaria si stanno costruendo le premesse per destrutturare sul piano sostanziale, senza neppure alcuna formale revisione costituzionale, il riconoscimento storico della Sardegna al recupero del divario economico e sociale con il resto del paese e gli stessi poteri e risorse finanziarie in capo alla Regione.

Sono ancora molti i diritti negati ai sardi sui quali si attende, per ora invano, una risposta positiva da parte del Governo nazionale.

L’autonomia finanziaria viene, infatti, limitata  e ridotta dai vincoli del patto di stabilità, mentre risulta ancora non completamente attuato il diritto alla mobilità delle persone e delle merci, a dignitosi trasporti interni, e il riconoscimento del principio di insularità.

Ma quel che è più grave riguarda l’attacco mascherato al regionalismo e alla specialità portato dal Governo e da una vera e propria campagna d’opinione. Il pericolo vero è che la Sardegna regredisca verso una nuova dipendenza, di cui si avvertono segnali fortissimi sul versante economico e sociale. Tutto questo contro le aspirazioni dei lavoratori e pensionati a vedersi garantire i diritti negati e le pari opportunità rispetto alle altre aree del Paese.

Mentre si rivendica un nuovo statuto speciale per la Sardegna, qualora i sardi non si mobilitino, potrebbe essere messa in discussione la stessa rinegoziazione del patto costituzionale Stato-Regione.

Il problema del debito pubblico e dello sperpero delle risorse finanziarie non riguarda le istituzioni in quanto tali – nonostante la necessità di una loro adeguata riforma – ma la crisi della rappresentanza politica e della stessa forma di stato che oggi, approfittando dell’emergenza e dei guasti della politica, tenta un’operazione di neocentralismo.

La Sardegna ha tutto da perdere da una riconsiderazione del regionalismo e della specialità. I servizi più importanti verso i cittadini vengono, infatti, oggi gestiti dalle regioni e dalle autonomie locali. Non è possibile, dunque, riconsiderare il principio della sussidiarietà solo perché la crisi della rappresentanza politica  e i vuoti e i ritardi delle riforme istituzionali, insieme con le enormi carenze nelle politiche territoriali e di settore, hanno portato, anche e soprattutto con la speculazione finanziaria internazionale, a entità considerevole  il debito sovrano e all’esplosione di quello pubblico.

Per questi motivi non è sufficiente in Sardegna attestarsi sulle sole emergenze, ma considerare gli attacchi alla specialità e ai diritti dei sardi come  problemi prioritari  ai quali bisogna rispondere con una mobilitazione e con le necessarie iniziative di lotta.

 

Il segretario generale

Mario Medde

 

 

la Repubblica 06-10-2012, Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale

FRANCESCO MERLO -

 

ANCHE la casta a Paler­mo diventa pittoresca e tragica, la “casta con le

sarde”, supercasta speciale come lo Statuto che andrebbe finalmente cancellato – se non ora quando? – da un go­verno che fosse davvero anti­sprechi. Èinfattilo Statuto, so­lo lo Statuto, che ha trasforma­to il deputato regionale in un grassatore, in un mediatore, in un Batman con i mustazzì un­ti di “stìgghìola”. Esistono Re­gioni d’Italia in cui lo Statuto speciale è virtuoso o magari soltanto utile e storicamente giustificato, ma sicuramente in Sicilia l’autonomia deve es­sere abolita per bancarotta economica, politica e morale.

BISOGNA cancellarla dalla Costituzione, come atto d’amore verso una terra

meravigliosa, e liberare i siciliani daun baronaggio feudale che dìs­sipail più grande tesoro del Medi­terraneo e non parlo solo del buco di 5,3 miliardi e delle spese che nel 2012 supereranno i 27 miliardi.

