Essere cristiani oggi, di Gianni Mula e Carlamaria Cannas
Essere cristiani oggi
di Gianni Mula e Carlamaria Cannas
Viviamo in un tempo senza gioia né speranza, chiamati tutti ad una scelta di campo in favore delle vittime della crisi che stiamo attraversando. Per i cristiani questa scelta dovrebbe essere ovvia, visto che dal Vaticano II in poi l’opzione preferenziale per i poveri dovrebbe essere la regola, ma la pratica teologica e pastorale ha spesso mostrato una realtà differente. “Mi formavi nel silenzio”, un libro appena pubblicato di Arturo Paoli e Dino Biggio, ci insegna come conservare anche in tempi come questo la gioia e la speranza cristiana. C’è qualcosa di molto sbagliato nel mondo di oggi. Così inizia “Guasto è il mondo” (Laterza 2011), l’impietosa analisi della società occidentale di Tony Judt, nella quale lo storico inglese racconta come negli ultimi decenni noi abitanti del Primo Mondo siamo stati uniti soltanto nel ricercare ciascuno il proprio interesse. Non ci siamo mai chiesti se le leggi fossero buone o cattive, o se le sentenze dei tribunali fossero giuste o sbagliate, ma solo se salvaguardassero il nostro “particulare”, per usare il famoso termine del Guicciardini. Sappiamo il prezzo delle cose ma non il loro valore, e siamo arrivati ad affermare senza vergogna che lasciando fare alle sole forze del mercato ci sarebbero crescita illimitata e creazione di ricchezza a spese di nessuno, e, insomma, che l’anno che verrà, come dice la canzone di Lucio Dalla, “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, … ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno, anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno”. Ironia amara quella del grande Lucio, ma utile a ricordarci che la crisi che sta distruggendo quella che ci ostiniamo a chiamare civiltà occidentale non ci è piovuta addosso per caso ma ha responsabilità politiche e morali dalle quali nessuno si può chiamare completamente fuori. Non stupisce quindi che sempre più persone, di tutte le provenienze culturali, usino toni apocalittici per dare un senso alle cause di questa situazione. Nell’ultimo editoriale della rivista di geopolitica Limes, ad esempio, il direttore Lucio Caracciolo scrive: “La democrazia è un marchio geopolitico. Il marchio dell’America vittoriosa nella guerra fredda, che sull’onda di quel trionfo eleva la sua idea di democrazia a modello di un mondo finalmente globale. … Oggi sappiamo che anche quel Dio ha fallito. Il marchio geopolitico del globalismo americano è scaduto. La sua sconfitta si riverbera nella Grande Crisi scaturita nel ventre della finanza a stelle e strisce. Una cesura storica. Essa investe la credibilità della democrazia occidentale come sistema politico e della sua potenza leader come protagonista geopolitico”. Per il teologo della liberazione Leonardo Boff è corresponsabile della crisi chiunque non voglia vedere che “l’economia non è una parte della matematica e della statistica, ma un capitolo della politica, e che esiste una vera e propria dittatura sadica e criminale che per salvare le merci condanna chi le produce e per una promessa di futuro benessere costringe ad un reale, generalizzato male-essere“. Il giornalista e scrittore uruguaiano Eduardo Galeano constata invece che l’economia mondiale è ormai diventata “la più efficiente espressione del crimine organizzato. Gli organismi internazionali che controllano valute, mercati e credito praticano il terrorismo internazionale contro i Paesi poveri e contro i poveri di tutti i Paesi con tale gelida professionalità da far arrossire il più esperto dei bombaroli». Come osserva su Adista Aldo Antonelli, parroco di frontiera ad Antrosano (Aq), a cui dobbiamo le due citazioni precedenti, non si può dar torto a queste voci di opposizione irriducibile, anche se possono non piacere i toni usati. Sono voci che esprimono verità evidenti, che non sono meno vere perché guardano alla realtà dal punto di vista dei poveri e dei diseredati, anziché da quello dei ricchi e dei potenti. Dobbiamo decidere da che parte stare. Se siamo credenti la scelta di principio è chiara e risale ai vangeli, anche se la sua accettazione formale da parte della Chiesa si è avuta solo col Vaticano II, ma quali comportamenti concreti debbano tenere le comunità cristiane sembra non essere affatto chiaro, perché gran parte della gerarchia si sente chiamata a difendere sempre l’ordine costituito, come quando “la chiesa combaciava con la società, … le leggi civili dovevano ricalcare quelle