FESTA DI SANT’EFISIO, a Cagliari il 1° maggio, di Francesco Alziator (da “La città del sole”)
FESTA DI SANT’EFISIO, a Cagliari il 1° maggio, di Francesco Alziator (da “La città del sole”)
Ridotta al suo nucleo essenziale, la leggenda di Efisio è il racconto delle vicende III ufficiale dell’imperatore Diocleziano che, inviato in Sardegna per operazioni iolizia, non tarda a palesare la fede cristiana alla quale si è da poco convertito. In conseguenza di ciò, viene sottoposto per due volte a procedimento penale ed infine, )0 atroci torture, è condannato a morte e decapitato presso Nora.
La tradizione manoscritta degli atti del martirio di sant’Efisio consta di due stesu-isalenti evidentemente ad un unico archetipo: quella del Codice Vaticano-latino 3 (cc. 201-208, manoscritto pergamenaceo del XII secolo), e quella derivata «ex vetusto codice manuscripto archivi ecclesiae calaritanae sub folio 211»146.
[l testo cagliaritano non ci è noto nell'originale, che è andato perduto, ma attraiO una copia dei primi ~el secolo scorso, contenuta nella miscellanea «Libro pri’o diversorum el qual antiguamente se intitulava de la lettera A» dell’ Archivio della ia Arcivescovile di Cagliari.
~e innegabili analogie dei testi efisiani con una delle stesure della leggenda di san copio di Cesarea portarono il padre A. Delehaye alla conclusione che «l’esistenza .ant’Efisio) e l’antichità del suo culto non sono garantiti … che da un titolo di insigne là »147.
~ evidente che l’influenza degli indirizzi culturali allora dominanti e la sfiducia o le cose sarde, lasciata dalle famigerate Carte d’Arborea, contribuirono non poco drastica condanna della Passione di Efisio, pronunciata dal noto bollandista. 1J0n tardò il Filia ad esprimere le sue riserve sull’ opinione del padre Delehaye: «Que;iudizio del ~ Delehaye - così scrive – mi sembra alquanto esagerato. Il culto risale per leno alla prima metà del sec. XI. Il Roncioni infatti nelle “Storie pisane”; il Manno e l~ri storici sardi narrano che nel 1 088 i Pisani, che in Sardegna fecero gran bottino di iie sante, ~rasportarono da Nora a Pisa le ceneri dei Martiri Efisio e Potito» 148.
~ conclusione dell’ esame dei fatti, il Filia riafferma l’alto valore che la tradizione ,nche co~tro gli eccessi della critica. «La critica - egli asserisce – constata i fatti, I sopra di essa, anche nella poesia leggendaria v’ è la storia, troppo ideale per essere
afferrata. Come suoni che da una perduta chiesa corrono con l~ ~eru.u e ~ò~” Ò<UII.<U I ••.• V stano nelle anime le stesse nostalgiche aspirazioni, così le tradizioni religiose resistono a tutte le agonie e parlano al cuore d’un popolo. Sono la vita sua, la passione più nobile che s’avviva nei canti, all’ombra degli altari, e perciò difficilmente si spezzanow””,
Il Filia riconosceva giustamente nell’antichità del culto di Efisio uno degli elementi che il Delehaye non aveva tenuto nella dovuta considerazione.
Un dato è dunque innegabile: nell’XI secolo, i Pisani considerarono reliquie così eccezionali i resti di sant’Efisio da volerli nella loro città. Nè ci sembra superfluo sottolineare che il trasporto di queste reliquie è all’incirca coevo al Codice vaticano-latino 6453; si sarebbe tentati, quindi, di pensare che la tradizione manoscritta serio re sia quella sarda e che da questa deriverebbe quella del citato codice, nel quale l’inserto degli Atti di Efisio potrebbe anche essere dovuto all’attualità del trasporto
delle reliquie a Pisa.
