VIVERE ‘PER’ LA POLITICA E ‘DI’ POLITICA, di Max Weber

In tempi di ri-discussione radicale del senso della politica e del suo farsi, pubblichiamo stralci da uno dei più importanti saggi che siano mai stati scritti sul vivere ‘per’ e ‘di’ politica. Si tratta di una lunga conferenza che Max Weber tenne a Vienna nel 1918 e che noi traiamo dal volume “Il lavoro intellettuale come professione”, ed . Einaudi, TO, 1993.

 

IL LAVORO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE

 

di Max Weber

VIVERE ‘PER’ LA POLITICA E  ‘DI’ POLITICA.

PAG. 58 – 61

….In questo senso inte­riore si può ben dire che ogni uomo serio, il quale vive per una causa, vive anche di questa causa. La distinzione si applica anche a un lato molto più ampio della questio­ne: a quello economico. «Di» politica come professione vive chi tende a farne una duratura fonte di guadagno; « per» la politica, invece, colui per il quale ciò non avvie­ne. Affinché vi sia chi possa vivere «per» la politica in quest’ultimo significato economico, occorre la presenza di alcuni presupposti, se volete assai triviali, nel campo del­l’ordinamento della proprietà privata: costui – in condi­zioni normali – dovrà essere economicamente indipenden­te rispetto ai proventi che può trarre dalla politica. Il che significa, in parole povere, che deve disporre di un patri­monio o godere di una situazione privata che gli procuri entrate ‘sufficienti. Cosi avviene per lo meno in condizioni normali. Certo, il seguito di un condottiero in guerra, co­me quello dell’eroe rivoluzionario della piazza, non aspi­ra alle condizioni di una normale economia. L’uno e l’al­tro vivono di bottino, di rapina, di confische, di tributi, dell’imposizione di mezzi forzosi di pagamento privi di valore: ciò che in sostanza è sempre la stessa cosa. Ma questi sono necessariamente fenomeni eccezionali: nell’e­conomia normale è soltanto il patrimonio personale che sopperisce al bisogno. Ciò tuttavia non basta: egli inoltre non dev’essere schiavo dell’attività economica; e cioè le sue entrate non devon dipendere dal fatto ch’egli ponga stabilmente e personalmente la propria forza lavorativa e il proprio pensiero – per intero, o almeno in massima par­te – al servizio del guadagno. In questo senso, non è schia­vo, nel modo piti assoluto, chi vive di rendita, e cioè colui il quale senza il minimo lavoro trae un reddito sia da beni fondiari – e nell’antichità e nel Medioevo anche dal lavo­ro di schiavi o di servi -, come i signori feudali del passato e i latifondisti e gli Standesberren tedeschi l di oggi, sia da titoli o altre fonti di rendita. Né l’operaio, né – è importante notarlo -l’imprenditore, anche e specialmen­te il grande imprenditore moderno, sono liberi in questo senso. Giacché proprio l’imprenditore – quello industria­le molto più che non quello agricolo, dato il carattere sta­gionale dell’economia agraria – è vincolato alla propria at­tività economica e non è disimpegnato. Per lui è quasi sempre difficilissimo farsi sostituire anche solo di quando in quando. Cosi pure è per il medico, e in misura tanto maggiore quanto piii è abile e ricercato. La cosa invece è già piii facile, per motivi puramente tecnico-professiona­li, per l’avvocato, il quale ha avuto perciò, come politico di professione, una parte straordinariamente importante, spesso addirittura dominante. Ma non proseguiamo oltre in questa casistica, bensi veniamo in chiaro di alcune con­seguenze.

 

Il governo di uno stato o di un partito per mezzo di per­sone le quali vivano esclusivamente per la politica (nel senso economico della parola) e non di politica, compor­ta necessariamente un reclutamento « plutocratico» delle categorie politicamente dirigenti. Con ciò evidentemente non si afferma anche l’inverso: che, cioè, una simile dire­zione plutocratica significhi al tempo stesso che la catego­ria politicamente dominante non cerchi anche di vivere « di » politica, e quindi non usi approfittare del predomi­nio politico anche per i suoi privati interessi economici. Naturalmente non parliamo di questo. Non vi è stato mai nessun gruppo che non l’abbia fatto in un modo o nell’al­tro. Il significato è uno solo: che in quel caso i politici di professione non sono costretti a cercare un compenso di­rettamente per la loro opera politica, come deve assolutamente pretenderlo chiunque sia privo di mezzi.

 

 

…….E d’altro canto, ciò non significa affatto che i politici privi di risor­se private mirino con la politica semplicemente o anche solo prevalentemente a soddisfare ai loro privati bisogni economici, e non pensino affatto, o almeno non pensino in primo luogo «alla causa ». Nulla sarebbe più ingiusto.

Per l’uomo facoltoso, la preoccupazione della «sicurez­za» economica della propria esistenza rappresenta per e­sperienza – consapevolmente o no – un punto cardinale per l’orientamento di tutta la sua vita.

L’idealismo poli­tico assolutamente intransigente e spregiudicato si trova, se non esclusivamente, certo almeno in prevalenza presso coloro i quali, essendo privi di beni patrimoniali, sono completamente estranei alle categorie legate al manteni­mento dell’organizzazione economica di una determina­ta società: ciò vale specialmente in epoche eccezionali e quindi rivoluzionarie.

Ma ha soltanto questo significato: che un reclutamento non plutocratico dei cointeressati al­la politica, del gruppo dirigente e del suo seguito, è con­dizionato dall’ovvio presupposto che costoro percepisca­no per l’esercizio dell’attività politica un reddito regolare e sicuro.

