UNA POLITICA NUOVA? di Francesco Casula


“Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla realtà”.

Certo – continua Macchiavelli – “se gli uomini fossero tutti buoni” questi precetti “non sariano buoni”, ma poiché sono “ingrati, volubili, fuggitori di pericoli, cupidi di guadagno” occorre che “il .principe ” impa­ri “a non essere buono” e “a intrare nel male”.

I politici dunque costretti “all’infamia”, a imbrogliare i cittadini, a non tenere fede alla parola data, a ricorrere a qualsiasi forma di ruberie e latrocinii perché costretti dalla malvagità altrui e dalla condizione umana? E comunque per il superiore interesse “politico”, del “Partito”, dello “Stato”? Quante volte abbiamo sentito l’apoftegma craxiano che “la politica ha i suoi costi” et duncas occorre pagarla e sostenerla con le tangenti e con quant’ altro?

Sbaglia comunque chi ritiene che il cancro della politica oggi stia essenzialmente – o si esaurisca – nella “immoralità machiavelliana” oggi tradotta nell’ affarismo, nelle tangenti, nel malaffare et similia.

Certo, quest’aspetto è quello più volgarmente visibile e corposo, e giu­stamente impressiona e colpisce l’opinione pubblica e i cittadini creando un’istintiva reazione di rifiuto e di reiezione della “politica” tout court, vista come “cosa sporca”, “affare per mestieranti”, da cui stare alla larga e da evitare. Salvo continuare, da parte di quegli stessi cittadini, a sostene­re e votare quegli stessi politici che abominano, perché evidentemente sperano comunque di ottenere un qualche vantaggio .

… No, il cancro della politica oggi sta in ben altro: le ruberie, la ricerca esclusiva del proprio “particulare” in qualche modo costituiscono l’aspetto “patologico” dell’azione politica, una sorta di bubbone che potremmo chi­rurgicamente recidere con la magistratura e con un controllo più oculato.

Il cancro più pericoloso, proprio perché “fisiologico”, strutturale, den­tro la “politica” stessa e che attiene ormai a tutti i Partiti e all’intero siste­ma politico italiano sta in ben altro. L’opinione pubblica, tale aspetto, spesso non riesce a coglierlo, altre volte si abitua, considerandolo addirit­tura spesso non un “cancro” ma un aspetto positivo di “modernizzazione” della politica. Qual’è dunque questo “cancro”, questo cambiamento

“genetico” della “politica”?

Il sistema politico italiano – le cui articolazioni sarde succursali non fanno eccezione, seguono anzi supine e subalterne le dinamiche conti­nentali – da un po’ di tempo tende sempre più a “modernizzarsi” “ameri­canizzandosi”. Ricorre cioè ad un uso più consolidato e più spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, di tecniche più sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio, di controllo dell’informazione. Scelgono Di Pietro, D’Alema e Berlusconi, Fini e Bertinotti. Sono tutte immagini rappresentative e simboliche del moderno autoritarismo e del giuoco simulato, dietro tecniche di comunicazione in larga misura mutuate dalla pubblicità. Partiti, uomini politici, programmi vengono “venduti” prescindendo dai contenuti, ma valorizzando l’involucro, la confezione, il look, l’immagine.

La politica si svuota così di contenuti – restano solo quelli simulati – e diventa pura e asettica gestione del potere: il conflitto tra Partiti – più apparente che reale – diventa lotta tra gruppi, spesso trasversali, in con­correnza fra loro per assicurarsi questa gestione. La battaglia politica per­ciò diventa priva di “telos”, di finalità. E poiché i gruppi politici si batto­no fra loro avendo come unico scopo la gestione del potere e l’occupazio­ne degli Enti, in qualsivoglia genere – da quelli bancari a quelli culturali ­purché rendano in termini di soddisfacimento di appetiti plurimi dei “clienti” più fidati; idee politiche, ideologie, programmi e progetti si ridu­cono a pura simulazione: sono fatti effimeri e interscambiabili.

Si parla ad esempio della “governabilità” come di una tecnica neutrale e come finalità politica. La politica diventa autonoma, non solo dunque dal­l’etica ma dall’intera società e si riduce a giuoco o meglio a “mestiere” – ben rimunerato – per professionisti: non a caso nasce il termine, “i politici”.

La legittimazione per i partiti e per “i politici” non nasce più dalla libera aggregazione dei cittadini attorno a finalità e programmi e progetti concordati e condivisi, né dal consenso popolare, né da una delega con­cessa su obiettivi determinati, né dalla difesa di interessi di classi o di gruppi sociali.

