L’imprenditore sardo che finanziò la Giovane Italia di Mazzini e la spedizione dei Mille di Garibaldi, di Paolo Fadda
Giovanni Antonio Sanna (Sassari, 29 agosto 1819 – Roma, 9 febbraio 1875) è stato un imprenditore e politico.
QUESTIONE SARDA E QUESTIONE ITALIANA
Questa sintesi biografica è tratta dalla conferenza di Paolo Fadda (Giovanni Antonio Sanna, l’uomo di Montevecchio, e la nascita dell’imprenditoria industriale sarda) tenuta in occasione di Sa die de sa Sardigna organizzata dalla FASI di Padova il 18 giugno 2011 e riportato nel volume che pubblica gli atti del convegno - La Storia del Popolo Sardo tra Politica ed Economia, a cura di Costanzo Pazzona, CLEUP, Padova, luglio 2012) . La figura del protagonista viene compiutamente delineata nel volume di P. Fadda, L´Uomo di Montevecchio, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2010.
L’imprenditore sardo che finanziò il risorgimento italiano.
…………………………
Due date, comunque, avrebbero ancor più caratterizzato quel 1848.
La prima – 23 marzo 1848 – è quella che segna l’inizio della prima guerra d’indipendenza, voluta dal re .Carlo Alberto per avviare la costruzione della nazione italiana; la seconda – 23 aprile 1848 – riguarda la nascita della prima società industriale di capitali in Sardegna, con la concessione al sassarese Giovanni Antonio Sanna dei diritti di sfruttamento dei giacimenti minerari piombo argentiferi di Montevecchio. Due avvenimenti di assai differenti valenza e natura, ma che, insieme, possono trovare un denominatore comune: che è quello di avere dato inizio al risorgimento politico ed economico del Regno sabaudo.
Ma chi era mai quel Sanna che era riuscito a convincere il re a concedergli, gratuitamente ed in perpetuo, quei 1200 ettari fra Guspiili ed Arbus perché vi avviasse un’industria estrattiva di livello europeo? Prima di dare sue notizie, va detto che la motivazione risiedeva nel fatto che il richiedente era riuscito a convincere il sovrano che senza la creazione di industrie moderne e senza la disponibilità di materie prime strategiche (come il piombo), quel suo regno, unificato con tutta la penisola e le sue isole maggiori nel nome d Italia, non avrebbe potuto avere né compimento né futuro.
Quel giovane Sanna (in quel ’48 non aveva ancora trent’anni) era un sardo emigrato da esule a Marsiglia, dove s’era invaghito dei fermenti industrializzanti. in atto in tutta la Provenza, anche in relazione alle importanti ricchezze piombifere dell’ Algeria, divenuta in quegli anni colonia francese. Aveva potuto toccare con mano le ricchezze accumulate in pochi anni da un suo conoscente, divenuto un esperto brasseur d’affaires nel settore minerario algerino, per via dei continui rialzi nelle quotazioni del piombo sorretto da una domanda sempre più forte nei mercati. S’era così convinto che la ricchezza delle nazioni si dovesse formare ormai nella disponibilità di materie prime e nell’attivazione di industrie manifatturiere. E non come molti continuavano a pensare, dal numero dei reggimenti e dalla potenza di fuoco dei cannoni.
Proprio in quel suo esilio marsigliese, girovagando fra i bistrot dell’angiporto, era riuscito ad entrare in contatto con uno strano prete gallurese, Giovanni Antonio Pischedda, che andava alla ricerca di “capitali” per poter avviare lo sfruttamento di un importante giacimento piombifero nel guspinese di cui asseriva di avere ottenuto la concessione.
Sarà proprio quella triangolazione “Sardegna-piombo-ricchezza” a mettere in moto, nel suo agire, l’audacia del pioniere ed anche la spregiudicatezza dell’affarista. Così, attraverso avventurosi percorsi e non pochi ostacoli, riuscirà a divenire il deus ex machina di quell’impresa. Di cui, fin da principio grazie alle esperienze marsigliesi, individuerà il format: perché l’industria mineraria era cosa ben diversa dalle cave dei fenici, pisani e aragonesi. Non era più sufficiente scavare fosse come talpe o castori per tirar fuori qualche quintale d’argento: era necessario ora ingegnerizzare le lavorazioni, istruire migliaia di addetti per scavare lunghe gallerie e facili camminamenti, realizzare discenderie e pozzi, armare i cunicoli onde prevenire i crolli. Il tutto finalizzato alla produzione di migliaia e migliaia di tonnellate di minerale da cui ricavare in fonderia il prezioso piombo metallo.
