La questione italiana. di Paolo Mieli

“Napoli divenne italiana solo per opportunismo,  fu molto scarsa l’ adesione agli ideali patriottici’. Il direttore editoriale de Il Corriere della Sera rivisita aspetti dello Stato unitario nel momento in cui nel suo giornale è in atto una intensa campagna contro/sulle Regioni. E’ importante che i Sardi riflettano sulla questione italiana rispetto alla questione sarda (di cui qui non si parla: noi eravamo con i Piemontesi  …). NB. Solo il titolo dell’articolo è nostro.

Napoli divenne italiana solo per opportunismo

Fu molto scarsa l’ adesione agli ideali patriottici

di Paolo Mieli

Il Corriere della Sera 02-10-2012, pag. 34/35

 

 

 

E’ davvero una stranezza che in Sicilia centinaia di soldati as­sai anomali guidati da un personaggio oltremodo irregolare, quali erano i Mille di Giusep­pe Garibaldi, abbiano sopraffatto il più grande esercito italiano del­l’epoca che solo nell’isola, tra fanteria, cavalle­ria e artiglieria schierava qualcosa come 25 mi­la uomini. E che lo stesso si sia ripetuto sulIa via che li portò a Napoli. «Nessuno più di. me stima Garibaldi», scriveva gia allora MassImo d’Azeglio, «ma quando s’è vinta un’armata  di 60 mila soldati, conquìstando un regno dì sei milioni di abitanti, colla perdita dì otto uomini, si dovrebbe pensare che c’e sotto qualche cosa di non ordinario». Ma come andarono davvero le vicende che portarono al crollo del regno bor­bonico? È la domanda (che ne porta con sè al­tre) a cui cerca di rispondere un saggio dì Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come.! Italt~ ha messo assieme i pezzi, edito dal Mulino. Il libro si apre con una misurata ‘polemica contro il mondo accademico. «Le dinamiche del crollo delle Due Sicilie sono state indagate soltanto in

parte dagli studiosi», scrive l’autore, «per una sorta di remora ideologica, gli storici sembrano talvolta riluttanti ad analizzare quelle vicende, quasi che bastasse e fosse da considerarsi intoccabile la pura e semplice damnatio memoriae del regime borbonico». L’idea – dominante nell’Europa dell’S00 – di una sorta «dì dìrìtto storico della nazione a prevalere sulla frammen­tazìone delle piccole patrie o sulla coercizione degli imperi», ha portato «a sottovalutare l regi­mi regionali preesistenti e i concreti passaggi che li portano al collasso». Ciò che induce a non vedere (o a sottovalutare) quanto, nella for­mazione dell’Italia, <<l’assorbimento .del. Regno delle Due Sicilie nella compagine unitaria cam­bi in modo profondo ~ natura del nuovo Stato e ne determini la stona successiva».

 

Il tema non è quello tradizionale dell1talia meridionale soggiogata e rapinata da quella del Nord. Si danno per acquisiti i risultati dell’imo. ponente ricerca di Vittorio Daniele ~ Paolo Ma­lanima Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (Rubbattino), da cui emerge che i territori. bor­bonici presentano, negli anni dell’unifìeazìone, condizioni economiche del tutto simili a quelle delle aree settentrionali e che anzi il Pil pro ca­pite del Mezzogiorno è superiore, benché di po­co a quello del Nord. Ma senza pretendere di dire su tale questione una parola definitiva, si prende atto del fatto che all’epoca la percezione dell’Italia meridionale era ben diversa da quel­la, assai più positiva, che di quelle terre si aveva nel Settecento. Sviluppata o meno che fosse, l’Italia meridionale era universalmente percepi­ta come un’entità di tipo «africano».