La politica può essere esercitata o mediante «ca­riche onorifiche », e quindi da coloro che si usa chiamare «indipendenti », ossia persone facoltose, soprattutto per­sone che vivono di rendita; oppure, viene messa alla por­tata dei meno abbienti e bisogna allora corrispondere un compenso.

Il politico di professione il quale viva con la politica può essere un semplice « beneficiario» oppure un «mpiegato» stipendiato. Egli trae quindi un reddito da contributi ed emolumenti per determinati servizi – le mance e le somme ricevute per corruzione sono soltanto un’aberrazione irregolare e formalmente illegale di questa categoria di entrate -, oppure percepisce un compenso fisso in natura o uno stipendio in denaro, o anche entram­bi. Può assumere il carattere di un «imprenditore », come il condottiero o l’appaltatore d’altri tempi, o come il boss americano, il quale considera le sue spese alla stregua di un investimento di capitale, che egli rende fruttifero col valersi della propria influenza. Oppure, può percepire una remunerazione fissa, come un redattore o un segretario di partito o un moderno ministro o un funzionario politico. Per il passato, il tipico compenso elargito da principi, da conquistatori vittoriosi o capi partito fortunati ai loro se­guaci, era costituito da feudi, da donazioni di terre, da be­nefici d’ogni sorta e, con lo sviluppo dell’economia mone­taria, specialmente da emolumenti; oggi, i capipartito, per i fedeli servizi loro prestati, distribuiscono cariche d’ogni specie nei partiti, nei giornali, nelle associazioni, nelle cas­se di malattia, nei comuni e nello stato. Tutte le lotte tra i partiti non avvengono soltanto per fini obiettivi, ma so­prattutto per il patronato degli impieghi. Tutte le lotte tra le tendenze particolaristiche in Germania vertono so­prattutto intorno alla questione se debbano essere i poteri di Berlino oppure quelli di Monaco, di Karlsruhe, di Dre­sda, a disporre del patronato degli impieghi. Gli insucces si nella spartizione degli impieghi vengono risentiti dal partiti piii duramente che non gli smacchi subiti nei fini sostanziali. In Francia, uno spostamento di prefetti per opera di un partito politico è stato sempre considerato co­me un rivolgimento maggiore ed ha fatto piii chiasso che non una modificazione del programma di governo, il qua­le ha un significato quasi puramente fraseologico. …………………

 

 

 

 

PAG 100 IL LAVÒRO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE

 

LA VOCAZIONE ALLA POLITICA

 

Qua­li gioie intime è dunque essa (la carriera politica) è in grado di offrire, e quali attitudini personali presuppone da chi vi si dedica?

 

Ebbene, anzitutto essa procura il sentimento del pote­re. Anche in posizioni modeste dal punto di vista formale, il politico di professione ha la coscienza di esercitare un’a­zione sugli uomini, di partecipare al potere che li domina, e soprattutto ha il sentimento di aver tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana. Ma il problema che ora per lui si pone è questo: quali sono le qualità per cui egli può spe­rare di essere all’altezza di tale potere (per quanto limita­to esso possa essere nel caso singolo) e quindi della re­sponsabilità che gliene deriva? Sconfiniamo cosi nel cam­po delle questioni etiche; giacché a queste appartiene la domanda: che uomo deve essere colui al quale è consen­tito di metter le mani negli ingranaggi della storia?

 

Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico: passione,senso di responsabilità, lungimiranza. Passione senso cl! Sachlichkeit: dedizione appassionata a una « causa» (Sache), al dio o al diavolo che la dirige. Non nel senso di quel fermento interiore, che il mio compianto amico Georg Simmel usava definire « agi­tazione sterile », particolarmente caratteristica di un certo tipo di intellettuale russo (non certo di tutti) e che ora, in questo carnevale che si ammanta del nome altisonante di «rivoluzione », ha una parte cosi importante anche tra i nostri intellettuali: un «romanticismo di ciò che è intel­lettualmente interessante », campato sul vuoto, senza al­cun concreto senso di responsabilità. Giacché evidente­mente non basta la semplice passione, per quanto sincera­mente sentita. Essa non crea l’uomo politico se non met­tendolo al servizio di una « causa» e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida. determinante dell’azione. Donde la necessità della lungimiranza – attitudine psichica decisiva per l’uomo po­litico – ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini. La « mancanza di distacco» (Distanzlosigkeit), semplicemente come tale, è uno dei peccati mortali di qualsiasi uomo politico e una di quelle qualità che, coltivate nella giovane generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all’inettitudine poli­tica. E il problema è appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l’ardente passione e la fred­da lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell’animo. E tut­tavia la dedizione alla politica, se questa non dev’essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente u­mana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla pas­sione. Ma quel fermo controllo del proprio animo che ca­ratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilet­tanti della politica che semplicemente «si agitano a vuo­to », è solo possibile attraverso l’abitudine alla distanza, in tutti i sensi della parola. La « forza» di una «persona­lità» politica dipende in primissimo luogo dal possesso di doti siflatte.

L’uomo politico deve perciò soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità, comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni «distanza », e, in questo caso, del distacco rispetto a se medesimi.

