Alcoa, quegli operai in cima al silo con il volto nascosto e l’elmetto Cgil, di Adriano Sofri
La saggezza di Napolitano e il nonsense del Sulcis, di Alessandro De Nicola, Basta gettare miliardi in quel buco nero delle miniere del Sulcis (da La Repubblica, 10 settembre 2010)
Alcoa, quegli operai in cima al silo
con il volto nascosto e l’elmetto Cgil, di Adriano Sofri
(da La Repubblica, 10 settembre 2010)
La protesta a 66 metri di altezza, o quella nel fondo di una miniera, costringe a porsi il problema degli ‘invisibili’, della dignità del lavoro, dei nuovi disperati. Perché i lavoratori di oggi sono come i detenuti di ADRIANO SOFRI
LA FOTOGRAFIA, quella o una simile, l’avete vista tutti ieri sui giornali. Ci sono i tre operai dell’Alcoa 1 all’interno della piccola tenda nella quale hanno trascorso 4 giorni (e notti, soprattutto) a 66 metri di altezza, sopra una vecchia torre cisterna. Indossano le tute da lavoro. Hanno i visi coperti da passamontagna neri, come quelli dei Nocs (non so voi: io ho appreso solo in questa circostanza che si chiamano mephisto) o dei banditi. E poiché hanno inalberato uno striscione che dice: DISPOSTI A TUTTO, qualcuno ha pensato di assistere a una versione inedita di passaggio alla clandestinità, condotto sotto tutti i riflettori.
Che cosa vogliono dire quei passamontagna neri? Loro sapranno spiegarlo, noi spettatori distanti intanto possiamo chiederci che cosa dicono a noi. E prima di tutto che in quel travisamento non c’è niente che faccia credere a un’intenzione di mascherare il proposito di delitti imminenti. Chi siano quei tre lavoratori lo sanno benissimo i loro compagni, la polizia, i giornalisti e chiunque voglia saperlo. Dunque non sono la pattuglia d’avanguardia di una nuova genia di clandestini armati.
Se non ci si accontenta di guardare le facce coperte, si resterà colpiti subito dopo dal fatto che quei lavoratori in lotta hanno scelto anche di tenere in testa i caschi di sicurezza, e su un casco si legge distintamente, accanto alla sigla dell’Alcoa, quella della Cgil. Vorrà dire qualcosa
anche questa combinazione di una scelta estrema - non nel vecchio senso dell’estremismo politico, ma in quello della messa in gioco della propria incolumità e della vita stessa - e della rivendicazione di un’appartenenza sindacale. Non importa che la Cgil approvi o no, o dica di approvare e in realtà tema sommamente, o chissà che altro, una simile forma di lotta: la Cgil è anche quell’operaio a 66 metri, e lui l’ha fatta figurare nella stessa fotografia del passamontagna e delle mani conserte, chiuse in attesa di qualcosa.
Dice forse, quella fotografia, che i tre e i tanti loro compagni che li stanno aspettando a terra, sono davvero “disposti a tutto”, e al tempo stesso che sono persone normali, che lavorano e credono nella dignità - nell’”onore”, hanno detto - del lavoro. Dice forse che a furia di essere trattati da invisibili (“invisibili”, già si definivano così anche gli operai dell’Ilva, e anche i cittadini dei Tamburi, prima che si accendessero le luci) si rendono deliberatamente invisibili, così che chi guarda sia finalmente costretto a chiedersi che faccia abbiano.
Dice forse che si sta facendo retrocedere a tappe forzate la classe operaia agli stadi dai quali uscì lentamente e a un prezzo di sangue, i fuorilegge che diventarono operai agli operai che si vogliono far tornare fuorilegge. Dice che non si tratta della messinscena, né di un modo drammatico di partecipare dell’universale aspirazione ai riflettori, ma di una vera tragedia. Uno dei tre che tiene sul viso il passamontagna come per dichiararsi uguale agli altri, a innumerevoli altri, nel Sulcis e molto più lontano, ha rischiato davvero su quella torre e ancora ieri, alla partenza ennesima per una piazza di Roma. “Chiamaci disperati”, hanno detto a Paolo Berizzi, che sta raccontando qui la loro vicissitudine. “Disperato 1″, “Disperato 2″, “Disperato 3″: a che numero si fermerebbe questa nomenclatura, anche solo per la Sardegna?
