TRADIZIONI POPOLARI: CONTINUITA’ DI UN VISSUTO? di Andrea Deplano

 

Andrea Deplano è laureato in lingue e letterature straniere delle quali è docente, traduttore e interprete. Esperto in lingua e cultura della Sardegna ha pubblicato i volumi: Tenores, AM&D 1994; (con Tonina Paba) Il Canzoniere Ispano-Sardo, Cuec 1995; Etnia e Folklore, Artigianarte 1996; Rimas, Artigianarte 1997; Su Prinzipeddu, Artigianarte 1997; Allegas, Grafica delParteolla 1998.

 

 

TRADIZIONI  POPOLARI:  CONTINUITA’  DI  UN  VISSUTO?

di Andrea Deplano

 

 

Se si dovesse ricercare oggi un significato di identità realmente distin­tivo dei tratti culturali di un popolo come il sardo ci troveremmo davanti ad infiniti ostacoli derivanti da spostamenti semantici insiti nelle categorie di classificazione di parametri socio-antropologici, in uso per descrivere i mutamenti economici e storici di dinamiche di sviluppo della modernità, messi a punto in altre situazioni ambientali. Oppure dovrem­mo fare ricorso a definizioni da vocabolario che non sempre riescono a contenere, nella sintesi della significazione, tratti caratteristici di una cul­tura anziché di un’altra: il vocabolario compendia forme “generalmente accettate” e non “vissute nel particolare”.

Si dovrà pertanto andare a ricercare il concetto di identità nelle forme e nelle misure in cui questa si sostanziava nella cultura della tradizione isolana.

Nei centri abitati della nostra isola i parametri di misura per definire l’appartenenza al gruppo erano sostanzialmente di due tipi.

 

Tratti distintivi dell’ appartenenza.

Uno assai ristretto delimitava, all’interno della comunità, l’estensione del sotto-gruppo erenzia ieréu, répula) ed era costitutivo del nucleo base della sovrastruttura societas in quanto strutturato sul riconoscimento del legame del sangue (sambenadu, familia) e del parentìzu.

Le norme che regolavano questo primo parametro erano fisse, non discutibili, normalmente accertate e accettate poiché il legame anagrafico comportava anche la trasmissione, oltre che dei tratti sornatici, de su parì­le (naturale, istripìle) che si costruiva nella pesanzia (l’educazione).

Nel secondo tipo di parametro rientrano i codici, elaborati in dif­ferenti linguaggi, controllati e verificati di tempo in tempo dall’intera collettività che li aveva espressi in origine: sa limba, su ballu, su canti­eu, i colori e i tessuti del costume tradizionale.

Oltre a questi, più apparenti, codici espressivi di un’appartenenza a un limitato universo paesano esistevano pochi altri segni che si individuano nella lavorazione del pane, del ricamo, dell’oreficeria, dell’ar­tigianato.

 

Genesi dei codici

 

Nella lingua giapponese il verbo creare, cioè inventare qualcosa che non esisteva in precedenza, condivide la medesima forma nella trasposi­zione grafica e nella resa fonica con il verbo copiare. Benché nell’antro­pologia di scuola occidentale si definisca l’uomo inventore e creatore di linguaggi – e tanto basta per differenziarlo dal resto del mondo animale ­è ampiamente dimostrata l’incapacità dell’uomo di creare dal nulla.

L’ambiente offre ed impone all’individuo la scelta di modelli che egli adatta nella ricerca di forme e stili rispondenti al bisogno di soddisfare il migliore scambio comunicativo con i propri simili.

I Sardi hanno messo a punto una lingua che ha la sua forza comuni­cativa nella capacità di nominare qualunque aspetto componente e riflet­tente l’ambiente che permetteva la vita degli abitanti: la scarsa comuni­cazione fra i gruppi di parlanti, la distinzione fra i sessi, caratteristiche fisiche e convinzioni morali hanno determinato un peso specifico della pronuncia di certi fonemi e la solidificazione di forme espressive e di figu­re retoriche, nonché la fissazione della grammatica, della sintassi e della morfologia del tessuto linguistico. Ma se il codice linguistico si costrui­sce nell’interagenza di fattori esterni ed interni al gruppo dei parlanti, altre forme comunicative vengono elaborate nell’interazione con il solo sistema ambientale e sono il frutto di momenti e strumenti di osservazio­ne, di analisi, di comprensione, di imitazione e di assunzione di modelli da rielaborare.