La vanità è un difetto assai diffuso, e forse nessuno ne va del tutto esente. Negli ambienti accademici e universi­tari è una specie di malattia professionale. Tuttavia pres­so gli studiosi, per quanto possa apparire antipatica, essa è relativamente innocua nel senso che di regola non nuo­ce all’attività scientifica. Per l’uomo politico è tutt’altra cosa. L’aspirazione al potere è lo strumento indispensa­bile del suo lavoro. «L’istinto della potenza» (Macht­instinkt) - secondo l’espressione in uso – appartiene per­ciò di fatto alle sue qualità normali. Ma nella sua profes­sione il peccato contro lo Spirito Santo comincia quando tale aspirazione al potere smarrisce le «cause» per cui esi­ste e diventa un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamen­te al servizio della «causa ». Giacché si dànno in definitiva due sole specie di peccati mortali sul terreno della politi­ca: mancanza di una «causa» giustificatrice e mancanza di responsabilità (spesso, ma  non sempre, cincidente con la prima). La vanità, ossia Il bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la pro­pria persona, induce l’uomo politico nella fortissima ten­tazione di commettere uno di quei peccati o anche tutti e due. Tanto più, in quanto il demagogo è costretto a con­tare sull’«efficacia», ed è perciò continuamente in perico­lo di divenire un istrione, come pure di prendere alla leg­gera la propria responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi soltanto dell’« impressione» che egli riesce a fare. Egli rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparen­za del potere per il potere reale e, per mancanza di respon­sabilità, di godere del potere semplicemente per amor del­la potenza, senza dargli uno scopo per contenuto. Infatti, quantunque, o meglio proprio in quanto la potenza è l’in­dispensabile strumento di ogni politica e l’aspirazione al potere una delle sue forze propulsive, non si dà aberrazio­ne dell’attività politica più deleteria dello sfoggio pacchia­no del potere e del vanaglorioso compiacersi nel sentimen­to della potenza, o, in generale, di ogni culto del potere semplicemente come tale. Il mero «politico della poten­za» (Machtpolitiker), quale cerca di glorificarlo un culto ardentemente professato anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma opera di fatto nel vuoto e nell’assurdo. In ciò i critici della «politica di potenza» hanno piena­mente ragione. Dall’improvviso intimo disfacimento di al­cuni tipici rappresentanti di quell’indirizzo, abbiamo po­tuto apprendere per esperienza quale intrinseca debolezza e impotenza si nasconda dietro questo atteggiamento bo­rioso ma del tutto vuoto. Esso è il prodotto di uno scetti­cismo estremamente meschino e superficiale riguardo al significato dell’azione umana, non avente nulla in comune con la coscienza del tragico di cui è in realtà intessuta ogni attività, e soprattutto quella politica.

 

È perfettamente vero, ed è uno degli elementi fonda­mentali di tutta la storia (sul quale non possiamo qui sof­fermarci in dettaglio), che il risultato finale dell’azione politica è spesso, dico meglio, è di regola in un rapporto assolutamente inadeguato e sovente addirittura parados­sale col suo significato originario. Ma appunto perciò, non deve mancare all’azione politica questo suo significato di servire a una causa, ove essa debba avere una sua intima consistenza. Quale debba essere la causa per i cui fini l’uo­mo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede. Egli può servire la nazione o l’umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mon­dani o religiosi, può esser sostenuto da una ferma fede nel « progresso» – non importa in qual senso – oppure può freddamente respingere questa forma di fede, può inoltre pretendere di mettersi al servizio di una « idea», oppure, rifiutando in linea di principio siffatta pretesa, può voler servire i fini esteriori della vita quotidiana – sempre però deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nul­lità delle creature incombe effettivamente – ciò è assolu­tamente esatto – anche sui successi politici esteriormente piii solidi.

 

Con quanto ora abbiam detto siamo già entrati nella discussione del problema finale di cui ci occupiamo stase­ra, del problema, cioè, dell’ ethos della politica in quanto « causa» (Sache). Quale compito può essa adempiere, a piescindere del tutto dai suoi fini, nell’ambito dell’intera organizzazione etica della vita? Qual è, per cosi dire, il luogo etico ove essa dimora? Qui evidentemente entrano in conflitto le supreme concezioni del mondo, tra le quali in definitiva bisogna scegliere. Affrontiamo risolutamente il problema che di recente – e, a mio avviso, in maniera assolutamente errata – è stato nuovamente esaminato.

 

Sgombriamo innanzi tutto il terreno da una deformazio­ne di bassa lega. L’etica può cioè assumere in primo luogo un ufficio che moralmente è deleterio al massimo grado. Facciamo qualche esempio. È raro che un uomo il quale si stacchi da una donna per essersi innamorato di un’altra, non senta il bisogno di giustificarsi davanti a se stesso col dire che la prima non era più degna del suo amore o che lo aveva ingannato, o adducendo altri « motivi» del gene­re. Si tratta di una scortesia con cui si cerca di dare una indoratura di « legittimità» al semplice fatto ineluttabile che non si ama più e che la donna deve sopportarne le con­seguenze; cosicché si accampa pure un diritto, e, oltre al­l’infelicità, si cerca di addossare alla donna anche un tor­to. In modo identico si comporta il concorrente fortunato in amore: il rivale deve per forza valere di meno, altri­menti non sarebbe rimasto soccombente. Ma si ha lo stes­so genere di evidenza quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vincitore proclama con tracotanza priva di ogni dignità: « Ho vinto perché avevo ragione ». Oppu­re quando l’animo viene meno di fronte agli orrori dell~ guerra e invece di dire francamente: « Era troppo», SI sente il bisogno di giustificare davanti ai propri occhi la stanchezza della guerra, sostituendovi questo sentimen­to: « Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa immorale ». E cosi pure nel caso dei vinti. Dopo una guerra, anziché andare in cerca del « colpevo­le» con mentalità da donnicciole – laddove è stata la struttura della società a determinare la guerra -, un atteg­giamento virile e austero detta queste parole: « Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è cosa fatta: par­liamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi concreti che erano in gioco, e – questo è l’es­senziale – in vista della responsabilità di fronte all’avve­nire, la quale grava specialmente sul vincitore ». Tutto il resto manca di dignità e si sconta più tardi. Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l’offesa al proprio onore, meno che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra, una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano mo­rale. Ciò è possibile solo mediante l’oggettività e la caval­leria, ma soprattutto mediante la dignità. Non mai me­diante una «etica », la quale in realtà significa mancanza di dignità .da ambo le parti. Invece di preoccuparsi di quel che deve interessare l’uomo politico, ossia il futuro e le possibilità di fronte. ad esso, quella persegue la questione – politicamente sterile perché insolubile – della colpa commessa nel passato. Se mai ve n’è una, questa è colpa poli­tica. E inoltre l’inevitabile travisamento dell’intero pro­blema vIene occultato da interessi crudamente materiali: gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno – morale e materiale -, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria colpa; se vi è qualcosa di «abietto », è appunto questo, ed è la conse­guenza di quel modo di valersi dell’« etica» come mezzo per la «soperchieria »,