Chi guardi poco meno che distrattamente quella fotografia rinuncerà subito a vederci un annuncio di violenza oscura, e proverà un moto forte di solidarietà e di simpatia per quel quarto stato che vuole continuare ad andare a testa alta. Ma bisogna andare avanti, nella riflessione e nelle sue conseguenze. Cominciò qualche anno fa, un genere di ricorso a forme di lotta che richiamassero spettacolarmente l’attenzione, e qualcuno, per sciocchezza o per zelo combattivo, proclamò che stava facendosi strada un nuovo modo di lottare, corrispondente alle condizioni nuovissime della società: gli immigrati senza nome e senza polpastrelli, i precari istruiti, colti, impegnati e buttati via.
La lotta cominciò ad arrampicarsi sui tetti, seguita dalle telecamere. Provai a dire allora, solo per cognizione di causa, che quelle nuove iniziative erano anche una estensione sociale di altre vecchissime, come quelle dei detenuti. Che i detenuti anche loro, ormai tanto tempo fa, avevano scoperto di poter lottare, ma che per loro le vie d’uscita orizzontali erano sbarrate, e però, oltre che scavar cunicoli col cucchiaio, potevano salire sui tetti, e guardare finalmente il cielo e farsi guardare da terra. Sventolavano lenzuoli, avevano i torsi nudi, tenevano un fazzoletto sul viso - anche allora, non perché pensassero di diventare irriconoscibili.
Una frontiera molto sottile separa la scelta nonviolenta di testimoniare con il proprio corpo dalla necessità disperata di usare la sofferenza del proprio corpo perché non resta altro. L’autolesionismo è affare quotidiano delle galere, decine di migliaia di detenuti si tagliano le vene ogni anno, e i dati finiscono nelle statistiche non lette del ministero della Giustizia.
L’altro giorno, quando ho visto un minatore della Carbosulcis 2 tirare fuori il temperino e tagliarsi davanti a compagni e telecamere, un uomo lucido ed esperto, un capo operaio, ho riconosciuto un gesto visto tante volte. Quel capo operaio aveva messo insieme a suo modo cose inconciliabili, come il casco con la sigla sindacale e il passamontagna. I lavoratori si battono oggi come detenuti in un carcere, come autoreclusi in un fondo di miniera minato: c’è di che interrogarsi, no?
Giorni fa un commento di Di Vico sul Corriere notava come le “forme estreme” di lotta “taglino fuori” i sindacati, che ne devono essere preoccupati. Vorrei prendere la cosa dall’altro capo, e dire che i sindacati debbano allarmarsi all’estremo di “tagliare fuori” forme di lotta che non sono più collettive alla vecchia maniera, ma non sono nemmeno “individualiste”. E che mostrano, se ancora se ne dubitasse, come sia andata svanendo la distinzione, e ancor più l’opposizione, fra lavoratori “garantiti” e precari. Andare a testa alta, è il programma comune. Ora si dice: “Metterci la faccia”, non è granché, spesso chi lo dice ha una faccia impresentabile. Quanto a perdere la faccia, non saprei riconoscere in una fotografia la fisionomia e l’abbigliamento di uno solo dei padroni multinazionali dell’Alcoa, né di chi ha trattato con loro le tariffe elettriche agevolate, eccetera. A loro modo, sono felicemente invisibili.
(10 settembre 2012)
La saggezza di Napolitano e il nonsense del Sulcis, di Alessandro De Nicola
Basta gettare miliardi in quel buco nero delle miniere del Sulcis
Quando a fine agosto il presidente della Repubblica emise un comunicato di sostegno morale ai minatori del Sulcis che si erano calati nelle viscere della terra minacciando di restarci fino alla soluzione dell’annosa questione che li vede coinvolti, ci furono due reazioni. La prima, quella ufficiale, dei telegiornali o di molti quotidiani, riferiva in bella evidenza la vicinanza del presidente ai lavoratori; la seconda, più clandestina e spesso in rete, si lamentava di quella che sembrava un’ingerenza del Quirinale in una vertenza sindacale, espressa attraverso una posizione populista a favore dei minatori il cui dramma era a tutti ben presente. Credo che entrambe le reazioni fossero errate. Se si legge per intero il comunicato del presidente si scoprono delle parole interessanti.
