Nuove indipendenze per una nuova Europa, di Franciscu Sedda
(dal sito di SARDEGNA DEMOCRATICA)
Nuove indipendenze per una nuova Europa,
Nel 2014 la Scozia, governata dal 2007 dal SNP, il partito nazionale scozzese, celebrerà un referendum per l’autodeterminazione nazionale. La Catalogna, dopo l’impressionante manifestazione dell’11 di settembre, con un milione e mezzo di persone (di tutti i partiti, eccetto la destra spagnola del Partido Popular) in piazza a manifestare dietro lo slogan “Catalogna, il nuovo Stato d’Europa”, è sempre più vicina alla possibilità di indire un proprio referendum d’autodeterminazione. E tutto questo avviene in piena, drammatica, crisi europea.
Non è un mistero che le crisi siano dei grandi acceleratori dei processi sociali. Nel bene e nel male. Chi non ricorda la profonda riconfigurazione geopolitica avvenuta dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi del mondo sovietico? In quel momento situazioni che apparivano bloccate, se non eterne, si rimisero in movimento: si trattò di una fase di riapertura dei giochi che in alcuni casi portò a riarticolazioni drammatiche delle scenario geopolitico ma che in altri casi avvenne in modo pacifico, addirittura gioioso. Chi non ricorda la “Singing Revolution”, la rivoluzione cantata che portò all’indipendenza della Lituania, della Lettonia, dell’Estonia? Chi non ricorda quelle milioni di persone che si tenevano per mano formando una catena umana che attraversava e univa i tre paesi mentre si rendevano indipendenti?
Ecco, oggi noi ci troviamo esattamente in questa situazione di apertura. E come sardi dobbiamo capire cosa fare. E farlo! Prima che il treno della storia ci passi davanti senza fermarsi.
Da un lato infatti la crisi europea e le scelte di politica economica e sociale che l’Unione Europea ha di fatto dettato a governi e paesi hanno rinfocolato, in molti Stati esistenti, un nazionalismo sciovinista ed anti-europeo, una destra xenofoba e intollerante. Dall’altro lato invece, oltre a ridar senso a una nuova politica socialdemocratica, che sia capace di non piegarsi davanti all’individualismo egoista, alle disuguaglianze sociali sempre più estreme, ai miti di un mercato finanziario sempre più umorale, speculativo, spietato, la crisi europea ha fatto emergere il protagonismo di nazioni senza Stato ma con una lunghissima storia. Una lunghissima storia di nazione, una storia democratica e popolare, come è appunto quella della Scozia e della Catalogna (senza contare ciò che sta accadendo nei Paesi Baschi, dove la nuova coalizione indipendentista basca, Bildu, dopo aver abbracciato la non-violenza ha raggiunto il 26% dei voti – superata solo dallo storico PNV, il partito nazionalista basco – e si candida a scompaginare il quadro elettorale e l’agenda politica alle prossime elezioni).
Ora, il punto è che nazioni storiche come la Scozia e la Catalogna, in cui a dominare è un indipendentismo non nazionalista (con mio grande piacere e sorpresa questa denominazione da me coniata anni fa per dar corpo a un nuovo indipendentismo sardo è stata esplicitamente adottata anche in Catalogna) o se si preferisce un patriottismo civico, puntano ad entrare in Europa piuttosto che uscirne o chiamarsi fuori. Di fatto il nuovo indipendentismo che aleggia sull’Europa, e che in Sardegna non ha ancora dato tutti i suoi frutti, è uno dei principali fattori di dinamismo, ripensamento e rivilitalizzazione dell’idea d’Europa nel suo senso più alto e nobile, ovvero come spazio di pace, giustizia, diritti. Per i popoli e fra i popoli.
Non sorprende dunque che all’indomani della manifestazione di Barcellona importanti membri dell’Unione Europea si siano affrettati a fare dichiarazioni e previsioni che aprono scenari importanti. L’indipendentismo europeista della Catalogna – e con essa della Scozia – ha portato infatti, proprio in queste ore, il Presidente della Commissione Europea José Barroso a rilanciare l’ipotesi di trasformare, nel medio periodo, l’Unione Europea in una federazione di Stati-nazione. Si tratterebbe dunque di superare un’unione tecnocratica, finanziaria, distante dalla dimensione democratica e popolare, per tentare con coraggio la via degli Stati Uniti d’Europa, in cui una parte della sovranità verrà condivisa a livello europeo ma in cui i cittadini e i popoli, per mezzo dei propri Stati, potranno far sentire e far valere la propria voce. Certo, gli anti-europeisti non salteranno di gioia o forse rabbrividiranno, ma per chi crede in una visione indipendentista per la propria terra e federalista nel contesto europeo non si può che essere quantomeno intrigati da questo riaprirsi del discorso sul destino d’Europa, e soprattutto, non si può che essere positivamente colpiti del fatto che tutto questo avvenga anche sotto la spinta del nuovo indipendentismo che la attraversa.
Viviamo dunque un momento di grande apertura, in cui la ridefinizione dello spazio europeo potrebbe andare di pari passo con l’emergere, il formarsi e l’affermarsi di nuovi Stati indipendenti e europei. Un percorso difficile, un percorso incerto, che tuttavia altri stanno intraprendendo. E noi sardi? E la Sardegna?