L’esistenza di una chiesa di sant’Efisio a Nora è documentata sia nella donazione
del 1089 fatta dal giudice cagliaritano Costantino ai monaci di san Vittore, nella quale si indica esplicitamente una chiesa «Sancii Efisi de Mira» (è evidente l’errore di Mira per Nura), sia nella conferma che di questa donazione fa Ugone, arcivescovo di Cagliari, nella quale è scritto chiaramente «s. Efisi de Nora» 150.
La Passione di Efisio, secondo la redazione del Vaticano-latino 6453, conclude così: «Martirizatus est beatissimus Christi martir Ephysus octavo decimo Kal. februari, apud calaritanam civitatem in insula Sardinia in loco qui dicitur Nuras, et sepultus est ex parte orientis, imperante Diocletiano imperatore et Flaviano principe».
Un dato che non è stato mai messo in luce emerge da questo brano e cioè che Efisio «sepultus est ex parte orientis» rispetto alla località «qui dicitur Nuras». .
La chiesa di sant’Efisio di Nora può considerarsi ad oriente, se guardata dall’intemo dell’agglomerato urbano dell’antica città. Il testo del Vat. Lat. 6453 contien~ quindi un riferimento topografico esatto, difficilmente attribuibile ~ tempi nei quali doveva essere già incerto il ricordo della precisa situazione urbana di Nora, acquisrta soltanto ora in seguito a recenti scavi.
Essa inoltre è posta nella zona che già fu necropoli della Nora punica e romana e quindi in una zona che poteva essere destinata a sepoltura di un decollato nell’ età di Diocleziano.
Ma vi è di più: il testo efisiano fa preciso riferimento ad un Flavianus, personaggio al quale son ben riferibili i due titoli epigrafici di indubbia autenticità, di P. Val. Flavianus, scoperti nel secolo scorso ad Olbia!”,
Quindi la chiesa norense sarebbe il martyrium di Efisio, passato ai monaci di san Vittore nel secolo XI, proprio come il martyrium del cagliaritano Saturno, ucciso anch’ egli sotto Diocleziano, si trasformò nella chiesa di S. Saturnino, in larga parte per opera delle fabbriche vittorine, iniziate nel secolo XI.
La tradizione cagliaritana del culto del Santo è di conseguenza spiegata dal Motzo col fatto che, con la distruzione di Nora, nella quale era localizzato, Efisio … «divenne poi martire cagliaritano, e la leggenda s’industriò di spiegare, con le circostanze in cui si sarebbe svolto il martirio, l’anomalia di cui serbava ricordo» 152.
Se antiche infatti sono le testimonianze di una chiesa dedicata ad Efisio nel territorio dell’antica Nora, non recenti sono quelle del culto di Efisio a Cagliari. Infatti, nella relazione che Federigo Visconti, arcivescovo di Pisa, redasse della sua visita in Sardegna come primate e legato pontificio, narra che nel giorno di san Marco del 1263, recandosi nelle chiese del quartiere di Stampace, passò anche per «sanctum Ephyseum» 153.
La continuità del culto del Santo ha testimonianze ininterrotte in ogni secolo e su di lui si ferma la storiografia sarda sin dal suo sorgere, nel Cinquecento, con Giovanfracesco Fara.
S’imposta nello stesso tempo il problema se con Nura, la località indicata nel testo degli Atti, s’abbia proprio ad identificare l’antica città di Nora o piuttosto una località delle vicinanze di Cagliari.
La lezione del testo, nella tradizione cagliaritana, dice: «5atellites ministri iniquitatis arripiunt illum in eum locum qui dicitur Nuras prope eandem hanc calaritanam civitatem puniendis quibuscum malefactoribus erat focus iste … » e conclude affermando che «venerunt Christiani nocte et sepeliverunt Eum in eodem loco, quo fuit martirizatus».
Nel testo del Vaticano-latino 6453 è scritto: «Martirizatus est … apud calaritanam civitatem in insula 5ardinia, in loco qui dicitur Nura, et sepultus est ex parte orientis … »,
Gli avverbi prope e apud, usati dai due differenti testi, sono, in sostanza, sinonimi e la questione sembrerebbe implicitamente inesistente se nel secolo XI, e cioè nel periodo anteriore al Vaticano-latino 6453, si riteneva con sicurezza che appartenessero ad Efisio le reliquie custodite nella piccola chiesa presso le rovine dell’antica Nora.