Ma qual è ora il rapporto reale tra l’etica e la politica?

Sono forse esse, come si è detto talvolta, affatto estranee l’una all’altra? O è vero viceversa che la «medesima» eti­ca vale per l’azione politica come per tutte le altre? Si è talvolta ritenuto che tra queste due affermazioni si pones­se un’alternativa: giusta sarebbe l’una o l’altra. Ma sareb­be vero allora che una qualsiasi etica potrebbe stabilire norme di contenuto identico per ogni genere di rapporti, erotici e d’affari, familiari e d’ufficio, verso la moglie e l’erbivendola, il figlio e il concorrente, l’amico e l’avversa­rio? Per le esigenze dell’etica rispetto alla politica sareb­be davvero così  indifferente il fatto che questa opera con un mezzo tanto specifico com’è la potenza, dietro la quale si-nasconde la violenza? Non vediamo forse che gli ideo­logi bolscevichi e spartachisti, appunto in quanto applicano alla politica questo mezzo, giungono esattamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore militare? In che cosa, se non appunto nella persona di chi detiene il pote­re e nel suo dilettantismo, il dominio dei consigli degli operai e dei soldati si distingue da quello di un padrone assoluto dell’antico regime? E in che cosa si distingue la polemica di qualsiasi altro demagogo da quella che contro i loro avversari scatenano la maggior parte dei rappresen­tanti della presunta nuova etica? Se ne distingue per la nobiltà dell’intento! Così si risponde. Bene. Ma qui si par­la dei mezzi, e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede. «Chi di spada ferisce, di spada perisce », e la lotta è sempre lotta. E allo­ra, l’etica del Sermone della Montagna? Riguardo a que­sta – e intendiamo con essa l’etica assoluta del Vangelo – ­la cosa è più seria di quanto non credano quelli che oggi ne citano volentieri i precetti. Non è da prendersi a scher­zo. Vale per essa quel che è stato detto a proposito della causalità nella scienza: non è una carrozza di piazza di cui si possa disporre per salirvi o scenderne a proprio piacere. Bensl il suo significato è o tutto o nulla, se si vuoI cavarne qualcosadi più che semplici banalità. Cosi, per esempio, la parabola del giovane ricco, « il quale se ne andò triste­mente, giacché possedeva molte ricchezze ». Il precetto evangelico è incondizionato e preciso: da’ via ciò che pos­siedi – tutto, assolutamente. Il politico osserverà: «Una pretesa socialmente assurda, fin tanto che non è attuata per tutti ». E quindi, tassazioni, espropriazioni, confische: in una parola, ordini e coercizioni per tutti. Ma la legge morale non esige nulla di tutto ciò, e in questo risiede la sua essenza. Oppure, prendiamo il comando: «Porgi l’al­tra guancia »: incondizionatamente, senza domandare qual diritto abbia l’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità – a meno che non si tratti di un santo. Questo è il fatto: bisogna essere un santo in tutto, almeno nell’intenzione, bisogna vivere come Gesu, come gli Apostoli, co­me san Francesco e i suoi pari, e solo allora quell’etica ha un senso e una dignità. Altrimenti no. Infatti, laddove in conseguenza dell’etica dell’amore si comanda: «Non resistere al male con la violenza », il precetto che vale vi­ceversa per il politico è il seguente: «Devi resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile se esso prevale ». Chi voglia agire secondo l’etica del Vangelo, SI astenga dagli scioperi – giacché essi costituiscono una coercizione – e si iscriva nei sindacati gialli. Ma soprattut­to non parli di «rivoluzione », Giacché quell’etica non in­segnerà certo che sia proprio la guerra civile l’unica guer­ra legittima. Il pacifista che agisca secondo il Vangelo ri­fiuterà di prender le armi oppure le getterà via, come ve­niva raccomandato in Germania, ritenendolo un dovere morale, allo scopo di por fine alla guerra e con ciò a ogni guerra. Il politico dirà: «L’unico mezzo sicuro per scredi­tare la guerra per un avvenire entro i limiti delle nostre previsioni, sarebbe stata una pace di statu qua ». I popoli infatti si sarebbero chiesti: a che scopo questa guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum: Cosa che ora non è più possibile. Infatti, per i vincitori – o almeno per una parte di essi – la guerra è stata politicamente proficua. E di ciò è responsabile quell’atteggiamento che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Ma allora – quando sarà pas­sata l’epoca dell’avvilimento – non la guerra, bensi la pace sarà discreditata: conseguenza, questa, dell’etica asso­luta.