Il capo dello Stato intravede infatti “la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di sviluppo seguite nel passato”. Quindi il continuo flusso di finanziamenti che ha divorata miliardi di euro è stato sbagliato. Inoltre: “Non mancherà da parte di nessuno, e tanto meno da parte delle forze del lavoro in Sardegna, la realistica e coraggiosa consapevolezza dell’ esigenza di trovare per i problemi così acutamente aperti soluzioni sostenibili dal punto di vista della finanza pubblica e della competitività internazionale, in un mondo radicalmente cambiato rispetto a decenni or sono”. Eccellente. Ronald Reagan non avrebbe saputo fare di meglio, vale a dire esprimere la comprensione per la condizione dei lavoratori e delle loro famiglie, membri di quella comunità italiana che Napolitano rappresenta, ma allo stesso tempo parlare il linguaggio della verità e indicare quali devono essere i capisaldi delle future cosiddette” politiche industrìali” del nostro paese.
Ripercorriamo l’amara storia delle miniere di carbone del Sulcis: l’estrazione iniziò nell’800 ma conobbe un grande impulso a partire dal 1935-1936, quando l’Italia fascista, alle prese con le sanzioni internazionali dovute all’invasione dell’Etiopia, decise di diventare autarchica e cominciò a scavare carbone (e già possiamo immaginare quanto, anche anteguerra, questa scelta fosse antieconomica). Nel dopoguerra, dopo una prima chiusura della miniera, il governo ne affidò la riapertura all’Eni investendo nel 1985 direttamente o indirettamente 712 miliardi di lire (circa 900 milioni di euro del 20l2!) , ma dopo 8 anni, nel1993, non essendo successo niente, l’Enì abbandonò l’impresa. Lo stato prima (con 420 miliardi dell’epoca) e la regione Sardegna poi, intervennero, costringendo l’Enel a comprare elettricità da Carbonsulcis ad un prezzo pari al 222% di quello di mercato, costo riversato in bolletta. Tuttavia, la miniera, che produce un carbone ad alto contenuto di zolfo e quindi meno pregiato, ha un impatto ambientale negativo per l’ecosistema e le sue perdite esorbitanti continuano inesorabili: solo nell’ultimo anno 30 milioni, quasi un’inezia rispetto ai 600 milioni che la Regione ha investito dal 1996 (anno in cui è diventata proprietaria dell’impianto) ad oggi (e che attualizzati al 2012 sfiorano gli 800 milioni).
Ora che si è giunti al redde rationem la speranza sembra risiedere nella costruzione di un impianto di cattura e stoccaggio dell’ anidride carbonica che potrebbe godere dei finanziamenti dell’Unione Europea per circa 300 milioni. Peccato però che i 300 milioni, se concessi, verrebbero sottratti al sito di Porto Tolle vicino Rovigo e così alle proteste dei 500 dipendenti di Carbonsulcis si verrebbero a sostituire quelle dei lavoratori veneti. Inoltre, le stime sul finanziamento pubblico necessario a costruire l’opera prevedono 1,6 miliardi da suddividere in 8 anni, quindi 200 milioni l’anno, senza alcuna garanzia chela miniera diventi profittevole. Una spesa di 400.000 euro l’anno per dipendente!
Ma anche ammesso che ci fossero i soldi disponibili per procedere a questa follia dissipatoria c’è chi pensa che il progetto in sé non vada bene. Il professor Sapelli avrebbe in mente una riqualificazione culturale, trasformando la miniera in un sito di archeologia industriale da far visitare a famigliole con bambini. Altri vorrebbero, basandosi sulle ipotesi contenute nel piano energetico regionale, provare la metanizzazione o il progetto del gasdotto Galsi o la bonifica delle aree minerarie e la valorizzazione del turismo e della nautica. Di fronte ad un caos di questo genere la cui unica certezza sono i miliardi del contribuente gettati al vento negli anni passati e quelli altrettanto certi che lo saranno in futuro, cosa dovrebbe fare chi ha responsabilità di governo? Prima di tutto convincersi che lo Stato aiuta e riqualifica chi perde il posto di lavoro, non le aziende decotte. In secondo luogo che ha ragione Napolitano. Qualunque scelta si compia dovrà portare a “soluzioni sostenibili dal punto di vista della finanza pubblica e della competitività internazionale, in un mondo radicalmente cambiato rispetto a decenni or sono”.