Le discussioni che nel Cinque e Seicento si fanno sull’argomento da Giovanni Proto Arca, da parte del francescano Dimas Serpi e di Francesco Carmona, sono in sostanza discussioni senza elementi nuovi e quindi espressione solo di opinioni personali’”.
La forza della tradizione e la permanenza in Nora di una chiesa dedicata al culto di Efisio, ad oriente dell’antico agglomerato urbano, proprio come indicato nel testo del Vaticano-latino 6453, ci sembrano elementi di tale importanza da poter eliminare ogni dubbio. . . . .
Nel caso contrario, si dovrebbe pensare che il «sepultus est ex parte ortentts» di questo codice sia una interpolazion~ del secolo XI,I fa~ta per avvalorare le reliqu~e che i Pisani avevano sottratto alla chiesetta presso l antica Nora. Resterebbe tuttavia indiscutibile una precedente tradizione che riteneva l’antica Nora luogo del martirio di Efisio. Tradizione difficilmente spiegabile in altro modo se non con una realtà di fatto, poiché in ogni caso sarebbe più facile venerare un luogo nella periferia di Cagliari che non scegliere, senza motivo, una località solitaria e malsana quale doveva essere, sin dall’alto medioevo, la zona paludosa delle rovine di Nora.
La possibilità offerta dalla moderna filologia di vedere nel Nura della tradizione manoscritta un toponimo del tipo indigeno Nurra, abbastanza frequente e quindi adattabile anche ad una località nelle immediate vicinanze di Cagliari, non sembrerebbe una ragione sufficiente per opporsi all’interpretazione tradizionale”.
È nel primo decennio della seconda metà del Seicento che il culto popolare di Efisio si polarizza nelle forme della attuale sagra del Calendimaggio,
La tradizione fa risalire questa sagra ad un voto, pronunciato nel 1656 dalla Municipalità cagliaritana, durante la tremenda pestilenza che riempì di lutto e di terrore l’intera Europa!”.
Recenti studi del Putzulu hanno spostato la data del voto al 1652, sulla base di una deliberazione del Consiglio della Città!”. In essa, fra l’altro, si decide che: «105 dits Magnifichs Consellers y Ciutadans, tots unanimes y concordes, han determinat y iurat per vot solemne que perpetuament dita Ciutat, attes necessitam de intercessors per sa Divina Magestad per que no nos vulla castigar ab esta ira de la pestilencia, y com tenim per particular protetor al glorios S. Ephis, al qual cada any perpetuament, se li haja de fer festa ab mes desensia, gastant la Ciudat sinquenta lliures de pes de sera, acudint ella y la musica per solemnisar aquella ... » 158.
Due sono ora i problemi che si presentano alla nostra indagine. Il primo sorge
dalle parole del deliberato della Municipalità, poiché se in esso è detto che si è fatto voto di solennizzare sant’Efìsio ab mes desensia, ne deriva che qualche festeggiamento preesisteva.l\ secondo riguarda invece il k’eriodo dei festeggiamenti che si fissarono al Calendimaggio e cioè in data estranea alla tradizione efisiana. La pestilenza cominciò infatti _ secondo l’Aleo – alla fine di maggio del 1652, non ai primi, e terminò nel mese di ottobre del 1656.
Si è pensato da taluno – ed il Putzulu è tra questi – che l’espressione usata dalla
Municipalità presupponga festeggiamenti precedenti. Così infatti egli scrive: «Il concetto di una festa da celebrarsi ogni anno in onore del Santo è espresso nel voto fatto dal Consiglio Generale nel luglio 1652. Ma il verbale che lo riporta dice testualmente: Se li haja de fer festa ab mes desencia, cioè con maggior decoro. Il che significa che una festa già si faceva e che i consiglieri nel fare il voto si proposero di renderla più solenne con l’offerta della cera e con l’intervento loro e della musica. Se ne potrebbe quindi dedurre che la processione di maggio sia più antica di quanto si credes’?’.