Una grande occasione potrebbe essere vicina ma la Sardegna rischia – nonostante quel 40% dei sardi a favore dell’indipendenza e quel 90% a favore della sovranità fiscale recentemente attestato dalla ricerca dell’Università di Cagliari – di non saperla o poterla cogliere.
E non servirà cercare colpevoli – in anticipo o a posteriori – per evitare l’omicidio di un grande sogno di popolo, di una grande occasione di crescita e responsabilità collettiva, di una potente affermazione di sé, davanti alla propria storia e davanti al mondo.
Si tratta, se lo vogliamo, per chi lo vuole, di lavorare per farla accadere questa cosa così complicata che si chiama indipendenza nazionale.
Scozia e Catalogna in tal senso ci insegnano alcune cose.
La prima è che non ci può essere indipendenza, autodeterminazione, affermazione di popolo senza coscienza nazionale, senza riconoscimento di sé come diversi (benché affratellati) con tutti i popoli vicini. Finché avremo paura di pensare o dire che la Sardegna non è Italia – finché penseremo che sia un’offesa agli italiani e che sia dunque meglio chiamarli “continentali”! – non ci sarà uscita dalla sudditanza morale e materiale in cui ci siamo rovinosamente cacciati. In Italia si può essere socialisti o liberisti, di sinistra, o moderati o di destra, ma sicuramente non si è né tedeschi né francesi. In Catalogna si può essere indipendentisti o federalisti, ma sicuramente si è catalani e non spagnoli. Perché in Sardegna non si dovrebbe poter essere semplicemente ed umanamente sardi?
Il secondo insegnamento è che la questione politico-culturale va di pari passo con quella fiscale. In molti scordano che il referendum scozzese sulla devolution, che ha rilanciato il cammino verso l’indipendenza, prevedeva due quesiti: uno era se la nazione scozzese dovesse avere un suo parlamento e il secondo era se questo parlamento dovesse avere ampia potestà legislativa in materia fiscale. La stessa manifestazione di Barcellona prende slancio a partire da un contenzioso sulla gestione del fisco e delle risorse che assomiglia molto alla nostra “vertenza entrate” e che non a caso ha portato ad ipotizzare, fra le altre cose, la costituzione di un’agenzia delle entrate tutta catalana, proprio come io e tantissimi altri – diciamo 31.000, viste le firme raccolte – abbiamo fatto in Sardegna con l’azione popolare, trasversale e unitaria promossa dal Fiocco Verde per la costituzione dell’Agenzia Sarda delle Entrate.
In terzo luogo, se si esce fuori dalle rappresentazioni semplificate che sono state date di queste vicende, ci si renderà conto che la Scozia e la Catalogna hanno risposto alle proprie difficoltà e alle proprie crisi prendendosi più responsabilità, compresa quella di promuovere la propria cultura e gestire la propria ricchezza, fino al punto di prospettare la presa di quel massimo di responsabilità che è l’indipendenza. Insomma, tutto hanno fatto tranne che chiedere ad altri di risolvere i propri problemi o di decidere al proprio posto quale futuro sociale ed economico dare alle rispettive terre, come troppo spesso accade in Sardegna, quasi per automatica assuefazione all’idea che tutto si faccia a Roma, che tutto ciò che è importante e decisivo per i sardi possa e debba venire dall’Italia.
Infine, Scozia e Catalogna ci ricordano che indipendentisti si diventa. Come scordare che solo cinquanta anni fa lo Scottish National Party praticamente non esisteva e che per lungo tempo le sue stesse posizioni indipendentiste non risultavano chiare? E come non provare un sussulto davanti alle parole di oggi del presidente catalano Arthur Mas? Fino a ieri non si era mai detto indipendentista, oggi ha dichiarato che la via verso l’indipendenza è aperta, che davanti alla volontà popolare così potentemente fattasi presente per le vie di Barcellona egli non può esimersi dal dare il suo contributo alla difficile impresa di costruire uno Stato catalano che presto o tardi diventerà indipendente ed entrerà in Europa.
Indipendentisti si diventa. Se si sa cogliere e mettere a frutto il meglio del proprio popolo, anche quando sembra introvabile. Sardi si diventa. Se si ha coscienza della propria storia di nazione e dei propri interessi come nazione. Indipendenti si diventa, se c’è una politica indipendentista, anche minoritaria nei numeri ma maggioritaria nelle idee e nella passione, capace di mobilitare la gente, offrire soluzioni, aprire la strada, tracciare la rotta. Repubblica si diventa con il cambiamento e la crescita collettiva, con il contributo di ciascuno e con la partecipazione massiva, con il miglioramento e la trasformazione della classe dirigente. Ognuno può e deve fare la sua parte. Ora più che mai. Basterebbero centomila persone per l’indipendenza e la sovranità, centomila persone serene e sorridenti per le vie di Cagliari, per smuovere i cuori e le coscienze. Impossibile?
Forse è giunto anche per noi il tempo di scendere per strada, sulla nostra strada. E affrettando il passo metterci in cammino verso l’indipendenza e verso l’Europa.
12/09/2012