FAGHE SA BOGHE TUA, di Mario Cubeddu
Faghe sa boghe tua
di Mario Cubeddu
Montpellier è grande più o meno come Cagliari. Si trova nella Francia meridionale ed è capoluogo della regione Languedoc- Roussillon. Linguadoca è termine che ci ricorda subito che nella Francia medievale c’erano due lingue e due letterature, quella occitana della grande esperienza dei poeti provenzali e quella della narrativa cavalleresca in lingua d’oil di Chrétien de Troyes. L’occitano apparteneva nell’Ottocento alla parte dalla Francia minacciata dall’affermazione della lingua dello stato francese, quella parlata nella regione di Parigi. Il primo movimento di riscossa delle lingue dei popoli assorbiti dagli stati nazionali europei è cominciata in Provenza con il poeta Frédéric Mistral, premio Nobel nel 1904, fondatore del movimento felibrista che rivendicava la pari dignità della lingua occitana. Una lingua con un passato illustre, quindi, sia per il rilievo dei poeti provenzali, maestri di Dante, Petrarca e di tutta la grande poesia europea, sia per il più recente contributo alla difesa delle letterature che si esprimono nelle lingue dei piccoli popoli d’Europa. Ma veniamo all’oggi. L’inserto cultura e spettacoli de La Gazette de Monpellier del 26 luglio 2012 riporta questa curiosa notizia: si è concluso il processo che opponeva monsieur Hadjadj al comune di Villeneuve- Maguelone. Il primo, il cui cognome indica che egli appartiene al gruppo numeroso dei francesi provenienti dal nord-Africa, aveva denunciato l’amministrazione di quel piccolo centro per aver aggiunto al nome francese della cittadina quello di Vilanova de Magalona, più antico e usato dagli abitanti. Il signor Hadjaji sosteneva nella sua denuncia che: “un cartello ufficiale deve essere scritto nella lingua ufficiale. Altrimenti si apre la porta a non so quale altra lingua.” Che ne so, magari al kabilo delle regioni da cui proveniva. Affermava inoltre che la scritta doppia e bilingue confondesse i guidatori e rendesse pericolosa la guida. Il Tribunale ha dato torto al signor Hadjaji. Non conosciamo le motivazioni della sentenza, sappiamo solo che lo ha condannato a risarcire con 2.000 euro il Comune ingiustamente accusato di mettere in pericolo la guida dei cittadini. Un Tribunale ragionevole, democratico e progressista, certo. In grado di difendere il diritto a preservare elementi di identità storica di cui una società si sente portatrice non solo in nome del passato, ma anche del presente e del futuro. Una sentenza nata dai valori migliori su cui si fondano politica e società moderne: libertà, fraternità, uguaglianza. Nella centralistica Francia, veniamo a sapere, l’occitano viene insegnato nelle scuole, dalle elementari alle superiori, ed è oggetto di costante attenzione da parte del mondo intellettuale e accademico. Nonostante questo, la lingua antica è sotto assedio e in pericolo di fronte all’assalto, non più soltanto delle pretese egemoniche della lingua nazionale, ma soprattutto del processo di omologazione globale sotto il segno del dominio anglosassone. Questa vicenda dice qualcosa anche a noi sardi nei giorni in cui compare la notizia che i deputati sardi non hanno mosso un dito per difendere di fronte all’Europa il diritto dei bambini e dei ragazzi sardi di conoscere e studiare la lingua del popolo di cui fanno parte. La notizia non ha provocato una reazione particolare tra gli intellettuali e nei mezzi di comunicazione della Sardegna. Questo perché in gran parte di essi prevale la sindrome che potremmo chiamare nordafricana, se ci riferiamo all’aneddoto francese, o da Brigata Sassari, se vogliamo restare all’interno della vicenda storica sarda. Il sardo di oggi è un esule in patria, un emigrato accolto nella terra dove sono sepolti i suoi antenati. Che egli ignora, di cui non sa nulla. Se queste tombe venissero distrutte e la polvere dei padri dispersa al vento, per usare le immagini del Foscolo, nessuna voce si leverebbe a lamento. Il sardo da gran tempo ha alzato le vele e se n’è andato. Il sardo residente si è trasferito per andare a vivere come ospite in casa d’altri. Il sardo costretto all’emigrazione immagina vanamente che chi è restato in Sardegna difenda anche il suo amore e la sua nostalgia. Il momento cruciale della storia moderna dei sardi è stato quello in cui ha visto che poteva essere riconosciuto, e forse amato, solo se si fosse dimostrato capace di rinunciare a tutto, persino alla vita, per difendere interessi che non lo riguardavano. Il sardo diventa italiano solo quando “il sangue sparso” nelle trincee porta finalmente l’Italia a riconoscere che nell’isola abitano forse degli esseri umani e non degli organismi inferiori condannati dalla natura all’inerzia e alla brutalità. E quindi anche l’autonomia sarà intesa in sostanza non come conquista di libertà, ma come una nuova opportunità di “rinascita” concessa per ulteriori meriti di servitù, come lo svanire di qualsiasi ipotesi indipendentista alla fine della seconda guerra mondiale. Molti degli algerini che vivono oggi nella Francia meridionale sono figli dei soldati nordafricani che continuarono a combattere nell’esercito francese anche durante la lunga e sanguinosa guerra d’indipendenza. Mentre i loro fratelli algerini venivano uccisi e torturati in prigione per conquistare la libertà, essi continuavano a ricevere il salario della servitù. Naturale quindi che abbiano dovuto imbarcarsi in tutta fretta insieme all’esercito sconfitto. Da allora si sono sentiti i più francesi dei francesi. Che devono avere un solo Stato, una sola lingua, un solo esercito. Anche gran parte dei sardi si sono arruolati da gran tempo. Chi ha insegnato nella scuola sarda non può non avere avuto almeno qualche volta la sensazione di essere parte di un meccanismo di indottrinamento e di privazione di identità. La scuola sarda ha contribuito e contribuisce in maniera decisiva a un’opera di omologazione antropologica prima che culturale. Naturale quindi che debba considerarsi inaccettabile la sola idea che in essa entri l’insegnamento della lingua sarda. Questa rischierebbe di far smarrire la direzione, porterebbe a porsi delle domande su tutto quello che si fa a scuola, indurrebbe a collegare le ore che si trascorrono sui banchi a ciò che avviene fuori. Alla terra devastata dai metalli pesanti, dall’uranio, dall’inquinamento chimico; all’esproprio dei suoli, dell’aria, del mare, in nome del profitto delle multinazionali dell’energia alternativa e della chimica verde; a un sistema industriale totalmente dipendente caratterizzato dalla fragilità e dalla difficile sostenibilità ambientale proprio delle realtà coloniali; a una società senz’anima perché ha accettato un destino di inevitabile estinzione per paura di correre l’azzardo della libertà. Ogni giorno i sardi di oggi,come quelli di ieri, sono posti di fronte alla scelta di come vivere, di come educare i figli, delle piccole scelte quotidiane. E ogni giorno si può fare la scelta che riconferma lo stato di dipendenza. Oppure ogni giorno si può fare una scelta che ci faccia sentire più maturi e più liberi. Forse è il caso che per sé, per i propri figli, si cominci a pensare alla scelta giusta da fare. Tra le tante scelte in un giorno, almeno una sia dedicata alla libertà. Mancare siet cun d’unu foeddu sardu. Fae sa ‘oghe tua, narant in bidda mia.