L’Autonomia ha prodotto un ceto parassitario senza uguali in Europa che non gestisce risorse locali, se non in minima parte, e che lucra per se stesso più dei la­ziali. il deputato guadagna tra i 15 ei 20 mila euro netti al mese tra sti­pendio, diaria, spese per lo svolgi­mento del mandato e indennità di soggiorno. Il rimborso ai gruppi raggiunge il. record di 12 milioni l’anno. E una “specialità costitu­zionale” quella del più ricco Par­lamento regionale d’Italia, che costa 170 milioni di euro, due vol­te più del Lazio e cinque volte più della Lombardia. Lo Statuto spe­ciale trasforma in Iiquame ìnfrut­tuoso questo enorme fiume di da­naro statale ed europeo, non Nilo che nutre con il suo Iimes ma fo­gna a cielo aperto che sporca an­che le buone intenzioni e che pe­riodicamente costringe l’Europa a intervenire: meno di un mese fa sono stati bloccati « perché spre­chi» finanziamenti per90 milioni, e 150 milioni sono stai chiesti in­dietro « per vizio e irregolarità», e già nel luglio scorso l’Europa ave­va bloccato altri 600 milioni. Eb­bene, dal2007 al20131′Europa ha destinato alla Sicilia un totale di sei miliardi e mezzo di euro che la Regione non riesce a spendere, se non in minima parte.

L’Autonomia, con i suoi super­poteri di controllo capillare del territorio, ha modificato, come dicevamo, anche l’antropologia della casta, che qui non è solo pre­potenza e satrapia, è anche mafia, anch’essa speciale, con un ecces­so da ultima provincia che ha reso per esempio i presidenti umana­mente impresentabili, polìtìcamente imbarazzanti, tutti penal­mente compromessi, e bisogne­rebbe metterli in fila: Drago, Pro­venzano, Cuffaro, Lombardo, una folla di baffi da cartolina, tut­to un frantumarsi di cannoli, re­spiri da aliti guasti, panze e nevro­si e una plebe di questuanti biso­gnosi, precari, clienti, con uno staff, quello di Lombardo, com­posto da 1.400 fidatissimi gian­nizzeri, e per tutti ci sono ìnden­nìtà, contributi, diarie, perché il deputato siciliano decide in tota­le autarchia i! costo della propria politica ed è soltanto tenuto a di­chiarare di averli spesi bene.

il presidente Lombardo gua­dagna di solo stipendio netto 15mila euro. Aggiungendo in­dennità e diarie, Lombardo supe­ra di gran lunga Obama. E non si può dire che le first lady seguano modelli di eleganza, non importa se Michelle o la signora Romney. E basti pensare che lady Lombar­do, grazie alla Santa Autonomia ha persino cercato di sanare co una legge ad personam una casa abusiva nella riserva naturale d’ Ispica, nientemeno.

 

E si capisce che il deputato ap pena eletto si senta il re di Palerm come Toni Servillo che nel film d Ciprì si compra la Mercedes e se ne va in giro-«mi sento il re di Palermo» -mentre gli turbinano  attorno gli ottanta cavalli dell Regione accuditi da 40 palafrenieri (due milioni di euro) e ì can­noli, i carretti, Monte Pellegrino, santa Rosalia, l’opera dei pupi e tutta la cianfrusaglia della sicilia­nità e della sicialitudine, della spe­cialità appunto che è anche ma­lessere psicologico e blabla lette­rario, alibi intellettuale del falli­mento dell’ Autonomia che è, no­nostante gli sforzi dell’assessore Massimo Russo, la sanità peggio­re d’Europa, nove miliardi (pro­prio miliardi) di euro l’anno, 50mila dipendenti, e poi le strade più scassate e più sporched’Italia, le scuole degradate, i trasporti in­terurbani radi e inefficienti, i por­ti interrati e caotici, le aree ìndu­striali abbandonate, le cosiddette Asi), le città coperte di rifiuti, lo scandalo dell’ aeroporto di Comi­so, pronto e fermo, dove il sinda­co gioca al pallone e si sfoga a cor­rere con le sue auto di lusso, il nau­fragio del sogno industriale di Termini Imerese, la mancanza di un piano energetico, l’attesa vana di un collegamento autostradale Nord-Sud, la catastrofe dell’agri­coltura, lo scempio ambientale di Milazzo, il nanismo turistico …

Tl 60 per cento dei beni cultura­li italiani si trova in Sicilia. Ad ogni passo ci sono si ti archeologici, ne­cropoli, cave, anfiteatri, templì, rovine islamiche e resti fenici, re­perti dell’età del bronzo, testimo­nianze di sicani, saracenì, nor­manni, borboni e persino enclave dell’impero britannico. Ebbene .solo l’Unesco riesce ogni tanto a I mitigare gIi orrorie gli scempi cul­turali della Regione che mantiene per esempio L750custodi (11 per sito contro i4 della Toscana) ma abbandona, degrada e nel pome­riggio chiude i musei e i sìtì, com­presa Selinunte che è il più gran­de parco archeologico del mon­do.