 

E finalmente: il dovere della verità. Per l’etica assolu­ta si tratta di un dovere incondizionato. Se ne è dedotta la conseguenza di pubblicare tutto, specialmente i documen­ti a carico del proprio paese, e, in base a tale pubblicazio­ne unilaterale, di riconoscere la propria colpa, unilateral­mente, incondizionatamente, senza riguardo alle conseguenze. Il politico troverà che riuscendo in tale intento non si giova alla verità ma piuttosto la si oscura, abusan­done e scatenando le passioni; che solo una chiarificazione generale condotta secondo un piano e senza spirito di par­te può portar buoni frutti, mentre ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che vi si accinge, con­seguenze che non si riparano nel corso di decenni. Ma l’e­tica assoluta non si preoccupa delle conseguenze.

 

Qui sta il punto decisivo. Dobbiamo renderei chiara­mente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e incon­ciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo “l’etica della convinzione”oppure secondo l’ «etica della responsabilità» (verantwortungs­ethisch).

Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuoI certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire se­condo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termin religìo suona: “ Il cristIano’opera da giu­sto e rimette l’esito nelle mani di Dio », e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la qua­le bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) del­le proprie azioni. A un convinto sindacalista il quale si re­goli secondo l’etica della convinzione potrete esporre con la massima forza di persuasione che la sua azione avrà per conseguenza di aumentare le speranze della reazione, di aggravare l’oppressione della sua classe e di impedirne l’a­scesa: ciò non gli farà la minima impressione. Se le con­seguenze di un’azione determinata da una convinzione pu­ra sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensi il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali. Chi invece ragiona secondo l’e­tica della responsabilità tiene appungo conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto – come giustamente ha detto Fichte – di presup­porre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla. Costui dirà: «queste conse­guenze saranno imputate al mio operato », L’uomo mora­le secondo l’etica della convinzione si sente « responsabi­le» solo quanto al dovere di tener accesa la fiamma della convinzione pura, per esempio quella della protesta con­tro l’ingiustizia dell’ordinamento sociale. Ravvivarla con­tinuamente, è questo lo scopo delle sue azioni assoluta­mente irrazionali – a giudicarle dal loro possibile risulta­to – le quali possono e devono avere un valore soltanto di esempio.

 

Ma nemmeno con ciò il problema è esaurito. Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungi­mento di fini « buoni» è il piiì delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi e dalla possibilità o anche dalla probabilità del concorso di al­tre conseguenze cattive, e nessuna etica può determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono « giu­stifichi» i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose.

 

Per la politica, il mezzo decisivo è la forza, e di che portata sia il contrasto tra i mezzi e il fine, dal punto di vista etico, potrete desumerlo dal fatto ben noto che i so­cialisti rivoluzionari (tendenza di Zimmerwald) già du­rante la guerra professavano il principio che si potrebbe riassumere efficacemente in questa formula: «Se ci si po­ne l’alternativa, o ancora qualche anno di guerra e poi la rivoluzione, o subito la pace e nessuna rivoluzione, noi sceglieremo qualche anno di guerra », All’ulteriore do­manda: «Quali risultati potrà portare questa rivoluzio­ne? », ogni socialista con una certa preparazione scientifi­ca avrebbe risposto che non era il caso di parlare del pas­saggio a un’economia che potesse chiamarsi socialista nel senso da lui voluto, ma che sarebbe sorta una nuova eco­nomia borghese la quale avrebbe potuto semplicemente sgombrare il terreno dagli elementi feudali e dai residui dinastici. Per un risultato così modesto, dunque, «ancora qualche anno di guerra! » Non è certo temerario afferma­re che a questo punto anche un socialista fermamente con­vinto potrebbe rifiutare il fine che esige mezzi siffatti. Nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni specie di socialismo rivoluzionario, le cose stanno .esatta­mente in questi termini, ed è evidentemente assai ridicolo quando da quel pulpito si rimproverava ai «politici della forza» dell’antico regime, dal punto di vista etico, l’uso di mezzi identici, per quanto giustificato possa poi essere il rifiuto dei fini cui questi tendevano.

 

Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logica­mente altra via che quella di rifiutare ogni azione che ope­ri con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logica­mente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chi­liastico, e che per esempio coloro i quali hanno testè pre­dicato di opporre «l’amore alla forza », un istante dopo fanno appello alla forza – alla forza ultima, la quale do­vrebbe portare all’abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva diceva­no ai soldati: «Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace». Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza. Non è possibile ridurre a un comune denominatore l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, o decretare, sul piano morale, quale fine debba giustificare quel determi­nato mezzo, quando si sia fatta qualche concessione in ge­nerale a tale principio.