religiose cattoliche. La chiesa, salvo disaccordi da riparare (tramite concordati con qualunque regime vigente), era una delle due teste della società, e doveva andare d’accordo con l’altra, accettando ingiustizie sociali e godendo privilegi in cambio di benedizioni, anche alle armi e alle guerre”. Fortunatamente quel tempo è passato e per la maggioranza dei fedeli Dio è cambiato: “da giudice onnipotente, infallibile e inflessibile, che vuole il sacrificio cruento del suo unico Figlio per placare la propria ira contro l’umanità è diventato il Padre di Gesù, Spirito santo effuso nei cuori che lo accolgono, e anche in altri che non lo conoscono, ma hanno volontà buona“. Concordiamo senza riserve con quest’efficace sintesi dello scrittore torinese Enrico Peyretti, impegnato nel movimento per la nonviolenza e la pace. Ma un’immagine di Dio più credibile non risolve automaticamente il problema della scelta di campo perché tutti noi credenti (compresa naturalmente la gerarchia cattolica ai più alti livelli) spesso onoriamo anche altri dei, come quelli della scienza o del mercato. La Chiesa di fatto agisce a nome del dio della scienza, ad esempio, quando rivendica il diritto di imporre l’obbedienza a quelle che chiama leggi naturali. E i fedeli non protestano tanto per questa idolatria, che in molti condividono, ma solo perché il loro parere non viene sentito. Questi altri dei accettano volentieri di essere messi da parte nelle festività ma nella vita quotidiana ci obbligano a considerare gli altri come cose, numeri o strumenti, comunque sempre come realtà perfettamente intercambiabili. Perciò sono nemici della vita di tutti, perché per principio negano l’unicità, l’irripetibilità, l’inestimabile bellezza di ciascuna vita umana. Onorandoli siamo diventati una generazione perversa e adultera, che, come osserva l’economista Mario Pianta in “Nove su dieci” (Laterza 2011), il suo ultimo libro, ha passato gli ultimi trent’anni esaltando le nuove tecnologie e la globalizzazione, le opportunità d’impresa contrapposte ai vincoli della politica e della società, la ricchezza facile creata dall’esplosione della finanza, e ora si stupisce della crisi e della depressione in cui è precipitata. Vede che si è formata una casta di privilegiati ma non capisce che a crearla sono state le ideologie della scienza e del mercato imperanti in questi trent’anni. È l’idea, ormai indifendibile, di una singola verità, di una sola misura per ciascuno di noi, a generare i risultati descritti in “Guasto è il mondo”. Sarebbe ora che rinsavissimo e che almeno i cristiani onorassero davvero la propria fede aprendosi all’ascolto dell’altro, nell’accettazione della sua diversità, nell’attenzione verso i suoi bisogni più elementari, secondo l’insegnamento del Maestro: “avevo fame e mi avete dato da mangiare …“. Un importante insegnamento in questa direzione ci viene offerto dal nuovo libro di Arturo Paoli e Dino Biggio, “Mi formavi nel silenzio” (Paoline 2012), che si rivolge non solo ai credenti cristiani ma a tutti coloro che sentono e soffrono per la distruzione del senso della vita operata dalle ideologie della scienza e del mercato. Non è importante perché dice qualcosa di nuovo o diverso rispetto agli insegnamenti dei tanti altri grandi profeti cristiani del secolo scorso, da Primo Mazzolari a Ernesto Balducci, da Lorenzo Milani a David Maria Turoldo (per limitarci agli italiani), per finire con quelli, come Enzo Bianchi e Carlo Maria Martini, che sono ancora viventi. Questi profeti, e i tanti altri meno noti che li hanno accompagnati, hanno testimoniato in maniera coerente, appassionata e soprattutto credibile, un’unica cosa: l’attualità nel nostro tempo della buona notizia dell’avvento del regno di Dio. E in questo “Mi formavi nel silenzio” non è e non vuole essere diverso. La diversità si trova invece nel come vengono evidenziate le contraddizioni della vita contemporanea. Pur rimanendo sempre nel solco tracciato da quei grandi profeti, il libro riesce infatti a farsi leggere con interesse anche dai tanti lettori che prendono alla lettera l’invito all’autonomia che è costitutivo della cultura moderna e ritengono un dovere morale l’essere in grado di dare una risposta individuale anche ai problemi sociali. Da quei lettori cioè che, nei momenti di maggiore difficoltà per la crisi che stiamo attraversando, possono essere tentati dall’idea di lasciar perdere tutto per badare solo al proprio “particulare”, e quindi a distruggere ogni senso dello stare assieme come società. Il