Del resto in arte è convinzione diffusa e accettata una prima fase di produzione di linguaggi legata all’imitazione, alla copiatura di oggetti e forme, chiamata “figurativa”. Solo quando si possiedono perfettamente le tecniche tipiche di questa prima fase si potrà passare alla ricerca di ela­borazione di uno stile totalmente nuovo che dica di una rilettura per­sonale e critica dei modelli di partenza, che tuttavia saranno sempre rico­noscibili nella nuova produzione espressiva.

Così la voce del Basso del canto a Tenore è indubbiamente la ripro­posizione del muggito del bue, la voce della Contra rimanda al belato degli armenti e la voce della Mesu’oche ricorda il soffio del vento o altri elementi della natura sarda.

Ma se la ricerca filologica riconduce i suoni delle voci a manifestazio­ni sonore presenti nel territorio, i caratteri di una religione naturalistica giustificano l’assunzione di suoni-segni della cultura popolare.

Nel buio di epoche remote imitare le voci del territorio poteva essere una forma di esorcismo contro la solitudine dei pascoli, un modo per costruirsi una compagnia per combattere il lento passaggio del tempo, spesso impiegato per la fabbricazione di utensili e strumenti.

Sul concetto di imitazione ci si dovrebbe soffermare per capire con quale coerenza si ripropongano i modelli di partenza. Nella lingua sarda manca totalmente il verbo imitare e il verbo istroccher che solitamente lo traduce rimanda non già a una storpiatura ma a una rivisitazione ironi­ca, consapevolmente non vicina all’originale.

Nello sfondo un sentire comune e un vocabolario comune: tumbare una ‘oche, unu balla; un ‘istrumentu. Successivamente, un tempo in cui la convinzione religiosa spinge alla ricerca di riti per propiziare un accosta­mento al divino.

L’imitazione si carica allora di un altro significato: la metamorfosi dei corpi nel segno di una rinnovata potenza. Il bue come animale simbolo della forza fisica, mezzo per aprire solchi e perpetuare il rito della fertilità dei campi, raffigurazione della forza divina già presente nelle protomi taurine dei pozzi sacri di epoca nuragica.

L’adorazione dell’acqua influenza il glossario del canto che si appro­pria delle voci fonosimboliche raffiguranti la presenza magica del liqui­do: cantare a irborroschiu, bocare unu corrazzu ‘e ‘oche, borrare che trainu,

È la trasfigurazione dei canoni estetici nella ricerca di un illusorio soprannaturale per il quale l’uomo che canta a Tenore trasforma la pro­pria voce, assume una rigida compostezza del corpo e si fa pietra nel­l’immobilità del canto in cerchio: si so stanzia il rito. L’individuo assume forma e grammatica per farsi componente archetipica e diventare pietra del cerchio nuragico.

È la più interessante forma di osmosi fra religiosità, socialità, arte,

sistema economico, modello antropologico.

Canto e comunicazione quotidiana si costruiscono su approcci comu­ni e fondono forme espressive etimologicamente affini: il non-sens e 1’0­nomatopea sembrano trionfare nella mancanza di una similitudo com­parabile e riscontrabile in altre culture. Dove ricondurre il suono guttura­le di Basso e Contra, dove ha origine il saluto animalesco” Heu”?

Imitare si propone come modello pedagogico per creare nuova espressione anche nel ballo.

I movimenti del corpo degli animali, i loro balletti di corteggiamen­to, le loro sfrenate corse ora in avanti e subito dopo indietro, gli stacchi improvvisi da terra verso l’alto e il loro ricadere con grazia sul suolo rivivono nell’espressione coreutica di balli dei paesi dell’interno dell’iso­la. Si distinguono i balzi sulle punte dei piedi che manifestano agilità di giovani animali felici: è l’inno alla vita intonato dallo scontro delle corna _ istumburinadas – di mufloni per annunciare l’arrivo della pioggia.