Nel 1844, Cesare Balbo scriveva che l’Italia as­sommava «da settentrione a mezzodì province e popoli così diversi tra sé come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa». E prima ancora, nel 1820, Mettermch aveva det­to che nell’Italia del Sud la rivoluzione era in­concepibile dal momento che quello meridio­nale «è un popolo mezzo barbaro, di un’igno­ranza assoluta, di una superstizione senza limi­ti, ardente e passionale come sono gli africa­ni». Benedetto Croce raccontava come fosse sta­to lo stesso Ferdìnando II a confìdare a un diplo­matico che lì nella sua Napoli «cominciava l’ Africa». Poi c’era stata la «rivoluzione» (falli­ta) del 1848 con la dura reazione di Ferdinando II, che fece definitivamente a pezzi la reputazio­ne del Regno delle Due Sicilie. Regno che il par­lamentare liberale inglese William Gladstone definì, nel 1851, come la «negazione di Dio eret­ta a sistema di governo» (parole destinate a re­stare indelebili nei libri di storia).

Ne deriva, scrive Macry, una «valanga di giu­dizi negativi dai quali il regno napoletano viene sommerso … L’opinione pubblica oetid91tale mette all’indice la qualità dello Stato dei Borbo­ne, la politica della dinastia, i difetti personali dei sovrani, la corruzione degli uffici e poi, con prevedibile generalizzazione, gli abitanti tutti del Paese, la loro cultura, perfino la loro antro­pologia». Ma, mentre i rìlìevì anche feroci sui Borbone sono destinati nel tempo a essere dirnenticati (o quasi), la rappresentazione dem~­nizzante del Meridione resta. Nel senso che resi­ste intatta la descrizione che del Sud fecero i rappresentanti dell’élite liberale a ridosso del­l’impresa dei Mille: «una cancrena» (LUIgI Car­Io Farini), «un vaìoloso» (Massimo d’Azeglio), «un’ulcera» (Diomede Pantaleoni), «una razza di briganti» (Carlo Nievo), «un lascito della bar­barie alla civiltà del secolo )(JX» (Aurelio Saffi).

L’indagine storica del libro di Macry mette adesso in evidenza gli aspetti meno edificanti della vicenda che portò al crollo del regno bor­bonico. Prima di tutto la partecipazione all’im­presa di Garibaldi di «uomìnì primitivi, selvag­gi, violenti», inviati dall’arìstocrazìa terriera sici­liana a dare man forte al generale nizzardo. Una prirnitività che si era già intravista nel 1848 quando, scrive Macry, la macchina amministra­tiva e repressiva del regime borbonico viene tra­volta nel giro di qualche settimana dall’onda d’urto di un territorio dove imperversano le squadre armate contadine, indocili strumenti dei proprietari terrìerì, e i gruppi di «facinorosi sempre pronti a battersi contro le forze dell’or­dine». Nel 1848, i borbonici «soccombono a un miscuglio micidiale di iniziativa politica e pres­sione sociale, che si esprime attraverso la guer­riglia contro le truppe reali, le incursioni nelle città fedeli a Napoli, gli attacchi ai posti di poli­zia e il massacro dei poliziotti, il saccheggio di uffici pubblici e abitazioni private, il rapimento degli avversari politici e dei ricchi»     .

Lo Stato assiste impotente al dìssolvìmento dell’ordine pubblico. Da una parte vengono li­berati i detenuti (<<Visacci che mettevano pau­ra, pallidi come la bile, dagli occhi scintillanti di un misto di desideri», scrive il memorialista Giuseppe Picone; Ernest Renan, nel 1849, ag­gìunge «questi non sono uomini, sono brutì») ed esplode una criminalità diffusa «che tiene in scacco e terrorizza le popolazioni, da Agri­gento a Mazara». Dall’altra «si organizzano rap­presaglie contro interi villaggi e si pratica una giustizia sommaria, mettendo a morte senza troppe formalità i presunti autori di ruberìe» e se ne abbandonano i cadaveri per strada con la scritta «ladro» sul petto. Stava accadendo, co­me annotò l’indipendentista repubblicano Pa­squale Calvi, che «uomini agresti e rudi, rotti a tutt’i pericoli, di poco culta moralità, armati, in una società dove non esisteva una forza pubbli­ca repressìva, bentosto si accorsero che loro era tutto permesso». Queste squadre armate pre­sto diventano l’unica autorità sul territorio. Squadre che, come ha scritto Giuseppe Giarriz­zo, «sono il veicolo dell’ingresso della criminali­tà organizzata (abigeato, sequestro di persona, contrabbando) nell’area politica, attraverso la promozione dei capobanda a “patrioti”».