Così quando incontrerà a Peschiera re Carlo Alberto aveva con sé un piano di sfruttamento industriale redatto da due valenti ingegneri francesi e, soprattutto, la disponibilità di una società di gestione (costituita come “accomandita per azioni”), titolare di un capitale vicino al milione di lire sottoscritto dall’establishment economico di Genova, capeggiato dal banchiere Bartolomeo Migone e dal marchese Nicolò Cambiaso. Sarà questo l’antefatto che farà di Giovanni Antonio Sanna “l’uomo di Montevecchio”.
In Sardegna, d’altra parte, non si era mai vista operare una società per azioni con un così cospicuo capitale, e che s’era posta l’obiettivo di raggiungere profitti “milionari”. Saranno quindi in molti a farsi avanti, a vantare meriti e diritti, a rivendicare presunte promesse ricevute da prete Pischedda. E al nostro Sanna non sarà facile toglierseli d’attorno, tanto da dover interessare, in più casi, anche i tribunali. Anche con Migone la trattativa non risulterà facile, ma alla fine riuscirà a farsi retrocedere gratuitamente, come portatore dell’ affare, una parte delle azioni emesse, pari ad un valore nominale di 200 mila lire (oltre a farsi rimborsare quanto finora s’era speso in lavori). Ma nelle sue mani aveva la proprietà perpetua del sotto suolo e del sopra suolo dell’intero territorio di Montevecchia. Oltre all’incarico, per una domanda sempre più forte nei mercati. S’era così convinto che la ricchezza delle nazioni si dovesse formare ormai nella disponibilità di materie prime e nell’attivazione di industrie manifatturiere. E non come molti continuavano a pensare, dal numero dei reggimenti e dalla potenza di fuoco dei cannoni,
Proprio in quel suo esilio marsigliese, girovagando fra i bistrot dell’angiporto, era riuscito ad entrare in contatto con uno strano prete gallurese, Giovanni Antonio Pischedda, che andava alla ricerca di “capitali” per poter avviare lo sfruttamento di un importante giacimento piombifero nel guspinese di cui asseriva di avere ottenuto la concessione.
Sarà proprio quella triangolazione “Sardegna-piombo-ricchezza” a mettere in moto, nel suo agire, l’audacia del pioniere ed anche la spregiudicatezza dell’affarista. Così, attraverso avventurosi percorsi e non pochi ostacoli, riuscirà a divenire il deus ex machina di quell’impresa. Di cui, fin da principio grazie alle esperienze marsigliesi, individuerà il format: perché l’industria mineraria era cosa ben diversa dalle cave dei fenici, pisani e aragonesi. Non era più sufficiente scavare fosse come talpe o castori per tirar fuori qualche quintale d’argento: era necessario ora ingegnerizzare le lavorazioni, istruire migliaia di addetti per scavare lunghe gallerie e facili camminamenti, realizzare discenderie e pozzi, armare i cunicoli onde prevenire i crolli. Il tutto finalizzato alla produzione di migliaia e migliaia di tonnellate di minerale da cui ricavare in fonderia il prezioso piombo metallo.
Così quando incontrerà a Peschiera re Carlo Alberto aveva con sé un piano di sfruttamento industriale redatto da due valenti ingegneri francesi e, soprattutto, la disponibilità di una società di gestione (costituita come “accomandita per azioni”), titolare di un capitale vicino al milione di lire sottoscritto dall’establishment economico di Genova, capeggiato dal banchiere Bartolomeo Migone e dal marchese Nicolò Cambiaso. Sarà questo l’antefatto che farà di Giovanni Antonio Sanna “l’uomo di Montevecchio”.
In Sardegna, d’altra parte, non si era mai vista operare una società per azioni con un così cospicuo capitale, e che s’era posta l’obiettivo di raggiungere profitti “milionari”. Saranno quindi in molti a farsi avanti, a vantare meriti e diritti, a rivendicare presunte promesse ricevute da prete Pischedda. E al nostro Sanna non sarà facile toglierseli d’attorno, tanto da dover interessare, in più casi, anche i tribunali. Anche con Migone la trattativa non risulterà facile, ma alla fine riuscirà a farsi retrocedere gratuitamente, come portatore dell’ affare, una parte delle azioni emesse, pari ad un valore nominale di 200 mila lire (oltre a farsi rimborsare quanto finora s’era speso in lavori). Ma nelle sue mani aveva la proprietà perpetua del sottosuolo e del soprasuolo dell’intero territorio di Montevecchio. Oltre all’incarico, per diritto, d’essere a vita l’Ispettore Generale della miniera. Di fatto risulterà essere l’unico vero “uomo forte” nella conduzione industriale della miniera e nel controllo gestionale della società.