Il mio collega F. W. Forster, di cui personalmente ho la massima stima per l’indiscutibile rettitudine del suo pensiero, ma dal quale, come politico, dissento nel modo più netto, crede di poter sormontare la difficoltà con que­sta semplice tesi: dal bene può derivare soltanto il bene, e dal male soltanto il male. Allora l’intero problema evi­dentemecte.cesserebbe di esistere. È però’ sorprendente che 2500 anni dopo le Upanisad si sia potuto ancora so­stenere una simile tesi. Non soltanto l’intero corso della storia del mondo, ma anche un esame spregiudicato del­l’esperienza quotidiana c’insegna esattamente l’opposto. Lo sviluppo di tutte le religioni della terra è fondato pro­prio sul fatto che è vero il contrario. Il primo e fonda­mentale problema della teodicea consiste appunto nella questione di come sia ammissibile  che un potere definito al tempo stesso buono e onnipotente, abbia potuto creare un siffatto mondo irrazionale del dolore immeritato del torto impunito e della stupidità insanabile. O esso’ non possiede una di quelle due qualità, oppure la vita è gover­nata da principi che regolano in modo completamente di­verso la ricompensa e la pena, principi che noi possiamo interpretare al lume della metafisica oppure che sono per sempre irraggiungibili dalla nostra indagine. Questo pro­blema dell’esperienza dell’irrazionalità del mondo ha co­stituito la forza motrice dell’intero sviluppo di tutte le re­ligioni. La dottrina indiana del Karma e il dualismo persiano, il peccato originale, la predestinazione e il Deus absconditus, discendono tutti da questa esperienza. An­che i primi cristiani sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si seve dlla potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensi molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo.

L’etica religiosa si è variamente adeguata al fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro. Il politeismo gre­co sacrificava ad Afrodite e a Era, a Dioniso e ad Apollo, pur sapendo che queste divinità erano non di rado in lotta tra loro. L’ordine di vita induistico faceva di ognuna delle varie professioni l’oggetto di una legge etica particolare, di un dharma, e le divideva in caste per sempre separate, ordinandole così in una stabile gerarchia, dalla quale non vi era alcuna via d’uscita per chi vi nasceva col suo posto già assegnato, se non quella della rinascita nella prossima vita, e inoltre costoro venivano a trovarsi collocati a di­stanze diverse rispetto ai supremi mezzi di salvezza. Era perciò possibile conformare il dharma di ogni singola ca­sta, dagli asceti e dai bramini fino ai ladri e alle sgualdri­ne, in modo corrispondente alle caratteristiche intrinse­che di ciascuna professione. Comprese, tra queste, anche la guerra e la politica. La parte assegnata alla guerra nel­l’ordinamento complessivo della vita la si trova delineata nel Bhagavadgita, nella conversazione tra Krishna e Ardu­na. ~ Compi l’opera che è necessaria », ossia quella che è un dovere secondo il dharma della casta dei guerrieri e secondo le sue regole, effettivamente necessaria ai fini del­la guerra: ciò non compromette, secondo questa fede, la salvezza religiosa, bensi torna a suo vantaggio. Per il guer­nero indù il paradiso di Indra era altrettanto sicuro nel caso di una morte eroica, quanto il Walhalla per i germa­ni.. Il pnmo avrebbe però disdegnato il nirvana non meno di quanto i secondi avrebbero disdegnato il paradiso cri­strano con i suoi cori angelici. Siffatta specializzazione consenti all’etica indiana di trattare la politica in modo per­fettamente coerente, esclusivamente in conformità delle leggi proprie di quest’arte regia, e anzi portandola alle sue conseguenze radicali. Il «machiavellismo » veramen­te radicale nel senso popolare della parola, trova la sua classica espressione nella letteratura indiana nel Kautha­lya Arthasastra (di molto anteriore all’era cristiana, pre­sumibilmente dell’epoca del Tshandua-guptasi; al suo con­fronto Il Principe di Machiavelli è uno scritto innocuo. Nell’etica cattolica, alla quale d’altronde si accosta il pro­fessor Forster, i consilia evangelica sono notoriamente un’etica speciale per chi sia dotato del carisma della santità. Lì, accanto al monaco che non può versare sangue al­trui e non può trarre profitti, vi sono il pio cavaliere e il borghese, dei quali l’uno va esente dal secondo di quei divieti e l’altro dal primo. La ‘costruzione dell’etica per gradi. e la sua inserzione nell’organismo della dottrina‘della salvezza è meno conseguente che non in India, per quanto ciò debba e possa avvenire anche secondo i pre­supposti della fede cristiana. La corruzione del mondo in seguito al-peccato originale rendeva abbastanza facile far entrare nell’etica anche la violenza come mezzo educativo contro il peccato e contro gli eretici corruttori delle ani­me. Le esigenze etiche assolute e acosmiche del Sermone della Montagna e il diritto naturale religioso su di esse fondato conservarono però la loro efficacia rivoluzionaria e quasi sempre in periodi di rivolgimenti sociali prorup­pero con una violenza elementare. In particolare, essi crearono le sette pacifiste radicali, una delle quali fece in Pennsylvania l’esperimento di un’organizzazione statale aliena dall’uso di qualsiasi violenza verso l’esterno: espe­rimento che ebbe una tragica vicenda, in quanto i quac­cheri, scoppiata la guerra d’indipendenza, non poterono prender le armi per i loro ideali incarnati in quella guerra. Viceversa il normale protestantesimo giustificò in modo assoluto lo stato, e quindi il mezzo della violenza, come istituzione divina, e in particolare lo stato assoluto legit­timo. Lutero liberò l’individuo dalla responsabilità mora­le della guerra, addossandola al governo, al quale in mate­rie che non siano di fede si può sempre obbedire senza ca­dere in peccato. Il calvinismo dal canto suo ammise il principio della violenza come mezzo per la difesa della fe­de, e quindi la guerra di religione, che nell’Islàm era sem­pre stata un elemento vitale. Come si vede, il problema dell’etica politica non deriva affatto dall’incredulità mo­derna, originata dal culto dell’eroe nel Rinascimento. Tut­te le religioni si sono affannate intorno a questo problema, con risultati assai diversi – né, per quel che si è detto, poteva essere altrimenti. È il mezzo specifico della violen­za legittima, semplicemente, come tale, messo a disposi­zione delle associazioni umane, quello che determina la particolarità di ogni problema etico della politica.