libro, che ha come sottotitolo Costruttori di gioia, si presenta come un dialogo tra fratel Arturo e Dino, costruito con le parole di Arturo prese dai suoi vari interventi e introdotte o interrotte da domande di Dino. Un dialogo quindi immaginario, ma non meno vero di uno avvenuto in realtà, anzi paradossalmente più vero perché gli interventi di Dino riescono a far emergere e a dare risposte per quei momenti difficoltà ai quali abbiamo accennato. E ci riescono per l’instancabile lavoro di ricerca da uomo della strada che ha spinto Dino a cercare e trovare negli stessi testi di Arturo le risposte che sentiva più vere, perché più semplici e immediate, ai turbamenti che il discorso complessivo di Arturo gli provocava. Come fratel Arturo dice nella prefazione al libro, il lavoro di Dino trasmette alle sue parole “una nuova vitalità, una vitalità rinascente. Quando nel tempo le ritrovo, mi paiono spesso non pronunziate da me”. Naturalmente non è che il discorso originale di Arturo non sia altrettanto chiaro e appassionante di quello che emerge dal dialogo immaginario, ma è che gli abituali meccanismi di precomprensione portano a leggere i suoi testi, come quelli degli altri profeti che abbiamo citato prima, come non alla portata delle persone normali. Invece “Mi formavi nel silenzio” si fa leggere come un’intervista fatta a fratel Arturo da una persona che gli fa le domande che gli farebbe ciascuno di noi. È ad esempio facile parlare di gioia cristiana, del fatto che i cristiani devono essere costruttori di gioia, ma come si fa ad essere costruttori di gioia in un tempo nel quale per tante persone le esigenze più elementari, compreso il loro stesso diritto a esistere, vengono negate in nome dell’imperativo pseudoetico della competitività a tutti i costi? Come possiamo superare il condizionamento culturale imperante secondo il quale un’ingiustizia causata da motivi scientifici è meno ingiusta di quella causata da una bieca volontà di sopraffazione? Nel libro il discorso sulla gioia si apre con la distinzione tra gioia efelicità: si è felici in relazione a un obiettivo a noi esterno, come quando si riesce a soddisfare “un desiderio che si prolunga nel tempo e che spesso impegna la persona in notevoli sforzi e sacrifici”, mentre la gioia “ha radici profonde e indipendenti dalle circostanze che ci vengono incontro”, circostanze che possono anche riguardare il “nostro corpo, la nostra vita interiore, gli avvenimenti di cui siamo direttamente partecipi”. Ma nel Primo Mondo “soddisfatto un desiderio se ne crea un altro”, con la conseguenza che “da un lato ci sentiamo felici, da un altro profondamente soli … la solitudine non è un fatto geografico, ma una profonda malattia interiore che genera tristezza”. Perciò la ricerca della felicità non porta alla gioia ma al suo contrario. “La soluzione, per il Primo Mondo, sarebbe quella di rinunziare alla felicità per avere la gioia … ma per avere la gioia d’essere uomo tra gli uomini, la gioia di star proprio bene anche tra i poveri, bisogna che non [si] rubi niente a loro … [neanche] in una forma elegante, capitalistica, occulta, clandestina. Si ruba ai poveri cercando la propria felicità. Su questo punto l’Europa e il Primo Mondo si devono interrogare seriamente”. Il messaggio di Arturo è reso attuale e coinvolgente proprio dal gioco di scomposizioni e ricomposizioni che permette di interrompere il discorso originale di fratel Arturo sulla gioia con domande che sorgono spontanee anche in un lettore casuale. E questo gioco funziona per tutti, non esclusi i tanti cristiani tiepidi che abitano il mondo contemporaneo ritenendo che dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare significhi onorare Dio a messa la domenica e gli dei della scienza e del denaro gli altri giorni della settimana. Fratel Arturo è un cattolico in piena comunione con la sua chiesa e col Papa ed è profondamente consapevole della crisi del pensiero filosofico contemporaneo; ma la presentazione del messaggio cristiano che vien fuori dal libro ignora del tutto sia gli aspetti dogmatici che quelli culturali legati alla crisi della modernità, e il messaggio può essere letto da tutti, credenti e non credenti, persone semplici o intellettualmente sofisticate, con uguale interesse. Per questo piccolo miracolo di riuscire a non tradire il senso originale pur ponendo il messaggio alla portata di tutti il libro può essere definito a buon diritto di due autori, e Dino Biggio va ringraziato sentitamente per il regalo che ci ha fatto