La sonorità della natura è il sema del vocabolario delle tradizioni musi­cali sarde: l’onomatopeico istumburinare delle corna ritorna nel tumbare una ‘oche del canto a Tenore, nel tumbare su ballu, nel Tumbu (la canna più lunga che emette il suono continuo di bordòne) delle Launeddas, in su Tumbarinu, strumento a percussione diffuso nell’intera isola.

 

 

Le regole di partecipazione

 

È impossibile stabilire il momento in cui il rito officiato da una per­sona si è fatto tradizione popolare compartecipata da una collettività inte­ra. Tale difficoltà nasce dalla totale assenza – o perdita? – del termine rito nella lingua sarda in ciascuna delle sue varietà.

Resiste invece il verbo offissare per intendere, fare, occuparsi di qualco­sa, rivolgere l’attenzione verso qualcosa.

Un aspetto assai curioso nell’uso di questo verbo è che esso viene rivol­to a singolo individuo, o a pluralità, solo in frasi interrogative: ite seis offis­sande? Non esiste possibilità di reimpiego del verbo per costruire la rispo­sta articolata in icastici gerundi: cantande, contande contos, fachende semus.

Cosi è difficile stabilire in quale data la tradizione popolare sia diven­tata Folklore, attribuendo a questo vocabolo il significato di “proposizio­ne davanti ad un pubblico di spettatori” di una forma di espressione decontestualizzata.

Il 931 segna, in mancanza di altre attestazioni, la data in cui alcuni sardi anziché cantare per la propria gioia “accolsero l’imperatore bizan­tino con un canto”.

Il salto dalla tradizione popolare al folklore è immenso: la prima pre­suppone un agire comune dei membri della collettività per costruire insie­me una espressione caratterizzante del gruppo, il secondo implica una scelta di attori per rappresentare l’esecuzione di moduli espressivi “in uso” presso una collettività.

La dicotomia Folklore/Tradizione si sviluppa dunque nel carattere di sincronicità o di diacronicità delle forme rappresentate dai deten­tori privilegiati.

Non è in discussione che essi siano espressione di “ceto popolare”,

riconosciuti dalla collettività quali ottimi interpreti dei codici più ade­renti alla forma della Tradizione fermata ad un particolare momento della storia del paese.

Il trasferimento del ballo o del canto dal suolo della piazza alla soprae-

levazione del palco, il numero dei partecipanti, il corollario degli spetta­tori trasformano il flash-back della espressione comunicativa di un popo­lo in performance folcloristica di pochi attori. L’esibizione si carica di segni negativi impropri al fare ballo e al fare canto della Tradizione perché vincolata al giudizio degli spettatori estimatori come al severo controllo del capo-gruppo. Tutto viene calcolato nei dettagli, tutto è previsto, pro­grammato e per ciò deve funzionare. Se qualcosa va storto è facile indivi­duarne la responsabilità tutta umana.

Nella Tradizione per contro niente è prevedibile: una cantata riesce alla perfezione e un’ altra stona irrimediabilmente.

Se il rito non si articola con regolarità secondo i canoni dell’intona­zione e dell’accordo armonico fra le voci la colpa viene attribuita alla dea Mutta.

Non ha forme questa divinità. È il capro espiatorio di ogni malfunzio-

namento perché si è bevuto troppo, perché pensieri esterni turbano uno dei cantori, perché non cantano da mesi e le loro corde vocali non sono più abituate allo sforzo, perché intorno c’è gran confusione, perché manca l’estro.

Il rito deve essere officiato. Solo se una divinità è contraria – sa Mutta mala - si rinuncia, non senza aver provato. Altrimenti si canta con la bene­volenza de sa Mutta bona.

L’imperativo è fare cerchio di canto per perpetuare un mito.

Non c’è rappresentazione in tutto questo, siamo lontani da qualunque forma di folclorizzazione dell’espressione comunicativa popolare.

Certo si registrano sollecitazioni esterne che hanno modificato il para­digma dei moduli del canto, del ballo, dell’ esecuzione strumentale.

È sufficiente un riscontro fra registrazioni degli anni cinquanta e quel­le odierne per cogliere un processo di affinamento nella combinazione delle armonie per costruire con più grazia il tessuto sonoro delle voci dei cori a Tenore e dei suoni delle Launeddas.