Il tutto si ripresenta nel 1860, allorché si rive­la fondamentale l’apporto di quest’area delin­quenziale all’impresa di Garibaldi. Il generale borbonico Salvatore Pianell aveva intravisto il tutto già nel dicembre del 1859: in una lettera alla moglie Norina, prevede guai a Palermo per la primavera successiva, «se la truppa fosse bat­tuta vedresti scene di barbarie mai viste al mon­do»: II luogotenente borbonico Paolo Ruffo di Castelcicala, due mesi prima dello sbarco di Ga­ribaldi, avverte il re Francesco TI: a Palermo «gli uomini della plebe i quali inferocirono nella ri­volta ~eI1848, sono in commozioni e di già aspi­rano il sangue e la rapina, designando le vitti­me e le case sulle quali debbono mettere le ma­nh>. Ad aprile, anche qui settimane prima del­l’arrivo di Garibaldi, tornano in azione le bande armate, al cui interno, come afferma Antonino Recupero in La Sicilia all’opposizione (Einau­di), «non è facile distinguere l’attività patriotti­ca da quella di saccheggio e di estorsione, di assalti agli uffici fiscali e alle case degli usurai». Per di più questi irregolari combattono in un modo del tutto sorprendente. Le truppe, riferi­sce il6 aprile il medesimo Castelcicala, devono vedersela con un nemico che «non si mostra mai all’aperto, ma si scioglie, si sperpera, si rag­granella or qua or là alla maniera dei guerillos». Uomini che fanno paura perfino ai garibaldini, beneficiati dalle loro azioni. «Le squadre» scri­verà Giuseppe Cesare Abba, «arrivava~o da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia una diavoleria.” Ho veduto dei montanari armati fi­no ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che paiono bocche di pistole».

Tutto ciò, conclude Macry, rende «la guerra siciliana del 1860 poco adatta a essere inserita in visioni  oleogratiche del Risorgimento e tan­to meno a soddisfare i criteri del liberalismo eu­ropeo e le sue prerogative irrinunciabili». Di più: «Gli errori politici e militari dei borbonici e le straordinarie gesta dei garibaldini vanno egualmente ridimensionati; i primi sono meno gravi di quanto non si ritenga, le seconde meno fulgide». E gli uomini di Garibaldi «che pure dipendono dal prezioso appoggio delle squa­dre, avranno i loro problemi quando il vaso di Pandora andrà in pezzi».

Secondo punto. Garibaldi passa dalla Sicilia alla Calabria il 19 agosto del 1860. Ma il Mezzo­giorno continentale ha iniziato a implodere già due mesi prima, all’indomani del 25 giugno, al­lorché Francesco TI ha avviato, di punto in bian­co, una sua rivoluzione. Con «un misto di reali­smo riluttante e avventatezza politica», scrive Macry, il giovane sovrano opera una svolta a tut­to campo che più radicale non potrebbe essere: aderisce alla prospettiva nazionale, riporta in vi­gore la Costituzione del 1848 (<<In armonia co’ principi italiani e nazionali», specifica il sovra­no), introduce il sistema rappresentativo, concede la libertà di stampa e l’amnistia per i dete­nuti politici. Da quel momento Francesco TI si travestirà sempre più da patriota risorgimenta­le. Subito (dal 27 giugno) modificherà la ban­diera del suo regno, che conserverà al centro lo stemma dinastico, ma diverrà tricolore e sarà issata sui pennoni della flotta e sui castelli citta­dini, mentre anche le navi straniere alla rada fe­steggeranno l’evento sparando a salve. II 211u­glia al teatro San Carlo va in scena uno spettaco­lo per raccogliere fondi a favore degli ex; dete­nuti politici, spettacolo che si conclude con l’esecuzione di un applauditissimo coro dei Lombardi. Francesco TI partecipa con duemila ducati alla colletta a favore di quelli che fino a meno di un mese prima erano stati oppositori da lui stesso fatti mettere in prigione. Nel giro di pochi giorni a Napoli non si trova più quasi nessuno che non inneggi a Cavour in un primo tempo e poi, con decisione, a Garibaldi. TI tutto in una città dove, fino al giorno precedente, ri­corda Luigi Settembrini, «erano borbonici per­fino i gatti di casa».