Sarà proprio lui, infatti, a scegliere il primo direttore tecnico della miniera. Lo individuerà a Torino, fra gli esuli dell’impero austroungarico: sarà l’amico Giorgio Asproni a metterlo in contatto con l’ingegnere Giulio Keller, particolarmente versato nei lavori minerari, e con un esperto capo minatore, il sassone Emanuele Fercher, ai quali affiderà la piena responsabilità tecnica dei lavori d’estrazione. Saranno proprio loro a reclutare i primi cento minatori di Montevecchio, portando con sé dei tedeschi, degli ungheresi e, ancora, dei francesi e dei bergamaschi, in modo da poter avviare le prime produzioni. Nel 1849 – primo esercizio – da Montevecchio sarebbero partiti per le fonderie provenzali circa 2 mila quintali di galena mercantile, assai ricca in piombo e argento, mentre i poco più di 50 metri di gallerie tracciate dagli “antichi” sarebbero divenuti quasi 2 mila. Già quattro anni dopo le produzioni si sarebbero moltiplicate per venti volte, ed il primo utile industriale avrebbe sfiorato il 20 per cento.
Montevecchio, con il suo complesso minerario di livello europeo, era divenuto la più importante realtà industriale del regno sabaudo ed il suo patron, Giovanni Antonio Sanna, aveva compiuto vittoriosamente la prima tappa della sua straordinaria emancipazione sociale. Partito da Marsiglia dove aveva vissuto da esule fra grosse difficoltà economiche, aveva raggiunto, in poco più di otto anni, una consistente solidità economica tanto da essere ritenuto, in Sardegna come a Genova e a Torino, un “ricco benestante”.
D’altra parte, la storia di Giovanni Antonio Sanna non si discosterà molto da quella dei tanti self-made-men dell’Ottocento italiano: non diversamente da quella di Francesco Cirio che da giovane garzone di bottega a Torino sarebbe divenuto, a partire dal 1856, il primo grande industriale conserviero del Paese; o da quell’altra dell’alessandrino Giuseppe Borsalino, che partito da apprendista cappellaio a Parigi, sarebbe ritornato nel suo Piemonte per divenire nel 1858 proprietario del più importante cappellificio nazionale.
Ma il nostro Sanna dimostrerà d’avere, nei confronti di Cirio e di Borsalino, una marcia in più. E quella marcia sarà rappresentata dall’impegno politico. A 38 anni, nel 1857, otterrà l’elezione al Parlamento subalpino per il collegio di Isili, divenendo in breve tempo sodale di quel gruppo di mazziniani e di progressisti che avevano in Giorgio Asproni il loro leader parlamentare. Se la miniera era dunque il suo pane, la politica parlamentare diventerà in breve il suo companatico: oltre che facoltoso capitalist-man appariva ormai, nella Torino sabauda, come un ascoltato e autorevole parlamentare. Grazie alla sua collocazione fra i repubblicani diventerà amico di Carlo Cattaneo, di Riccardo Sineo, di Agostino Depretis (ed è in continuo contatto epistolare con i due grandi “Giuseppe” della nostra storia patria: Garibaldi e Mazzini).
D’altra parte i cinque anni che l’avevano visto impegnato per risolvere l’intricato nodo della concessione mineraria, ne avevano accresciuto le conoscenze “politico-ministeriali”, oltre ad avergli permesso di toccare con mano con quante soperchierie e dimenticanze venisse trattata l’isola dai governanti sabaudi. Lo si troverà quindi al fianco di Asproni e di Ferracciu nella polemica anticavouriana in ordine agli ostentati e ripetuti favori che il Conte Camillo Benso, ormai potente capo del governo, andava riservando, non soltanto ai francesi per avere un appoggio antiasburgico, ma soprattutto al cosiddetto trust dei genovesi, a cui era prodigo di concessioni interessanti l’isola (dalle linee marittime alle saline, dai boschi alle miniere), emarginando ed escludendo i sardi da ogni iniziativa.