 

La ricerca estetica sviluppatasi nella capacità di confronto fra le pro­duzioni di diversi paesi ha prodotto importanti modificazioni anche nel­l’espressione del linguaggio del corpo e le forme coreutiche ne risultano fortemente investite.

Il Folklore finisce per testimoniare forme ormai superate nella produ­zione popolare, ancora viva e produttiva di riletture e rielaborazioni veri­ficabili nel canto a chitarra e nella poesia improvvisata logudoresi.

La produzione espressiva di singoli sembrerebbe perciò aderire meglio ai moduli de su connottu?

Il suonatore di fisarmonica, di organetto diatonico, di armonica a bocca o di scacciapensieri, gode di una maggiore libertà di interpretazio­ne poiché esprime una “ricerca di stile” personale.

Tale ricerca sconfina oggi troppo spesso nel solo versante delle sono­rità, ricche, accurate, fiorite, ornate, tanto da non riconoscervi più la grammatica del ballo perché… molti dei suonatori non sanno ballare!

Ma mentre i suonatori cercano una naturale via all’affermazione perso­nale come strumentisti del gruppo folk, oppure nel mercato discografico isolano con incisioni che intendono testimoniare una presenza musicale nel patrimonio emico paesano, altre forme come il canto a Tenore e su Cuncordu continuano a strutturarsi come momenti di godimento persona­le da condividere con gli altri componenti della formazione polivocale.

 

 

L’extra-territorialità del cerchio.

 

La dimensione temporale della cantata come del ballo è cambiata rispetto a quella della Tradizione. Non si aspetta più la ricorrenza del calendario liturgico per fare Bassu, Contra, Boche o Mesu’oche. Dunque viene a modificarsi anche la dimensione sacra del luogo: non più, e non solo, la festa del santo, ma ogni luogo e ogni momento si offra al pretesto de istare in cumpanzia.

Come nello strumento telematico si abbattono le barriere spaziali e temporali e non importa conoscere le persone con cui si produce lo scam­bio comunicativo, cosi ci si stringe in cerchio nei bar o per le strade di tanti paesi dell’interno dell’Isola dove non è raro incontrare crocchi di persone che cantano o ballano.

A volte i cantori sono affiatati da legami di conoscenza o amicizia remota, alcuni si frequentano quotidianamente condividendo il medesi­mo posto di lavoro o perché abitano nello stesso bichinadu, ma spesso si incontrano e cantano insieme persone che non si trattan (frequentano). La mancanza di un collaudato legame di conoscenza non li esime da uno stretto contatto corporeo fatto di incroci di gambe e di piedi, di braccia e di mani, di sguardi di complicità, di reciproci aggrottamenti di soprac­ciglia e di accennati ma eloquenti sorrisi di approvazione mentre il bic­chiere circola dalle mani dell’uno per portarsi alle labbra dell’altro fino a completare il giro.

Nel canto scompaiono gli uomini per lasciare spazio ai pezzos - ruoli ­ricoperti da pastori o studenti, da impiegati o disoccupati, da laureati o da semi-analfabeti, da sessantenni o ventenni, da amici e sconosciuti. Non di rado capita che nel cerchio dei cantori o dei ballerini si ritrovino persone fra le quali i rapporti umani sono da tempo interrotti, lacerati da astio, ossidati dal rancore .

La necessità di “fare cerchio” per il canto o per il ballo prevale sui rap­porti dei singoli individui.

La celebrazione del rito e la continuazione del mito hanno priorità sulla socializzazione fra le persone, o forse la comunicazione fra Sardi ha bisogno di questo rito per continuare ad affermare il mito dell’identità culturale.

Di certo fare cerchio per cantare e ballare rimane un’ esigenza sentita in misura assai forte perché attraverso la partecipazione si attesta la volontà di appartenere al vissuto dei propri simili.

Dunque non esiste narcisismo né vanità.

Ieri come oggi la coscienza del sé si annienta per fare spazio alla domi­nante e schiacciante dinamica dell’ appartenenza al gruppo.

Accettare di eseguire secondo schemi prefissi e nel rispetto di grammati­che ferree rientra nella dimensione del riconoscimento dell’identità cultura­le ma tutto si vive nel segno dell’ obbligo di donare a se stessi e agli altri.

 

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