Davvero non c’è nessuna ra­gione per tenere in vita questa sterminata ‘casta con le sarde’ che inchioda la società siciliana ad un’ arretratezza senza speran­za Anche la campagna elettorale, 11 candidati, 12 milioni di euro, somiglia a una lotta di capitribù e di stregoni che solo lo statuto re­gionale rende potenti, mediatori tra lo Stato e la popolazione come i baroni feudali, come i viceré, Scriveva Sciascia: «Ncapu a lu re c’èlu vìceré.Al disopra delrec’èil viceré, di fatto più potente. E re­gredendo di vice in vice ( … ), uscieri, autisti e camerieri stanno al di sopra di ogni burocratico o politico monarca ». Ecco perché ogni dipendente è inseguito da una plebe affamata difavori. Ei dì­pendenti sono 29 mi1a, più di quanti ne ha la Casa Bianca, paga­ti come i funzionari del Senato grazie ad una delibera, una delle prime, che risale infarti al novem­bre de 1946,·tanto per andare alle radici di questa altisonante Auto­nomia che debutta nel 194 7 e an­che storicamente nasce male, in difesa dei privilegi degli agrari e dei vìceré minacciati dal “vento del nord”, come lo chiamava Pie­tro Nenni. E si riferiva ai partigia­ni, alla Resistenza, al social cornu­nismo. Del resto solo strumentalmente la sinistra divenneautono­mista, per dare un orizzonte pro­gressistaall’ eversione del separa­tismo e del banditismo, all’ esercito di Antonio Canepa e alle lupare di Salvatore Giuliano, alimentate da pezzi del vecchio stato fascista e monarchico che non accettavano i! 25 luglio, 1’6 settembre e il 25 aprile.

Ecco perché l’Autonomia, che nacque dagli egoismi di classe senza progetto.naturaliterfìnisce oggi nelle clientele rivendicazio­niste di Raffaele Lombardo ­«Ulìsse fu il primo colonialista del Nord e Polifemo la prima vittima, il primo eroe siciliano! » – e dun­que nelle sue consulenze, che so­no ben 700, per otto milioni e mezzo di euro, e ci sono, tra loro, persino velisti e pianisti. Lombar­do ha nominato un carcerato, Eu­genio Trafficante, presidente del collegio dei sindaci di Sicilia Ser­vizi. E al cinema Odeon di Catania ha presentato la candidatura del figlio Totì che gli ha detto: .• Papà, porterò avanti il tuo sogno». E c’ e­rano la mamma, nonna Saveria e in prima fila direttori sanitari, di­rigenti regionali, lo zio Angelo, tanti medici, Gianfranco Mìcci­ché; .• 1 giornalisti mi chiedono se sono il trota o un tonno », Papà: «Un pesce-cane », E lui: « lo non sono un pesce». Così a Catania Toti Lombardo è subito diven tato  “porcu cani”, il porco cane.

Perfettamente il pittoresco e il grottesco si addicono all’Autono­mia che davvero è un delitto, lo strumento attraverso cui i sicilia­ni vengono asserviti. Ed è scanda­loso che il governo Monti abbia ancora una volta pasticciato co­me tutti i governi di sempre e ab­bia finanziato con un miliardo di euro, in deroga al patto di stabi­lità, i soliti industriali del fìcodìn­dia, i vice-vicerè e i forestali che in Sicilia sono tanti quanti gli incen­di che alimentano. Eppure ci vuoi poco a capire che la vera autono­mia della Sicilia sarà la liberazio­ne dagli autonomisti.

 

Il CORRIERE DELLA SERA, 07/10/2012

L’Osservatorio

Due italiani su tre non credono più alle Regioni

Dopo i partiti, le istituzioni. In crisi perfino
il rapporto con i Comuni

L’Osservatorio

Due italiani su tre non credono più alle Regioni

Dopo i partiti, le istituzioni. In crisi perfino
il rapporto con i Comuni

Le Regioni sono nell’occhio del ciclone. Il susseguirsi di scandali e di sprechi incomprensibili in questa o in quella Regione ha profondamente turbato i cittadini. E comportato un sensibile incremento del trend di diminuzione di fiducia nelle istituzioni. Oggi, la quota di italiani che riesce a giudicare positivamente i partiti politici è ridotta al 4 per cento: meno di quanti, in qualche modo, operano attivamente all’interno dei partiti stessi. Molti degli stessi militanti disistimano le forze politiche in cui operano.