«II 1860 napoletano», scrive Macry, «è un grande, talvolta spudorato esercizio di travesti­tìsmo», TI generale Alessandro Nunziante forse la persona più ascoltata dal sovrano, ai prÌ.mi di luglio – nel clima di cui si è detto – restitui­sce in modo  teatrale al re onorìfìcenze e diplomiI. II mìnìstro della Guerra Salvatore Pianell si dimetterà poche settimane dopo, all’inizio del­l’a~sedio di Gaeta. Tutte o quasi le personalità piu importanti del regime si dicono all’improv­viso «cavouriane», persino il conte d’Aquila, zio del sovrano. Bertrando Spaventa ironizza su quelli che chiama «i nostri grandi convertiti».

Q1Iel «vertiginoso cambio di passo» successi­vo alla concessione della Costituzione avrà­scrive Macry – «conseguenze devas~ti». An­che perché sarà accelerato tramite la nomina a prefetto di polizia, sempre il 25 giugno, dell’av­vocato ex oppositore Libario Romano. Quel  Ro­mano che in un bel libro, pubblicato da Rubbet­tino, Nico Perrone ha indicato come L’invento­re del trasfonnismo, definendolo poi nel sotto­titolo «strumento di Cavour per la conquista di Napoli». «Don Liborio», tre settimane dopo la nomina a prefetto di polizia, sarà promosso ­sempre assai prima che Garibaldi passi sul con­tinente – addirittura miriistro dell’Interno, Car­riera velocissima per un uomo che, come recita il titolo di un altro avvincente libro sulla sua fi­gura – scritto da Giancarlo Vallone per i tipi di Iovene – passò Dalle sette al governo.

Q!ual’ è la prima mossa del ministro di polizia Liborio Romano? Convoca a casa sua i principa­li capi della camorra (<<I più rinomati di quei bravi», li definisce lui stesso nelle sue Memo­rie) e spiega loro che è giunto il momento di . «riabilitarsi dalla degradazione» facendo parte di una nuova pubblica sicurezza che non sarà più «composta di tristissimi sgherri e di vìlìssì­me spie, ma di uomini valorosi e di cuore». «Laddove», chiarisce Macry, «per sgherri e spie si intendono i vecchi tutori dell’ordine e per uo­mini di valore i camorristi». Così Napoli evite­rà, grazie alla criminalità organizzata, i temuti disordini ad opera dei lazzari, che erano stati la tradizionale massa di manovra borbonica Ma assieme ai poliziotti fino a quel momento leali con il regime, che vengono ora sostituiti con gli uomini della camorra, saranno eliminati anche i magistrati, le guardie urbane e l’intera buro­crazia ministeriale. Molti di coloro che vengo­no chiamati a rimpiazzarli, però, non se la sen­tono di accettare i nuovi incarichi in quel clima di incertezza. Così i posti – eccezion fatta per quelli affidati ai capi della malavita – rimango­no scoperti. È un grande caos.

