I DIRIGENTI DELLA SARDEGNA MODERNA E GLI APPUNTAMENTI DELLA STORIA, di Salvatore Cubeddu

SASSARI, salone di Palazzo Sciuti: Giovanni Mario Angioy entra a Sassari alla testa dei rivoluzionari sardi, nel febbraio 1796.

 

 

 


 

 

 

Un’ introduzione “storica”

A chi prosegue una riflessione! sul moderno ‘destino’ dei Sardi, il tema della classe dirigente nella storia della Sardegna contemporanea viene significativamente sollecitato dalla recente (nel 1998) pubblicazione del volume dell’Einaudi, che esce in un contesto generale (non solamente sardo, ma neanche solo italiano ed europeo) di trasformazioni che domandano il coraggio delle decisioni non meno della trasparenza e della capacità nei giudizi: quindi valide leadership.

È, appunto, da alcuni passi scelti di quella introduzione che appare utile intraprendere il discorso:

Nel 1920 Camillo Bellieni, maggior teorico del sardismo, analiz­zando le vicende, l’insularità geografica, la dimensione mediterra­nea della Sardegna (”che noi non siamo etnicamente e linguistica­mente italiani è un dato di fatto incontrovertibile”) giungeva all’a­mara conclusione che l’isola fosse una nazione irrisolta, o meglio una “nazione abortiva’: nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, erano mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo. ”Esiste la materia nel nostro paese per costruire una nazione affermava -,  ma questa materia per il passato non divenne mai coscienza, ed ora che lo è, è pensata da noi con intelletto d’italiani”. Il suo autono­mismo, mentre da un lato contestava duramente le strutture buro­cratiche dello stato accentrato, dall’altro respingeva ogni tipo di solu­zione separatista come “artificiose eresie e menzognere negazioni”. Bellieni poneva in evidenza con estrema chiarezza la natura delle rivendicazioni politiche del movimento autonomista e le motivazio­ni storiche e culturali dell’identità della Sardegna (pag. XIX).

La storia della Sardegna contemporanea conosce due tendenze opposte: la vocazione “ministeriale” di piena integrazione nella compagi­ne dominante; la scelta dell’opposizione e della valorizzazione auto­nomistica della realtà locale.

Nel Novecento la spinta all’integrazione appare ancora più eviden­te. Gli esempi sono numerosi e fra questi ricordiamo: l’esperienza della Brigata Sassari durante il 1915-18, quando nelle trincee maturò una nuova coscienza dello ”sfruttamento dei sardi” e si formò un nuovo blocco sociale tra la piccola borghesia intellettuale e

le plebi rurali, strappate all’isolamento dei villaggi e degli stazzi e proiettate traumaticamente nel mondo delle macchine e della guer­ra; la vicenda del Partito sardo d’Azione nel 1921-26 con la sua battaglia per la riforma in senso regionalista dello stato; il grande contributo di analisi e di iniziativa politica dato da Gramsci, Lussu; Velio Spano all’antifascismo italiano ed europeo; il dibattito sullo Statuto autonomistico nel 1944-48 nella Consulta regionale sarda e all’Assemblea costituente; il legittimo orgoglio dell’opinione pubblica isolana per l’elezione di due uomini politici sardi (Antonio Segni nel 1962 e Francesco Cossiga nel 1983) alla carica di presi­dente della Repubblica italiana; perfino la stessa vittoria della squa­dra del Cagliari di Gigi Riva nel campionato di calcio 1969-70 (pag. XLII).

… la questione sarda, che oggi si presenta in termini ancora una volta diversi con fattori nuovi (/’identità culturale e linguistica, il problema dell’ambiente, il peso del turismo, la crisi dell’autonomia) che si fondono con vecchie eredità (isolamento, sottosviluppo, frattu­ra città\campagna, criminalità) (pag. XLIV).

È un fatto sintomatico, ma dovuto, che un’ opera oggettivamente così rilevante, com’è questa “bibbia storica” degli studiosi di sinistra’ sulla Sardegna, introduca la presentazione dei due curatori – del peso accade­mico e politico del professore Antonello Mattone e del ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer – con la risposta dell’ organizzatore degli ex-combattenti al saggio “L’autonomia” di Egidio Pilia-’.