Chiunque scenda a patti con tale mezzo, per qualsiasi fine – e nessun politico può farne a meno – si espone alle specifiche conseguenze che ne derivano. Ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria. Prendiamo coraggiosamente ad e­sempio l’epoca presente. Chi vuoI instaurare sulla terra con la forza la giustizia assoluta, ha bisogno di uno stato maggiore di seguaci, ossia di un «apparato» umano. A questo egli deve prospettare gli immancabili  premi intimi ed esterni – la ricompensa terrena o celeste – perché ab­bia a funzionare. Intimi: vale a dire, nelle condizioni del­la moderna lotta di classe, il soddisfacimento dell’odio e della vendetta, e soprattutto del risentimento e del biso­gno di una affermazione pseudoetica della propria ragio­ne, cioè del bisogno di calunniare e d’infamare l’avversa­rio. Esterni: vale a dire, avventure, vittoria, bottino, po­tenza e prebende. Il successo del capo dipende interamen­te dal funzionamento di questo suo apparato, e perciò anche dai moventi che animano quest’ultimo e non da quelli suoi propri. E dipende altresf dalla possibilità che quello stato maggiore di seguaci -le guardie « rosse », le spie, gli agitatori di cui il capo ha bisogno – abbia dure­volmente garantiti quei premi. Il risultato da lui effettiva­mente raggiunto in siffatte condizioni del suo agire non è rimesso alla sua volontà, bensi gli è prescritto dai motivi – per lo più eticamente scadenti – ai quali s’ispira l’azione dei suoi seguaci e che possono esser tenuti a freno soltan­to finché una fede sincera nella sua persona e nella sua causa animi almeno una parte di quel corpo di seguaci. Non soltanto però questa fede, anche se soggettivamente sincera, è in gran parte dei casi semplicemente la « legitti­mazione » etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende (e su questo non ci lasciamo ingan­nare, poiché neppure l’interpretazione materialistica della storia è una vettura di piazza da prendere o lasciare a vo­lontà, ed essa non si arresta di fronte agli attori delle rivo­luzioni!), ma inoltre, dopo la rivoluzione sentimentale, si torna alla realtà quotidiana tradizionale, e l’eroe creato dalla fede, e soprattutto questa stessa fede, svaniscono, oppure – il che è ancora più importante – divengono ele­mento della fraseologia convenzionale dei mestieranti e dei tecnici della politica. Tale processo si svolge con parti­colare rapidità proprio nella lotta per una fede, in quan­to questa suoI essere guidata o ispirata da capi autentici, dai profeti della rivoluzione. Infatti, come per ogni orga­nizzazione in funzione di un capo, così  anche in questo caso una delle condizioni del successo è data dal processo di spersonalizzazione, di proletarizzazione spirituale nel­l’interesse della « disciplina ». Giunto al potere, lo stato maggiore di seguaci di un capo che abbia combattuto per una fede è perciò particolarmente incline a degenerare in una mediocre schiera di profittatori.

Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il politico di professione, deve esser consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità di fron­te a ciò che egli può divenire per effetto di quelli. Egli en­tra in relazione, ripeto, con le potenze diaboliche che stan­no in agguato dietro ogni violenza. Lgrandi modelli.dì.ca­rità e di bontà, siano essi nati a Nazareth o ad Assisi o nei palazzi reali indiani ,non si. sono serviti del. mezzo politico della violenza, il loro regno « non era di questo mondo », eppure essi hanno operato ed operano in questo mondo, e le figure di Platon Karataev e dei santi dostoevskiani so no pur sempre le immagini che meglio si adeguano a quel modelli. Chi anela alla salute della propria anima e alla salvezza di quella altrui, non le cerca attraverso la politica , la quale si propone compiti del tutto diversi e tali che possono essere risolti soltanto con la violenza.

Il gen!o o.il demone della politica e il dio dell’amore – anche il Dio  cristiano nella sua forma ecclesiastica – vivono in un inti­mo reciproco contrasto che può ad . ogni momento erom­pere in un conflitto insanabile. Ciò era noto agli uomini an­che all’epoca del dominio temporale della Chiesa. Firenze veniva reiteratamente colpita dall’interdetto – che aveva allora per gli uomini e per la salute della loro anima una portata ben più grave che non la « fredda approvazione >~ (per dirla con Fichte) del giudizio morale kantiano – ma l suoi cittadini continuavano a combattere contro lo Stato della Chiesa. Ed è in rapporto a simili situazioni che Ma­chiavelli, in un bel passo delle Storie Fiorentine - se non erro – mette in bocca a uno dei suoi eroi parole di lode ver­so quei cittadini i quali pongono la grandezza della loro città più in alto della salute della loro anima.