Sebbene la sua fede repubblicana non gli avesse impedito di frequentare gli ambienti di corte tanto da essere ben accolto anche dal nuovo re Vittorio Emanuele, il suo nemico number one sarebbe rimasto sempre quel Conte di Cavour a cui addebiterà ogni sopruso compiuto contro la “sua Sardegna”. Anche in questo suo ruolo “politico” andrà colta la sua straordinaria personalità. Se nelle conduzioni industriali si sarebbe confrontato e contrapposto alle potenti multinazionali minero-metallurgiche del tempo Vieille MontagneJJ,Rio Tinto & Zinc ltd, Pennaroja e Henfrey & Etchats Company - ed a potenti finanzieri europei del calibro (e della fama) di Edmond de Rothschild, di Carl J achim Hambro e di Dominique Mosselman, tutti impegnati nella Sardegna mineraria, in politica avrebbe tessuto con perizia una fitta rete di amicizie con i più autorevoli ed ascoltati governanti e parlamentari di quegli anni preunitari: Angelo Brofferio, Massimo d’Azeglio, Agostino Bertani, Marco Minghetti, Francesco Crispi, Giorgio Pallavicino, Carlo Poerio e Giuseppe La Farina (dirà proprio quest’ultimo, transfuga dal gruppo repubblicano verso la spiaggia cavourriana, che gli stessi Garibaldi e Mazzini erano sovvenzionati “da quel ricco sardo intrigante ed invadente”).
Che fosse invadente, ed anche temuto, non vi sarebbe dubbio alcuno, dato che nella Torino sabauda era divenuto potente ed ascoltato, per essere divenuto l’editore e l’ispiratore del giornale “Il Diritto”, l’autorevole foglio radicale ed antigovernativo, dove venivano ospitati scritti, fortemente anticavourriani, a firma di Cattaneo, di Asproni, di Sineo e dello stesso Sanna (questi lo aveva rilevato, con la tipografia, per millecinquecento lire nel 1860).
Quella forte avversità politica con il Conte starà proprio nella declinazione delle azioni risorgimentali: se per la destra cavouriana l’unità nazionale doveva essere compiuta attraverso un’intensa attività diplomatica e attorno a Casa Savoia (dirà che più che fare l’Italia unita avrebbe voluto far grande il suo Piemonte), l’ala progressista, nella quale si riconosceva Sanna, pensava sì ad una nuova nazione federale ed indipendente, ma prioritariamente ad una decisa depiemontizzazione del nuovo Stato. Che si sarebbe dovuta compiere attorno e sotto la guida di Garibaldi.
Per questo, l’idea del grande nizzardo di andare alla conquista del Regno delle Due Sicilie, profittando dei primi moti antiborbonici, sarà vista da Sanna e dai suoi amici come la grande occasione per rovesciare quello che avrebbe chiamato l’ancien régime piemontese. Ci saranno, quindi, oltre al suo deciso appoggio politico, non poche risorse della sua miniera per sostenere la spedizione delle “camicie rosse” dirette a Marsala. Non vi è dubbio quindi che quell’uomo di Montevecchio sarebbe divenuto, a pieno titolo e con riconosciuto merito, anche un “uomo del Risorgimento”. Perché fu certamente un grande industriale, ma anche un importante finanziere e, soprattutto, un patriota coraggioso ed illuminato. Pronto a mettere a disposizione della causa italiana non solo le sue capacità intellettive ma anche e soprattutto le sue disponibilità di ricco capitalista.
Va ricordato quindi come un protagonista delle lotte e delle battaglie risorgimentali, non solo per l’effettivo “peso politico” esercitato, ma soprattutto per il costante sostegno dato a quei movimenti – dalla “Giovine Italia” alle milizie garibaldine – che lottarono e combatterono per l’unificazione nazionale.
Anche per queste sue disponibilità e queste sue collaborazioni, per quel suo schierarsi coraggiosamente sul fronte dell’ opposizione anticavouriana, la sua sarà una vita avventurosa, vissuta sempre sul filo delle difficoltà e delle incertezze. Sempre – come si direbbe – border line fra i pericoli di una possibile sconfitta e le volontà di conquista di una ricercata vittoria.
Anche in questo c’è, forse, in quest’uomo molta “aria marsigliese”, quella respirata nei cinque, sei anni trascorsi nella grande città provenzale, allorquando questa era nel pieno della sua espansione industriale. Ed anche quanta parte dell’ euforia risorgimentale e delle aspirazioni patriottiche del “nuovo tempo” avesse ricavato dalle libertà politiche respirate in terra francese.