dandoci la possibilità di colloquiare a tu per tu con Arturo. E un ringraziamento va anche alla nipotina di Dino, Margherita, inconsapevole stimolo alla preparazione del libro, alla quale è stato nonno Arturo a mettere sulla bocca, nella prefazione, la domanda: “Nonno, come si fa a svegliare Dio?”, con la bellissima risposta “Ascoltando la sua voce nel silenzio”. E un altro ancora a Elia Di Gino, piccolo grande amico di fratel Arturo morto serenamente a soli quattordici anni, del quale nella dedica del libro si scrive che dal cielo “cammina insieme a noi per aiutarci a vivere con responsabilità e con gioia”. Elia è morto di astrocitoma, una malattia che non è giusto venga a nessuno ma soprattutto è difficile accettare che venga a un bambino piccolo e lo accompagni per una decina d’anni tra interventi chirurgici, esami clinici, chemio e radioterapie, speranze e delusioni, prima dell’inevitabile conclusione. Ma la vita di Elia è stata ugualmente una vita piena, bella e vera, come testimonia chi l’ha conosciuto e amato, come i suoi genitori e fratel Arturo. Elia e Margherita sono segni del valore inestimabile di ogni vita, che non si può mai ridurre a merce di scambio o a offerta sacrificale sull’altare di nessuna scienza. La loro discreta presenza nel libro dà al dialogo tra fratel Arturo e Dino il sapore di una ricerca delle ragioni fondamentali del vivere. È una ricerca che spesso ci sorprende per la sua attualità. Ad esempio leggendo della tristezza come conseguenza del ricercare a tutti i costi la soddisfazione di bisogni non essenziali, e della necessità di non rubare niente ai poveri per poter avere la gioia anche stando con loro, può sembrare di cogliere un chiaro riferimento all’azione di un governo tecnico, quindi “autorizzato” a interpretare la scienza economica, che getta nella miseria a colpi di decreti legge centinaia di migliaia di persone e promette di gettarcene ancora di più, sino a quando il dio mercato sarà soddisfatto. Ma sono parole di fratel Arturo dette circa vent’anni fa: siamo noi che le interpretiamo sulla base delle nostre esperienze di questi giorni e le troviamo di un’attualità sconcertante. Perché magari ci permettono di capire, come dice Giovanni Sarubbi, che “Per rimettere in moto l’economia bisogna semplicemente smetterla di togliere ai poveri per dare ai ricchi. Bisogna anzi fare l’esatto contrario, togliere ai ricchi in grande quantità per dare ai poveri in altrettanto grande quantità, cancellando definitivamente dall’immaginario collettivo quell’idea folle che si racchiude nell’espressione “privato è bello” e che viene invece idolatrata quotidianamente da tutti i partiti presenti attualmente in Parlamento, dal Governo, dalla Confindustria, da una parte dei sindacati e che ha infettato i mass media e tutta l’opinione pubblica. Prima ci disintossichiamo da questo veleno, meglio è“. L’economia non è un gioco di società, nel quale bisogna obbedire alle regole del gioco incluse nella confezione. È qualcosa che mette in gioco la vita di tutti, le cui regole devono, non solo possono, essere messe sempre in discussione. Ad esempio la regola per la quale le grandi società devono creare sempre maggior valore per gli azionisti, altrimenti devono avere il diritto di delocalizzarsi per ricominciare in paesi che offrono disponibilità di lavoro a minor costo, deve essere riconosciuta per quello che è, cioè una licenza di uccidere. Bisogna fermare chi usa la scienza e il denaro come strumenti per giustificare le proprie sopraffazioni. Già Don Milani, altro grande profeta indimenticabile, aveva espresso questo concetto con grande semplicità ed efficacia: non c’è niente di più ingiusto che far le parti uguali tra diseguali. “Lettera a una professoressa” è stato il libro che ha fatto capire a tutti che non c’è una maniera oggettiva di guardare alla cultura. “Mi formavi nel silenzio” è un libro che può far capire a tutti che non c’è una maniera oggettiva di guardare all’economia. Perché, come dice ancora Enrico Peyretti, “né l’illusione del buon selvaggio, né il sofisma machiavellico dell’uomo “tristo” per natura dicono l’intero vero sulla nostra condizione: non è vero che siamo solo avidi; non è vero che siamo solo solidali. Ma se ci pensiamo avidi per natura, lo saremo in pratica. Se ci pensiamo capaci di solidarietà, lo saremo un po’ di più nei fatti”. Ripensare l’economia dal punto di vista dei “costruttori di gioia” apre la strada a costruire un mondo migliore, più giusto e ricco di gioia. Lunedì 23 Aprile,2012 |