Se alle parole: città nativa o « patria» – che talvolta possono anche non essere per tutti equivalenti – sostituite « l’avvenire del socialismo» o anche della « pacificazio­ne internazionale », avrete posto il problema nei suoi. ter­mini attuali. Tutto ciò, infatti, a cui si tende con I’azione politica, che opera con mezzi violenti e attraverso l’etica della responsabilità, mette in pericolo la «salute dell’ani­ma ». Ma se si persegue tale salvezza con la pura etica del­la convinzione in una guerra di religione, la si espone a un danno e a un discredito che si protraggono per generazio­ni, in quanto manca la responsabilità delle conseguenze. Giacché in questo caso chi agisce è ignaro di quelle poten­ze diaboliche che entrano in gioco. Esse sono inesorabili e creano alla sua azione, e anche a lui nel suo intimo, conse­guenze alle quali egli resta abbandonato senza difesa ove non ne abbia chiara visione. « Il diavolo non è nato ieri ». E non è agli anni, non all’età, che intende riferirsi l’ada­gio: «Bisogna perciò diventar vecchi per capirlo ». Nem­meno io ho mai accettato di esser sopraffatto in una di­scussione in forza della data del certificato di nascita; ma d’altro canto, il semplice fatto che uno abbia vent’anni e che io superi i cinquanta non può tutto sommato indurmi a considerare questa circostanza come un merito davanti al quale dovrei prosternarmi in venerazione. Non l’età conta; bensl Io sguardo addestrato a scrutare senza pre­giudizi nelle realtà della vita, la capacità di sopportarle e l’intima maturità di fronte ad esse.

 

Invero, la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione. Ma se si debba seguire l’etica della convinzione o quella della responsabilità, e quando l’una o quando l’altra, nessuno è in grado di determinarla.

 

Una cosa sola si può dire: se in questi tempi di agitazione, che voi non credete «sterile» – ma l’agitazione non è sempre e com­pletamente passione genuina -, se improvvisamente il po­litico che si ispira all’etica della convinzione (Gesinnungs­politiker) crede di tagliar la testa al toro dicendo: «Stu­pido e volgare non sono io ma il mondo, la responsabilità per le conseguenze non concerne me ma gli altri al cui servizio io lavoro e la cui stupidità e volgarità io finirò con l’estirpare », a ciò io rispondo apertamente che in pri­mo luogo voglio indagare quale sostanza interiore vi sia dietro questa etica della convinzione, e ho l’impressione che in nove casi su dieci si tratti di capi scarichi i quali non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebbriano di sensazioni romantiche. Dal punto di vista umano ciò m’interessa poco e non mi turba affatto. Si ri­mane invece profondamente colpiti quando un uomo ma­turo - non importa se giovane o vecchio d’anni -, il quale senta realmente e con tutta l’anima questa responsabilità per le conseguenze e agisca secondo l’etica della responsa­bilità, dice a un certo punto: «Non posso far diversamen­te, da qui non mi muovo », Ecco un atteggiamento schiet­tamente umano e che commuove. Tale situazione infatti deve certamente potersi verificare in qualunque momento per chiunque di noi non abbia perduto la propria vita in­teriore. Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la «vocazione alla politica» (Beruf zur Politik).

Ebbene, miei egregi ascoltatori, su questo punto vorrei riparlare con voi di qui a dieci anni. Se allora – come pur­troppo per tutta una serie di motivi ho ragione di teme­re – sarà da molto tempo scoppiata la reazione, e di quello che, certo, molti di voi e anch’io –l o ammetto apertamen­te – abbiamo desiderato e sperato, se di ciò poco, forse non proprio nulla, ma, almeno apparentemente, un poco si è adempiuto – il che è assai verosimile e non ne resterò affranto, sebbene il saperlo non possa non costituire un intimo cruccio -, vorrei vedere allora che cosa è «divenu­to », nel senso interiore della parola, di quelli di voi che si sentono ora dei puri «politici della convinzione» (Ge­sinnungspolitiker) e partecipano all’ebbrezza che è il signi­ficato di questa rivoluzione. Sarebbe davvero bello se allora si potesse dire con le parole del sonetto CII di Shake­speare:

 

Our lave was new, and then but in the spring, When I was wont to greet it with my lays;

As PhiIomel in summer’s front doth sing, And stops her pipe in growth 01 riper days ‘.

(«L’amor nostro era giovane, nella sua primavera, I Quando l’andavo celebrando in rima: I COSI canta Filamela al limitar d’estate, I Ma la sua gola chiude quando il tempo è maturo» [trad. G. Melchiori].

 

Ma le cose non sono a questo punto. Non abbiamo da­vanti a noi la fioritura dell’estate, bensi per prima cosa una notte polare di fredde tenebre e di stenti, qualunque sia il gruppo a cui tocchi ora la vittoria dal punto di vista esteriore. Giacché dove è il nulla, ivi non solo l’imperato­re ma anche il proletario ha perduto i suoi diritti. Quando questa notte andrà lentamente dileguandosi, chi sarà an­cora vivo di coloro la cui primavera ha avuto apparente­mente una fioritura cosi rigogliosa? E che ne sarà divenu­to, interiormente, di tutti loro? Amarezza e avvilimento, oppure un’ottusa accettazione del mondo e della profes­sione, o ancora – terza ipotesi e non la più rara – fuga mi­stica dal mondo per chi ne ha avuta l’inclinazione o – peg­gio e più spesso – per chi vi si getta per seguire la moda? In ognuno di questi casi io trarrò questa conseguenza: co­storo non erano maturi per la loro azione, né per il mondo quale è realmente né per la sua realtà quotidiana; non hanno avuto, oggettivamente ed effettivamente, nel senso più intimo, la vocazione per la politica, a cui si credevano chiamati. Avrebbero fatto meglio a praticare schiettamen­ii te e semplicemente la fratellanza da uomo a uomo e per il f resto a dedicarsi concretamente al lavoro quotidiano.

La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discerni­mento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non ver­rebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’im­presa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un sen­so molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia l’uno né l’altro, deve foggiarsfq:;reTI”a tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di por­tare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuoI offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: «Non importa, continuiamo! », solo un uomo siffatto ha la «vocazione» (Beruf) per la politica.

 

 

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