L’America Latina: democrazia e rivoluzione? di Enrico Lobina
In questi mesi la Fondazione Sardinia ha chiamato a dibattere sul futuro della Sardegna. Con il pezzo che propongo parlo dell’America Latina, ma in realtà vorrei discutere di una nuova forma di democrazia. Anche per la Sardegna.
Quando si parla di politica estera e di esempi di processi politici, vi sono due atteggiamenti. Il primo è “bisogna fare come in…”. Il secondo è quello di chi con veemenza sostiene che “dobbiamo pensare a noi stessi, sono situazioni troppo diverse”. Entrambi gli atteggiamenti sono scorretti.
Vi sono civiltà e modalità di azione politica e sociale più o meno vicini. Vi sono realtà organizzate più o meno interessanti.
L’America Latina: democrazia e rivoluzione?
Enrico Lobina
Quando si parla di politica estera e di esempi di processi politici, vi sono due atteggiamenti. Il primo è “bisogna fare come in…”. Il secondo è quello di chi con veemenza sostiene che “dobbiamo pensare a noi stessi, sono situazioni troppo diverse”. Entrambi gli atteggiamenti sono scorretti.
Vi sono civiltà e modalità di azione politica e sociale più o meno vicini. Vi sono realtà organizzate più o meno interessanti. Chi, come la Sardegna e l’Italia, è per molti versi all’anno zero dal punto di vista della dialettica sociale e democratica, dovrebbe avere un po’ più di umiltà. Siamo stati la terra di Gramsci e Berlinguer, ma oggi è utile guardare al di fuori di noi.
C’è chi sostiene che l’America Latina sia trent’anni indietro. Da diverso tempo sono convinto che, per coloro ai quali stanno a cuore gli interessi dei più deboli, sia qualche decennio avanti.
Diana Raby è una professoressa di Liverpool, specializzata in America Latina. Ha pubblicato “Democracy and Revolution – Latin America and Socialism Today” (Democrazia e rivoluzione – America Latina e socialismo oggi). Un libro illuminante, in un periodo in cui nessuno analizza la politica estera in modo serio.
Raby sostiene che negli ultimi venti anni è accaduto un fenomeno assolutamente nuovo in America Latina: i subalterni hanno saputo utilizzare e modificare le forme di democrazia formale a loro disposizione. E hanno vinto. Brasile, Bolivia, Venezuela, Ecuador, Argentina, Paraguay. Anche l’Honduras, se non ci fosse stato un colpo di stato finanziato dagli Usa, che ha ribaltato l’esito elettorale. Cuba merita un discorso a parte, che qua non riprendiamo.
Per Raby la “democrazia in America Latina è associata, a livello popolare, con i diritti collettivi e con il potere del popolo, non solamente con le istituzioni rappresentative ed il pluralismo liberale”. La “democrazia liberale”, invece, è “l’espressione politica preferita del capitalismo avanzato”. Si riprende il concetto di “democrazia delegante”. La “democrazia delegante” è un processo per cui chiunque vinca le elezioni alla presidenza, in qualunque modo si svolgano le elezioni, è titolato a governare come lei o lui vedono le cose. Punto. Tutto il resto non esiste.
L’America Latina sta abbandonando questa forma di “democrazia liberale”. L’esempio del Venezuela è paradigmatico. Il Venezuela è stato una “democrazia liberale” per 40 anni, prima della prima elezione di Hugo Chavez nel 1998. Prima era indicata dagli Usa come modello da seguire. In realtà, i partiti, nominalmente diversi, che si sono succeduti in 40 anni al governo, hanno attuato sempre le stesse politiche: quelle degli USA e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Questo circolo vizioso è stato superato da modelli politici alternativi, che garantiscono una maggiore partecipazione da parte della maggioranza povera. Sono più democratici, ma meno liberali.
Tre sono gli elementi in comune dell’esperienza latinoamericana di questi ultimi 15 anni. Il primo è un movimento popolare di massa autonomo, anche quando ci sono “governi amici”. Il secondo è una forte leadership, che nasce dal popolo e che guida il popolo. Il terzo è che le forze politiche che organizzano le masse non si organizzano su basi ideologiche.