La legittimazione tende ad essere tautologica: si è legittimati a gover­nare per il fatto stesso di essere al governo, E i Partiti sono legittimati per il fatto stesso di essere all’interno del sistema dei Partiti, o della partito­crazia che dir si voglia, più florida che mai nonostante i supposti propo­siti e i disegni di colpirla. Più florida, prosperosa e ben pasciuta, grazie alle . decine di miliardi dello Stato, cioè del contribuente, devoluti e concessi ­al di fuori e contro la stessa norma legislativa e in barba a un referendum popolare in cui quasi all’unanimità i cittadini si erano pronunciati con nettezza contro il finanziamento pubblico dei Partiti – a ben 43 Partiti e Partitini, guarda caso nati come funghi e moltiplicatisi come conigli in seguito al sistema elettorale maggioritario che nelle chiacchiere dei vari Segni, Pannella e D’Alema si sarebbero dovuti ridurre a due!

Tutto ciò è servito e serve a consolidare l’opinione che i Partiti sono . “tutti uguali”, omologhi, senza configurazioni caratteristiche e peculiari. Per cui i singoli cittadini, i gruppi sociali, le categorie, i raggruppamenti culturali, non sentendosi più rappresentati in un progetto di società e\o di trasformazione o non votano più o cercano uno sbocco autonomo e set­toriale nella politica e\o concedono in una logica di scambio il loro appog­gio a questo o quel Partito, a questa o a quella corrente e gruppo, a que­sto o a quell’uomo politico in cambio di realizzazioni parziali che a loro interessano in una reciproca autonomia di interessi,

Il sostegno non è più consenso ma utile e reciproco scambio, In que­sto modo, non esistendo più una progettualità strategica unificata, esisto­no da una parte i particolarismi e\o corporativismi, dall’altro le lobbies ed una società divisa, frammentata e dunque debole e rassegnata, E qui, almeno per quanto riguarda la pars destruens, mi fermo. Salvatore Cubeddu e la Fondazione Sardinia mi invitano infatti a parlare della “Politica Nuova”, ed io finora ho solo cercato di descrivere quella “vec­chia”: la politica politicante.

Politica nuova, dunque, ma quale? Ed è oggi possibile? E a quali con­dizioni? E con quali soggetti? E che ruolo devono avere gli intellettuali?

Sono interrogativi cui – credo – nessuno individualmente possa dare risposte credibili. Sulla “politica nuova”, hic et nunc, qui ed ora in Sardegna, occorre infatti una discussione collettiva e ubiquitaria, che coinvolga vasti settori dell’opinione pubblica e della popolazione sarda: da questo punto di vista il Congresso dei Sardi conserva intatta la sua bontà e attualità: caso mai occorre rivederne modalità e dinamiche, ma soprat­tutto superare divisioni vecchie e nuove, Non è più possibile separare grumi di ragioni in astratti furori né rimanere arroccati in trincee scavate dentro il nostro stesso territorio politico e culturale.

Una discussione pubblica che in un confronto a voce alta e alla luce del sole metta soprattutto al centro il mito del cosiddetto “sviluppo”, della globalizzazione e dello Stato.

Occorre infatti iniziare a rifiutare di ragionare nei termini di compati­bilità di sistema, in funzione del pensiero unico della globalizzazione dei mercati che di fatto sta diventando l’acquiescenza a un ordine mondiale che considera ininfluente l’esclusione sociale.

È aberrante accettare, come fosse un fatto naturale, che la logica di mercato, che fondatamente ragiona su globo e globalizzazione in termini di marketing e redditività, diventi la pura logica che vale per la cultura e la politica, e può valere persino per valori alti come la solidarietà, a con­dizione che anch’ essa diventi occasione economica.

Non possiamo ignorare che c’è una parte consistente e maggioritaria del mondo, esclusa dallo “sviluppo” tutto giuocato sul mito statalista e industrialista, l’ omologazione e l’assimilazione, la razionalità tecnocratica e modernizzante, l’universalità cosmopolita e scientifica, la devastazione e il depauperamento del territorio, l’inquinamento dell’ambiente, il consu­mo intensivo delle materie prime e delle risorse naturali – di cui si accele­ra ogni giorno di più l’esaurimento – la fabbriche dei veleni e dei rifiuti con le megalopoli ormai invivibili, le sofisticazioni alimentari, l’oppres­sione la fame e la morte di decine di milioni di donne, uomini e bambi­ni del terzo e quarto mondo.

E non possiamo rassegnarci a ragionare in termini contabili e ragioneri­stici, quasi la politica fosse diventata una variante rnonetaristica della logica del profitto. E occorre riappropriarsi di una dimensione del tempo storico, la qual cosa significa conservare lo spessore del passato e insieme preservare la prospettiva del futuro in un momento nel quale tutto sembra ridursi a un presente astorico senza tempo.

. Quel presente astorico e senza tempo di cui parla – o meglio canta _ Eliseo Spiga nel suo potente e suggestivo romanzo “Capezzoli di pietra” a proposito del protagonista Nurghulè che “non era più in nessun luogo e il tempo ormai non sapeva cosa fosse .. .la storia gli sembrava frantumarsi in mille perversioni, piccoli e grandi, senza cause né fini, disperse come gli ingranaggi di un orologio caduto. I miti della moneta e dello Stato, che erano affluiti in cielo per oltre cinquanta secoli, da tutti i punti dell’ oriz­zonte e che si erano addossati gli uni agli altri fino a formare un’unica coltre, quasi un altro cielo, si squarciavano fragorosamente e rovesciavano sulla terra grandine, vento e fuoco”.