L’esistenza di una solennità chiesastica precedente al voto della Municipalità è certa ed il problema si risolve da sè. È indubbio infatti che un santo, che ha sempre occupato un posto così eminente nell’agiografia e nella religiosità sarda, dovesse pur avere un giorno dedicato alla sua solennità e tutto fa pensare che questa cadesse il15 gennaio, come d’altronde ricorda lo stesso Putzulu.
Meno semplice si presenta invece la soluzione dell’altro problema e cioè la parti-
colare posizione della sagra nel ciclo dell’ anno.
Che la prima sagra del 1657 sia quella ricordata dall’Aleo o che questa si debba retrodatare, è dato puramente cronologico, irrilevante dal punto di vista della storia delle tradizioni popolari. Quello che invece è della massima importanza è che essa coincida con il Calendimaggio.
L’Aleo, come si è visto, afferma che la solennità fu celebrata in Nora il 3 maggio,
festività della Santa Croce.
A parte il fatto che il momento più solenne e più rilevante dal punto di vista
demopsicologico è quello cagliaritano che cade il primo di maggio, resta sempre da chiedersi perché fra le tante e tante solennità che il calendario ecclesiastico poteva offrire, se ne sia scelta proprio una che coincide con l’inizio del maggio.
Il maggio è il mese classico dei riti propiziatori primaverili. Che in Sardegna siano evidenti le tracce di riti di tal genere è dato ormai acquisito. Basterebbe ricoruare che uno degli elementi più tipici del rituale della sartiglia orista~es.e, e cioè !o scettr? di viole con il quale su cumponidori benedice la folla, è detto plppla de maju e che Il
maggio è ben presente ne~la poe~ia popolare. ..’ ,
Per quanto riguarda m particolare l area caghantana, ncorderemo l eloquente
espressione fai su maiu (fare il maggio), con la quale si indicava il ~o?gior?o ~rimave’le dei Cagliaritani nella ville del prossimo contado. Nel verbo [ai, infatti, mi sembra possa scorgersi la testimonianza di qualcosa – non interessa ora quale – che m antico veniva materialmente fatta come celebrazione del maggio. È pensabile che la tradizione del maggio, mai spenta nell’Isola e presente tuttavia, anche se in .forme me~? appariscenti, a Cagliari (com’è naturale, trattandosi?i un’are~ demol~gIcamente piu esposta) stia alla base della posizione della sagra efisiana nel ~Iclo dell anno.
Veniamo ora ad esaminare la composizione della processione.
La scorta dei miliziani, che oggi costituisce uno dei numeri di maggior suggestione, fu invece, alle origini, solo un elemento reso necessario dalle condizioni estremamente pericolose nelle quali le secolari scorrerie barbaresche avevano ridotto perfino le vie d’accesso alla capitale sarda.
Le scorte armate sono elemento tipico delle sagre religiose isolane, tanto caratteristiche che, per esempio, quella di san Costantino di Sedilo trae il proprio nome di
«ardia», dalla guardia armata. .
Nel citato studio del Putzulu è riportata una richiesta, in data 22 apnle 1664, rivolta dai Guardiani della Confraternita di Sant’Efisio al vicerè, perché la cavalleria miliziana delle località attraversate scortasse la processione per difenderla da «mores y piratas», . .,’
In un poemetto lugodorese in tre canti, pubblicato nel 1787, abbiamo la pìu antica e completa descrizione della composizione della processione’r”. . .
A questa è dedicato quasi completamente il terzo canto. La descrizione prende le mosse dalle prime ore della sagra, sin da quando il Secondo Consigliere del Comune, in funzione di Alter Nos, che indossa un abito gallonato d’argento e oro, secondo la moda settecentesca dei gentiluomini, si dirige alla chiesa, nobilmente scortato. Mentre in chiesa si celebra la Messa, si adunano gli squadroni delle milizie cittadine, al comando del Terzo Sindaco. Gli squadroni sono divisi per quartieri. La precedenza spetta al quartiere di Stampace «a causa de mazore antighedade».. .