Quell’ estate del 1860, Cavour prova a organiz­zare – assieme al generale Nunziante «<Di lui possiamo fidarci», scrive all’ammiraglio Persa­no, «perché ci ha dato tanto in mano da farlo impiccare se occorre») e al ministro Romano – un colpo di Stato fìlosabaudo, TI tutto per prevenire Garibaldi, che – ricordiamolo sem­pre – non è ancora passato dalla Sicilia in Cala­bria. Ma sia Nunziante sia Romano, dopo aver assicurato la loro partecipazione al complotto, nelle ore decisive si sfilano. Talché cavour il 16 agosto scrive stizzito a Bettino Ricasoli: «Se Na­poli racchiude elementi di rivoluzione, essa de­ve scoppiare perché gli abbiamo somministra­to tutti i mezzi per farla. Se poi la materia del regno è talmente infracidita da non essere più suscettibile di fermento, io non so che farci, e bisogna rassegnarsi al trionfo di Garibaldi o del­la reazione», Detto fatto. Liborio Romano pren­de contatti con Alexandre Dumas, fiduciario del generale nìzzardo, e gli consegna metafori­camente le chiavi di una città che controlla at­traverso i suoi malavitosi. E così, quando a set­tembre Garibaldi arriva a Napoli (il re si è nel frattempo rifugiato a Gaeta), la città, nelle mani dello Schiavetto, di Michele ‘o Chiazziere, di To­re ‘e Crescenzo e altri capi della criminalità par­tenopea, lo accoglie in tripudio come un libera­tore. Scrive l’ambasciatore britannico Iames Hu­dson che la popolazione di Napoli gli appare in quei mesi «corrotta, codarda e degradata». L’ambasciatore usa proprio queste parole per descrivere la massa «rivoluzionaria»: «corrotta, codarda e degradata»

Diverso discorso, almeno in parte, va fatto per ciò che Garibaldi aveva incontrato nelle re­gioni meridionali – Calabria, Basilicata, Cam­pania – attraversate per passare dalla Sicilia a Napoli. Qui movimenti rivoluzionari alquanto improvvisati (in alcune delle zone più povere del Regno delle Due Sicilie) avevano dato vita a esperimenti di governo estemporanei, di cui re­sterà scarsa memoria. Una per tutte, l’esperien­za di un uomo di valore, mazziniano di antica fede, Giacinto Albini, nominato da Garibaldi prodittatore di Basilicata senza che poi la sua esperienza abbia lasciato grandi tracce nei libri di storia. Dopo la svolta del 25 giugno, poì, è stata riportata in vita la Guardia nazionale, che da-

rà una grande mano a Garibaldi.

Ma si vedrà presto che tale Guardia si è messa in luce, afferma Bettino Rìcasolì, «sia per la tute-

la dell’ordine, sia per scompigliare l’ordine». E come, sostiene sempre Ricasoli, si dovrà prendere atto che i municipi meridionali hanno incluso nei propri ranghi «persone di perduta fama, persone implicate in. processi tuttavia pendenti per furto e per omicidio, persone che subirono condanne sotto il regime borbonico non già per reati polìtìcì, ma per truf­te, per risse a mano armata, per furti e per altre iniquità». Le guardie nazionali, scrive a Cavour Luigi Carlo Farini alla fine del 1860, «formano banda, non corpo ordinato; in molti luoghi han­no pigliato le poche armi che hanno e si sono battute bene coi caffoni, ma si sono date an­ch’esse a far violenze inaudite: son partiggiani, non è forza governativa … non hanno ruoli, non matricole, non gerarchie, non Consigli di Disci­plina; sono accozzaglia, non milizie».

Quelle «accozzaglie», ha scritto Enrico Fran­cia nell’interessantissimo Le baionette intelli­genti. La Guardia nazionale nell’Italia liberale (1848-1876) (ll Mulino), sono «il frutto non tan­to dell’applicazione della legge, ma piuttosto di rapporti di forza e di esigenze delle singole co­munità così che il loro colore politico è spesso difficilmente decifrabile, la loro composizione disomogenea, le loro finalità poco chiare». At­tenzione, però. Non è che, per Macry, all’epoca dei Mille fossero del tutto assenti nel Mezzo­giorno persone animate da sentimenti di moti­vata adesione agli ideali della patria. Ce ne furo­no, probabilmente molte. Ma, scrive Macry, «al di sotto del fiume Garigliano, la nazione dei li­berali diventa un fenomeno decisamente mino­ritario sui piano politico, sociologico e cultura­le … Non che nel resto della penisola sia un’istanza di popolo, ma è nel Sud che incontra adesioni estemporanee, disillusioni, ranèorì e infine una vera e propria reazione armata». È giusto dire in maniera esplicita che «il Mezzo­giorno non aderisce al nuovo Stato con le con­vinzioni radicate delle regioni centrosettentrio­nali; il suo tragitto è meno introiettato sul pia­no culturale e ideale, meno consapevole politi­camente, meno chiaro sui piano sociologico». se si può parlare di «liberazione della Sicilia» non si può dire allo stesso modo di «liberazio­ne di Napoli e del Sud continentale». E da uno studio attento di quell’epopea viene fuori in modo nitido quanto in quelle regioni «l’edifi­cio del 1860 sia povero di radici».