Ma, come si è detto, la disaffezione ha finito con il toccare anche le istituzioni. La maggioranza (53 per cento) degli elettori manifesta sfiducia persino nei confronti del Comune in cui vive, l’istituzione locale un tempo più amata. Ancora minore è il consenso espresso per le Province (38 per cento). E, com’è comprensibile alla luce degli ultimi avvenimenti, risulta ulteriormente inferiore quello dichiarato per le Regioni: due italiani su tre (64 per cento) affermano di non apprezzare più queste ultime. Il distacco è ancora più accentuato tra i giovanissimi (71 per cento di sfiducia) e tra i residenti nelle Regioni meridionali (70 per cento di sfiducia), a conferma del tradizionale minore attaccamento alle istituzioni rilevabile in queste aree.

Nell’insieme, dunque, gli italiani non si fidano più delle istituzioni locali e delle Regioni in particolare: un sentimento che mina progressivamente il consenso sociale verso gli organismi rappresentativi.

Ciò porta alcuni a proporre di abolire le Regioni oltre alle Province. Sull’eliminazione di queste ultime, si sa, vi è un largo consenso e auspicio tra gli elettori. Quasi due italiani su tre (63 per cento) ne auspicano l’eliminazione, anche se una quota consistente (38 per cento) propone di limitare questo provvedimento solo ai contesti di minore dimensione (ma, come è noto, il consenso per l’abolizione delle Province si attenua fortemente nel momento in cui viene presa in considerazione la Provincia in cui si risiede).

Tuttavia, dopo l’estendersi degli scandali che hanno riguardato le Regioni, molti (44 per cento), come si è detto, propongono di abolire anche queste ultime. Si tratta, beninteso, di un’idea che è difficile prendere in considerazione: anche se per la maggior parte degli osservatori i poteri attribuiti oggi alle Regioni (anche per effetto della riforma del titolo V) sono eccessivi e vanno forse ridotti, una loro completa abolizione appare quantomeno problematica. Resta il fatto che, sull’onda degli avvenimenti delle ultime settimane, tanti vogliano liberarsene buttando anche ciò che c’è di buono.

Questo atteggiamento è relativamente più frequente tra chi è più lontano dalla politica: se ne occupa poco o per nulla ed è tentato dall’astensione. Tra chi esprime questa posizione, la maggior parte (28 per cento) ritiene però che il provvedimento dovrebbe riguardare in particolare le Regioni più piccole, considerando il fatto che è difficile pensare di applicare la stessa normativa ad entità territoriali di dimensione così diversa tra loro.

Gli avvenimenti delle ultime settimane non hanno però prodotto solo disaffezione e sfiducia crescente verso le istituzioni locali: non pochi cittadini si sono risolti, alla luce di quanto è successo, a cambiare la loro opzione di voto o a prendere in considerazione l’astensione. In particolare, ben il 14 per cento afferma di avere mutato, a seguito degli scandali, la propria scelta elettorale. E una percentuale altrettanto ampia – ancora una volta, più accentuata tra quanti manifestano un minore interesse per la politica – dichiara di voler passare alla diserzione dalle urne.

Se si tiene conto che un altro 27 per cento di cittadini afferma di «avere comunque deciso di non andare a votare già da prima», si giunge complessivamente a più del 40 per cento di italiani che prende seriamente in considerazione la possibilità di non presentarsi alle urne alle prossime elezioni.
È ragionevole pensare che, alla fine, buona parte di costoro si recherà comunque a votare. Ma la diffusione dell’intenzione dichiarata ad astenersi costituisce di per sé un altro segnale dell’estendersi della disaffezione verso la politica e le stesse istituzioni: un fenomeno di cui non si può non tenere conto, pena il dissolversi dei fondamenti su cui si regge il consenso sociale.

Renato Mannheimer7 ottobre 2012 | 16:07

 

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