È interessante notare come la tradizione popolare ritenesse quello di Stampace il quartiere cittadino più antico.
Ai cavalleggeri di Stampace seguono quelli della Marina, quindi «Sa Germandàde de su Rescattu», come allora era detta l’Arciconfraternita del Gonfalone, l’Alternos con la scorta, il simulacro del Santo ed infine il drappello delle milizie del quartiere di Villanova in retroguardia.
Tal’ est s’ordine insoro sempre téntu, chi si mantenet fin’a su presente …
Questi versi, che chiudono il primo sommario quadro che il poemetto dà dell’intera processione, sono un’importante affermazione che la composizione del corteo, la quale, in sostanza, è quella di oggi, è stata sempre la medesima sin dalle origini.
Ogni quartiere ha il suo alfiere con lo stendardo: Stampace ostenta le armi d’Aragona e la galera a ricordo del presunto salvataggio dell’Infante Martino d’Aragona e l’immagine di sant’Anna, patrona della parrocchia del quartiere; anche la Marina e Villanova innalzano sugli stendardi le immagini dei patroni delle parrocchie di sant’Eulalia e di san Giacomo. L’armamento delle scorte, che son costituite da «arttstas», cioè da artigiani, è costituito da ispadas, pistoletas, cimitarras e iscopetas.
Ai confratelli di sant’Efisio, al terzo guardiano, al cappellano e, naturalmente, all’Alter Nos, spetta il posto più prossimo al simulacro del Santo:
Senz’ armas su Rescattu o Gonfalone andat, havende su capeddu in manu; portat de Sant’Effisiu su pendone inter issos su terzu Guardianu;
venit, segundu est usu de rexone,
in ultimu inter duos su Cappellanu ei s’Alternos hat duos tota sa via
a lados de sa d’isse Compagnia.
Infine il cocchio del Santo che è designato come carrucociu, con la parola che sino al secolo scorso indicava la carrozza padronale trainata da bovi.
Ogni squadrone aveva la sua banda – oggi scomparsa – composta di piffanos, trumbas, tamburinos.
Unico accompagnamento musicale rimasto è quello delle launeddas, che nel poemetto sono identificate, probabilmente, nei piffanos.
Dalle ottave 43-58 si rilevano precise indicazioni circa il percorso e i cambi della scorta che si susseguono al di là del limite urbano della processione, che, allora come oggi, era costituito dalla zona della Scaffa. Di là, infatti, la scorta dei miliziani dei rioni di Stampace, della Marina e di Villanova rientra e passa la consegna agli squadroni del Campidano e della Parte OlIa.
Dalla Scaffa a Maramuda, il corteo procede sino a circa otto chilometri più avanti, dove si ha il secondo cambio della scorta che viene affidata alla cavalleria di Sestu, che, giunta a Sarrok, è rilevata da quella di Assemini ed Uta.
L’ultimo cambio avviene a Pula, da parte dei cavalieri di Villasor, Villacidro e Serramanna.
L’ignoto autore, che si dilunga coscienziosamente su ogni particolare della sagra, non dimentica neppure le diverse salve d’artiglieria che dalle torri di sant’Efisio e di Caladostia salutavano il passaggio del martire guerriero.
Processione e sagra, salvo qualche trascurabile variante, sono ancora come ce le descrive il poemetto.
Della processione fanno ora parte, come elemento decorativo, le traccas, caratteristici carri addobbati, con i quali i festaioli del Campidano si recavano alle sagre paesane e dei quali si dirà poco più avanti.