Catastrofismi apocalittici? Lacerti onirici e lirici? Forse, anche. Ma, soprattutto: de te, Sardinia, fabula narratur. Stiamo parlando di noi, anche di noi, di “sardità”: con o senza contorno di sebadas. Stiamo par­lando dell’industrializzazione dell’Isola con sottesa ideologia razionalistica di stampo popolar-illuministico. Stiamo parlando del fallimento farsesco dell’ autonomia tanto dal punto di vista economico che politico, sociale e culturale. Stiamo parlando di intellettuali “organici” (povero Gramsci!) per ministeri ed Enti inutili, di un’intera generazione di giovanotti, ormai sdraiata nei salotti del Potere, un tempo criticato, contestato ed aborrito, a rigirare tra le dita cartacce e scartoffie o a mistificare storia e storie, elu­cubrando l’ideologia del pentimento.

Occorre cercare altrove compagni di lotta: fra quelli che ritengono che di fronte alla crisi – e alla sconfitta – del tempo presente la .reazione non debba essere né l’adeguarsi, né il ripiegamento interiore, né il vittimismo intimista, né la lamentazione sterile e generica, né l’attesa passiva in cui ci si consuma a ringhiottire il pianto perché il passato è visto solo come gio­vane e il futuro come negatività spettrale. Ma deve invece consistere in una nuova reattività, vitale, agonistica, militante, politica.

Al di là della retorica tronfia sulla “ars artium … ” la nuova politica signi­fica ripresa dell’impegno – t’engagement mounieriano – politico, sociale, culturale, della politica non-politicante, come attività nobile ed alta, che ogni cittadino deve esercitare, se non vogliamo che siano altri a decidere. Impegno dentro le istituzioni, per trasformarle e modificarle; fuori e contro le istituzioni quando queste si rivelassero ormai decrepite e inservibili.

E come atteggiarsi nei confronti dei Partiti attuali?

La mia personalissima opinione è che siano ormai irriformabili, inuti­lizzabili per condurre battaglie, ridotti come sono a congreghe e apparati, autoreferenziali, interessati solo all’ autoconservazione di un ceto politico, privi di qualsivoglia democrazia interna, che selezionano il gruppo diri­gente attraverso la cooptazione in base al tasso di fedeltà al capo: e poco cambia che sia Berlusconi o D’Alema, Fini o Bertinotti. Non parlo nep­pure – per carità di patria – dei “capi” sardi.

I Partiti, ormai “ostruiti”, non sono più ormai canali di comunicazio­ne: né per la gente, né per i propri adepti. Basti pensare a cosa sono diven­tate le loro “Feste nazionali”, un tempo riti collettivi dove si rinsaldavano solidarietà ideologiche e identità sociali, dove si discuteva di programmi e idee, oggi si sono trasformate in “Piazze mediati che” in cui gli oligarchi dei Partiti mettono a punto l’agenda d’autunno. Si avverte nell’ aria una certa diffusa tristezza: forse perché l’estate sta per finire, o forse perché sta per arrivare il loro “autunno”. Ora, quando i canali sono ostruiti, occorre rimuovere l’ostruzione: ma, quando ciò non è possibile, occorre costruire canali nuovi: totalmente nuovi, da inventare o reinventare: movimenti, piccole aggregazioni, club politico-culturali, collettivi, fondazioni che autoorganizzino i cittadini permettendo loro e fornendo la reattività poli­tica, il protagonismo sociale, l’impegno culturale e civile, il volontariato.

L’importante è non limitarsi ad agitare al vento discorsi che non riesco­no a far muovere i mulini per macinare grano o pestare acqua nel mortaio.

L’importante è praticare l’obiettivo: fare le cose, non limitarsi a denun­ciarle; sperimentare, e non solo predicare.

L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani; costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, le finalità. Perché – e mi avvio alla conclusione – la politica nuova deve basarsi, prima e oltre che sui programmi, sulle sue idealità e finalità, che a mio parere devo­no essere alte, altissime: si tratta infatti di dare l’assalto al cielo!

“Non deve più succedere che i più fòrti esercitino il potere e i più deboli vi si adattino” (Tucidice, Dialogo tra i Meli e gli Ateniesi).

“Non vogliamo che ci siano sempre governanti e governati, vogliamo inve­ce creare le condizioni in cui la necessità di questa divisione sparisca” (Gramsci).

Non vogliamo cioè, per usare l’espressione colorita e intensa di Francesco Masala, che vi siano da una parte i matttmannos, dall’ altra i lari­biancos. Si tratta di una finalità utopistica e irragionevole?

Può darsi. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento, quando affermava che l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo ragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini “irragionevoli”.

 

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