Si è dell’ opinione che in questi due aspetti si possa trovare il filo rosso che va a collegare queste vicende ambedue vittoriose: quella imprenditoriale di Montevecchio e quella risorgimentale per l’unificazione italiana. Si tratta di un collegamento che attraverserà un tempo cruciale non solo per la storia del nostro Paese ma di tutta Europa, e non solo.
Si era infatti negli anni delle grandi invenzioni, in cui la tecnica e l’industria erano divenute i motori del progresso e dello sviluppo, e in cui matureranno nuove e rivoluzionarie forme di partecipazione liberale e popolare nella vita degli stati. L’invenzione dell’energia a vapore, della dinamite, del telegrafo, dei trasporti più sicuri e rapidi con imbarcazioni e treni mossi dal vapore, stavano modificando radicalmente gli standard del lavoro e della vita. In meno di 30 anni il mondo era divenuto diverso, e le grandi esposizioni universali di Londra e di Parigi avrebbero testimoniato un progresso mai avvenuto nei secoli precedenti. Anche l’industria mineraria di Montevecchio era divenuta la “vetrina” di questo nuovo mondo, perché era il vapore a far muovere argani e macchine, era la dinamite a rendere meno dura la fatica del minatore, era sempre il vapore a muovere le imbarcazioni che portavano il prodotto “mercantile” alle grandi fonderie europee.
Negli stessi anni, e con altrettanto incalzare di cambiamenti, s’andava compiendo il processo risorgimentale dell’Italia, tanto da farle divenire la “grande novità” nella geografia politica dell’Europa della seconda metà Ottocento! Così Giovanni Antonio Sanna sarebbe stato ben dentro, da attore, in queste due vicende.
Nel seguire la sua storia ci si trova quindi di fronte ad un uomo straordinario nell’ accezione più ampia che si può dare a quest’ aggettivo (perché fu straordinario in tutto, nelle sue grandi iniziative imprenditoriali e nelle sue attività politico-parlamentari come nelle sue sanguigne inimicizie e nella raffinata “volpinità” con cui trattava gli affari). Le pagine dei ricordi (come quelle del diario di Giorgio Asproni, che gli fu grande amico e che gli volle un gran bene) lo presentano come un uomo dai comportamenti spesso prevaricanti ed anche boriosi, temperati però da un carattere brillante ed affabile (era, tra l’altro, un conversatore affascinante). Conquistato dal “selfinterest”, avrebbe fatto del profitto, fosse di denaro od anche di prestigio, la molla del suo quotidiano operare. Anche per questo non fu molto amato, specie in Sardegna, dove la sua grande ricchezza suscitava tanta invidia, spesso condita da malevole insinuazioni. Lo si accusava, malignamente, di voler comperare tutto con il denaro, fossero potere, amori o riconoscenza (la stessa famiglia, attraverso la scelta dei mariti per le sue quattro figlie, volle costruirla con la forza del denaro, ignorando che è molto spesso nient’ altro che sterco del diavolo). Era un uomo che, non diversamente dai Buddenbrook raccontati da Thomas Mann, credeva ciecamente nel denaro come puro strumento di dominio, una forza da cui trarre autorità, sicurezza, prestigio e fortuna.
Forse, come nel racconto di Robert L. Stevenson dedicato al caso del doctor Jekyll and mister Hyde, anche in Giovanni Antonio si potrebbero individuare due personalità opposte: perché all’uomo prepotente ed autoritario di cui s’è detto, s’alternerà spesso anche l’uomo delicato e gentile, in un certo senso anche romantico e galante, pieno di tante attenzioni verso familiari ed amici .
C’è dunque anche un terzo versante nella vita di Sanna: ed è quello della famiglia a cui s’è appena fuggevolmente accennato. Da cui gli perverranno più pene e sconforto che gioie e soddisfazioni. Ma che rappresenterà sempre, anche nelle più amare traversie affettive, il cordone ombelicale con la “sua” Sardegna. Perché a Sassari – “la mia madre patria”, amava scrivere – avrebbe mantenuto sempre la sua residenza, i suoi maggiori interessi patrimoniali, la custodia delle sue radici e delle sue ricchezze. Ed alla sua terra madre avrebbe riversato gran parte delle sue esperienze europee, costituendovi una banca (l’Agricola Sarda) per sostenere il risveglio delle produzioni isolane, e avviandovi nella piana d’Olmedo e in Gallura degli importanti esperimenti di rigenerazione agronomica “alla francese”.
Un sardo-italiano, quindi, più che un italiano-sardo, come diceva di lui Bettino Ricasoli, rimproverandogli quel suo continuo richiedere al governo nazionale maggiori attenzioni per l’isola.
