Merkel, la Cina e noi di ROMEO ORLANDI (da Europa, 14 giugno 2012)
Merkel, la Cina e noi, di ROMEO ORLANDI (da Europa, 14 giugno 2012)
Il coro contro Angela Merkel rischia di diventare stonato. Tante, troppe ugole cantano la stessa canzone: il motivo è valido, ma non c’è voce comune. Prevale lo stesso ritornello che si trasforma in mantra:la crescita è meglio del rigore, Keynes è più utile di Friedman, Washington più a sinistra di Berlino. È tutto vero, ma è scontato, facile, comodo. Angela Merkel non è la massaia ostinata che viene dipinta, l’esempio di un’ottusità tedesca che non si piega a nuovi scenari. Rappresenta invece degli interessi che hanno la dignità di idee che li sorreggono. Molto probabilmente esse sono sbagliate, inefficaci e controproducenti.
La Cancelliera merita le critiche le sono rivolte. La sua visi rigida la lascia sola, in minoranza anche nel suo paese. Non è tanto il terrore di Weimar che la ispira, quanto un moralismo coniugato con diffidenza. Ragiona da contabile mentre il mondo avrebbe bisogno di visione. Un paese così grande dovrebbe confinarsi nel cullare i propri meriti, disprezzando i cedimenti altrui. La Kanzlerin sembra non capire che il bene dell’Europa – Grecia compresa – è quello della Germania, che un paese virtuoso non può resistere senza salvare i vicini che naufragano. Non può arroccarsi nella diversità, mentre le banche tedesche, le aziende, gli investitori hanno bisogno di un mondo non solo in regola ma anche in marcia. Dove andrebbero a finire altrimenti le loro merci, i loro capitali?
Tuttavia non c’è soltanto rigore nella politica della Merkel. Non tutte le critiche che la colpiscono sono giustificate. Innanzitutto avere un’economia sana è un merito, non una fonte d’invidia. Mentre la produzione viene spostata in Oriente, la Germania continua ad essere un grande paese manifatturiero. La Cina diventa il primo esportatore al mondo, ma Berlino continua a spedire manufatti di qualità verso Pechino.
n Dragone invade con le sue merci il mondo, ma la Germania vanta un attivo commerciale con la Cina. Contemporaneamente la Volkswagen produce più autovetture a Shanghai che a Stoccarda. La formula è apparentemente semplice: basta produrre meglio della Cina. Ci sono alle spalle decenni di politica industriale, dove le grandi aziende si sono modernizzate ed hanno inanellato profitti. Sono state utili le riforme sul mercato del lavoro, con un coinvolgimento degli imprenditori e dei sindacati sotto la regia di un governo serio e efficiente. Hanno giovato i fondi per la ricerca, il trasferimento intelligente di produzioni nell’Est Europa, il consolidamento di un regime democratico. Tutto questo, ovviamente, è merito della Germania, non di Angela Merkel.
In altri paesi d’Europa la politica industriale è stata cancellata, l’istruzione penalizzata, la contabilità truccata. L’economia cresceva con il debito pubblico e la bolla immobiliare, i populismi . si affermavano sfiorando il fascismo. Deve la Germania aiutare questa Europa? Sì, se non lo facesse sarebbe egoista e suicida. Ha titolo questa Europa per chiedere aiuto aUa Germania? Non sempre e soltanto a certe condizioni. La Germania propone una tassazione sui trasferimenti finanziari, che dovrebbe colpire il mondo anglosassone e uno dei cardini del liberismo. La sfera politica potrebbe assumersi una responsabilità forte, sfidando l’onnipotenza dei mercati e dando ossigeno alle casse degli stati. Eppure la proposta ristagna.
Berlino propone un rafforzamento delle istituzioni europee alle quali cedere porzioni di sovranità nazionale. “Più Europa” sarebbe un antidoto possibile ai vertici inconcludenti che l’attuale architettura causa. La Grecia è stata condannata da se stessa, dalla visione miope della Merkel che l’ha sacrificata alle elezioni regionali del suo paese, da istituzioni europee imbelli. Bruxelles potrebbe assumere un ruolo più incisivo, senza essere bloccata dagli interessi nazionali. Sono questi ultimi a frenare ogni avanzamento. Sarebbe necessario ridistribuire i pesi. ma ogni cambiamento darebbe spazio a Berlino, sottraendolo a Parigi e Londra.
Questo è il vero nodo: la resistenza anglo-francese a riconoscere che il conflitto è terminato quasi 70 anni fa e che un’interminabile dopoguerra sembra giunto a conclusione. Si chiede – giustamente – all Germania di assumersi maggiori responsabilità, ma senza conferirle i poteri che la sua dimensione giustifica. Il paese è necessario economicamente, ma ancora non gli vengono concessi gli strumenti politici, istituzionali ed ovviamente militari che sarebbero necessari ad intervenire. Si invoca generosità per uscire dall’emergenza, non per rivedere i meccanismi che a quell’emergenza hanno condotto. In questo quadro la miopia della Cancelliera trova argomenti a sua difesa, che però non l’assolvono. Si intestardisce a non comprendere che il rigore non è antagonista allo sviluppo, ma soltanto la sua premessa. L’ha trasformato in un totem di seconda mano, mentre sarebbe stato meglio usarlo come trampolino. Bisognerebbe renderla più malleabile, senza tuttavia rimpiangere l’inflazione, il debito pubblico, la finanza creativa.