I piemontesi venuti a governare il Sud dopo il 1860 troveranno quella che per loro è <<Affri­ca» in preda alla reazione armata di cui si è ap­pena detto, nei cui confronti si fanno presto l’opinione che ci sia da «usar la forza senza mol­te forme» (Antonio Scialoja), ovvero «ferro e fuoco» (Giuseppe La Farina), «truppa, truppa, truppa» (Diomede Pantaleoni). Quell’<<Affrica» verrà piegata al seguito di un conflitto durato quattro lunghissimi anni, nel quale saranno im­pegnati U5 mila soldati (in certi momenti quasi due terzi di tutte le forze armate del nostro Pae­se) e che produrrà più morti che l’intera epo­pea risorgimentale, guerre d’indipendenza in­cluse. Poi verrà il tempo delle stragi. Dopo che i . bersaglieri avranno subito agguati feroci da par­te dei «briganti» e che i generali Giuseppe Go­vone ed Enrico Cialdini avranno risposto con autentici massacri di popolazione, dopo tutto ciò, il Mezzogiorno diventerà, secondo Macry, «il più italiano dei territori italiani» e «mai met­terà in discussione l’unìtà». Ma che tipo di «ter­ritorio italiano» sarà? L’élite di governo nazio­nale «che soffre di un cronico deficit di radica­mento, distribuirà alle periferie – e sempre più alle periferie meridionali – quantità cre­scenti di risorse pubbliche, ricavandone legitti­mazione e consenso elettorale. Così risolvendo, in parte almeno, il suo problema. .. A loro volta, le classi dirigenti locali – e sempre più le clas­si dirigenti meridionali – ne avranno gli stru­menti necessari per consolidare il proprio con­trollo su municipi, province e infine regioni».

Per un lungo tempo saranno in molti a rite­nere che il problema dell’Italia sia quello di «aiutare» il Sud. «Finora lo Stato ha assorbito ricchezza nel Sud e l’ha investita nel Nord, d’ora in poi bisognerà che lo Stato assorba ricchezza nel Nord e la riversi nel Sud», scrive ancora nel 1902 Gaetano Salvemìnì. Cento anni dopo Luca Ricolfi (in n sacco del Nord. Saggio sulla giusti­zia territoriale, edito da Guerini e Associati) cal­colerà che di recente lo Stato italiano ogni anno ha sottratto qualcosa come cinquanta miliardi di euro alle regioni del Nord e li ha riversati, con trasferimenti ordinari e straordinari, nelle regioni meridionali. Provocando la nascita, a fianco di quella meridionale, di una questione settentrionale. Forse aveva ragione Francesco Saverio Nitti che nel 1900, due anni prima del­l’esortazione di Salvemini a trasferire ricchezza dal Nord al Sud, metteva le mani avanti: «È in­negabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza». E già a fine Ot­tocento il milanese Giuseppe Colombo, padre dell’Edison e rettore del Politecnico, deputato, presidente della Camera, senatore, ministro del­le Finanze, poi del Tesoro, aveva denunciato le responsabilità del Sud nell’aumento della spesa pubblica, e come tale spesa fosse connessa con una crescita inarrestabile dell’imposizione fisca­le. Ma qui si apre un altro problema, quello per cui, come dice Macry, «governare questione meridionale e questione settentrionale si è rive­lato un compito difficile». Quasi impossibile.

 

 

 

 

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