C’è quindi, in questa storia di Sanna, quest’altro aspetto importante.
Perché è la storia del primo, grande borghese sardo che avrebbe costruito le sue fortune nella sua “madre terra”, contribuendo così al riscatto sociale dei suoi corregionali. Il “caso Sanna” è ancor più interessante sul piano storico e sociologico, perché aiuta ad individuare i circuiti di formazione di una nuova élite sociale, destinata a diventare antagonista – anche sul piano delle disponibilità economiche e della prevalenza sociale – del ceto aristocratico dell’ancien régime. Ed è un circuito che avverrà, in questo come in altri casi coevi, allorquando sarà proprio l’aria “del continente” a dover risvegliare e ad ossigenare quelle prime iniziative imprenditoriali nella Sardegna della seconda metà Ottocento. Per il nostro Sanna sarà il soggiorno a Marsiglia a motivare la sua emancipazione sociale, trovando soprattutto una perfetta sintonia, nelle modalità e negli obiettivi, con il trend modernizzatore ed innovatore in atto, con la civiltà industriale, nell’Europa continentale.
D’altra parte, Montevecchio non avrebbe mai mancato di fungere da “zecca” per sostenere il suo frenetico dinamismo: nei primi vent’anni di attività (1849-1869) gli utili distribuiti dall’ accomandita erano ammontati a più di 2 milioni di lire, di cui a Sanna, in possesso della maggioranza azionaria, ne sarebbero spettati il 58 per cento (per quegli anni, e non solo, un eccezionale tesorol).
Non si esagera certo nel definirlo come il più importante industriale del Regno d’Italia, a capo di un complesso minerario fra i maggiori d’Europa.
Poteva essere, ed in effetti lo era, un uomo baciato dalla fortuna, ed accompagnato dal successo. Eppure aveva anche lui le sue pene, i suoi dispiaceri, i suoi tormenti. Sarebbe stata proprio la famiglia a complicare la sua esistenza, a dargli preoccupazioni per il futuro, per il futuro delle sue imprese: la miniera in primo luogo, ma anche la banca, 1′azienda agricola e quant’ altro ingrossava, e di parecchio, il suo portafoglio.
A soli cinquant’ anni, purtroppo, sarebbe iniziato il suo declino, originato da tutti quei “triboli” familiari di cui si lamentava con gli amici più cari, come Giorgio Asproni e Riccardo Sineo. Con loro s’era rifugiato a Napoli, ufficialmente per seguire da vicino, politicamente, i problemi d’integrazione del vecchio regno borbonico con lo Stato sabaudo, ma ufficiosamente per stare lontano da quei serpenti familiari (i generi innanzitutto) che gli avevano avvelenato l’esistenza. Ed a Napoli, prostrato da quei dolori, si sarebbe pian piano “rimbecillito” (come ne scriveva l’Asproni), vittima di una depressione fisica e psichica sempre più grave e invalidante.
Si spegnerà a soli 55 anni, nel febbraio del 1875, privato anche del conforto degli amici più cari, per via di una sorta di cordone sanitario che i generi gli avevano stretto d’attorno, preoccupati che ne potessero influenzare in qualche modo le volontà testamentarie (lasciava alle figlie una straordinaria ricchezza fra le più grandi del Paese).
Aveva chiesto d’essere seppellito nella “sua” Sassari, provvedendo anche all’ allestimento della cappella, ma la traslazione della salma dal cimitero romano del Verano, sarebbe avvenuta soltanto 50 anni dopo, nel 1925, per la pietas filiale dell’ultimogenita Zely, quando tutti e quattro i generi avevano lasciato questo mondo.
Né gli fu data gloria o rimpianto, tant’è che di lui, delle sue imprese di successo come uomo di Montevecchio e delle sue attività politiche come uomo del Risorgimento, se n’è sempre saputo poco o niente, anche nell’isola. Avrebbe scritto nel 1947 Dionigi Scano, ricordando i grandi sardi degli anni del Risorgimento, che pochi, o forse pochissimi saprebbero dire qualcosa di Giovanni Antonio Sanna, sia delle sue imprese industriali che, soprattutto, del suo importante ruolo politico nella costruzione dell’unità nazionale (dirà invece Francesco Crispi commemorandolo al suo funerale: con Sanna questa nostra nuova Italia ha perso, non solo uno dei suoi figli migliori, ma una delle colonne portanti della sua nascente industria).
……………………….