Mutato è pure l’abito della cosiddetta Guardiania e dell’Alter Nos, che, in luogo della marsina dai ricami dorati con tricorno, polpe e spadino, indossano frak e cilindro e portano all’ occhiello la coccarda con i colori della Confraternita del Gonfalone. I componenti della Guardiania sono detti dal popolo is dottoris. Questa parola è assai indicativa, poiché perpetua il ricordo della tradizione di cultura, caratteristica dei rappresentanti della Municipalità cittadina.
Una variante, rispetto all’antico, è la presenza dei cavalieri campidanesi nel tratto urbano del corteo, non documentata avanti i primi del secolo scorso.
Resta da mettere in evidenza e da chiarire il significato di un momento della sagra di sant’Efisio, sulla quale, per quanto ne sappiamo, nessuno si è mai soffermato. Intendiamo parlare dello spetta colare banchetto offerto in Nora dall’ Arciconfraternita. Questo banchetto, il cui numero delle portate era, soprattutto in passato, veramente eccezionale, rappresenta un elemento comune a tutte le più importanti manifestazioni della religiosità popolare, oltre che alle maggiori ricorrenze dell’anno agrario. Nel caso particolare della coincidenza della Sagra di sant’Efìsio con il Calendimaggio, il banchetto potrebbe sottolineare ancor di più la probabile preesistenza di una celebrazione agraria stagionale con la quale si sono fuse successive solennità cristiane che hanno, dopo molto tempo, sfociato nella sagra efisiana.
Non vogliamo però tralasciare l’occasione per porre l’accento su questi banchetti
sardi i quali si imposero, in ogni tempo, per le loro straordinarie proporzioni. Di uno di essi ci riferisce con minuzia di particolari il canonico Martin Carrillo, Visitatore Generale del Regno di Sardegna, nella sua relazione presentata, nel 1612, al re Filippo III. Secondo il prelato spagnolo, in occasione di una ordinazione sacerdotale a Mamoiada, si imbandì un banchetto con venti due vacche, ventisei vitelle, ventotto capi di grossa selvaggina, settecento quaranta montoni, trecento tra piccoli ovini e porchette, seicento galline, oltre ad enormi quantità di pesci, riso, frumento, zucchero, dolciumi, datteri, uova e venticinque grosse botti di vino 161.
Siamo di fronte, dunque, ad uno di quei banchetti che escono fuori da ogni norma comune per assumere i caratteri di vera eccezione e dei quali tuttora l’etnologia offre interessanti documenti. Se a questo si aggiunge il significato particolare che la parola carraxiu, che letteralmente indica la famosa carne deposta, secondo un sistema tipico di primitive culture, nella fossa già arroventata dal fuoco di legna aromatiche ed ivi
sepolta fino a completa cottura, ma che in senso traslato vuol dire baraonda, chiasso sfrenato, urla scomposte etc., sarà più agevole giungere alla conclusione che nei banchetti e nei significati della parola carraxiu è possibile cogliere l’estrema testimonianza di un fatto orgiastico rituale, discendente dalle più remote culture isolane.
L’autenticità dell’antica discendenza è tanto più possibile in quanto, in questi fatti, ciò che si tramanda non è legato a qualcosa di corruttibile o di mutevole come il vestiario, di superabile come un culto, di perfezionabile come uno strumento agrario; nei banchetti ciò che si tramanda è l’atto del nutrirsi, legato ad un certo numero di persone, ad un certo periodo dell’anno e ad un determinato cerimoniale che consiste nel far chiasso. Tutti elementi, dunque, che non temono il trascorrere del tempo. Quello che si è perduto, invece, è l’antico senso della funzione rituale dell’orgia. Essa, secondo la magistrale espressione di Mircea Eliade, era una frenesia generale illimitata che corrispondeva, sulla terra, alla ierogamia, nella quale gli eccessi «spezzano le barriere fra uomo, società, natura e dei; aiutano la circolazione della forza, della vita dei germi, da un livello all’altro, da una zona della realtà a tutte le altre. Quel che era vuoto di sostanza, si sazia, il frammentario si reintegra nell’unità; le cose isolate si fondono nella grande matrice universale. L’orgia fa circolare l’energia vitale e sacras’”.