Con essa si riconosce, infatti, l’irrinunciabilità dell’ approccio “sardista” all’interpretazione della Sardegna in una situazione, come l’attuale, in cui tutti gli altri paradigmi trovano difficoltà a funzionare. Non si può leggere la storia di un popolo senza rendere principale anche il suo punto di vista.

 

D’altra parte, non si mostra identico interesse per la risposta problematica che Bellieni offriva, nello stesso breve saggio non casua mente intitolato “I Sardi di fronte all’Italia’, al passato e al presente del nazione sarda ‘abortiva’ :

Ma qui è il nodo centrale della questione. Abbiamo noi la forza morale di creare nel nostro organismo, di fare balzare fuori dall’oscura matrice della storia, una nazione sarda, concreta individualità che abbia un suo compito e una sua fùnzione nella vita europea? Problema morale che è fondamento di tutti gli altri problemi.

 

Forza morale sta per azione coraggiosa, animu in sardo, Indica, cioè, quella soggettività capace di fare, di un popolo sconfitto, una nazione consapevole. E diventa vissuto protagonismo allorché la sua classe dirigente si muove di fronte agli altri popoli, ad iniziare dall’Italia, per affermare il popolo sardo nel suo ruolo di “nazione”. Come successe all’Irlanda, la cui vicenda tanto interessò gli autonomisti di quegli anni.

In Camillo Bellieni agiva, forte, il richiamo culturale italiano e l’esperienza della ‘grande guerra’ quale ultima fase del Risorgimento”, alla qual gli eroici sardi avevano offerto un contributo determinante. Tutta la generazione combattentistica ne era stata profondamente influenzata. Non casualmente E. Pilia, personalmente esterno a quella vicenda, procedeva spedito nell’ affermare che “le nazioni sono immortali, qualunque prova attraversino.

Il percorso di Emilio Lussu nell”’italianità” risulta più complesso. Se l’esperienza combattentistica e la fondazione del partito sardo erano state anche per lui un viaggio nella coscienza, nelle ‘virtù’ e nei diritti del suo popolo, una nuova maturazione e un diverso sentire di sé e del mondo, seguito della battaglia europea dell’ antifascismo, lo cambiarono ideologicamente e culturalmente. Nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale la sua esperienza dei Sardi si trasformò in pessimismo, in sostanziale sfiducia, nonostante fosse possibile anche a lui vedere la sconfitta del socialismo come capacità di liberazione dei popoli oppressi.

Ad un certo punto anche Lussu pensò che la Sardegna si potesse liberare stando a Rorna”: come, prima di lui, il ministro liberale tanto avversato in gioventù (Cocco Ortu), e come decine di onorevoli sardi che non stimava. Anzi, sono rimaste testimonianze numerose di un suo risenti­mento profondo nei confronti dei Sardi: secondo taluni sarebbe stato que­sto a spingerlo alla scelta di impedire la traslazione delle sue ceneri nella terra natale (10).

Perché parlare di fatti finora non trattati (non trattabili?) proprio ora?

Certo, perché giunge importante per l’argomento e perchè il tempo lo rende possibile. Ma, soprattutto, per la terribile metafora che la vicenda dell’uomo più amato dai Sardi, non solo in questo secolo, contiene: Emilio Lussu – eroe del sardismo, leader della resistenza italiana ed inter­nazionale, fondatore della Repubblica e suo padre costituente – non viene nominato una sola volta nell’opera che ricostruisce la storia dell’Italia repubblicana da parte degli studiosi della sinistra. Responsabilità grave degli storici e drammatico destino dell’Uomo! Si ripete, così, quanto già avvenuto con la sua più famosa biografia, dove l’autore faceva finire l’at­tività ‘raccontabile’ dell’uomo nel 1949, con la sua uscita dal ‘sardismo’ (morì, invece, nel 1975). Vicenda che obbliga ad una domanda: è possi­bile ai dirigenti sardi fare storia in Sardegna attraverso l’Italia?

La storia sardista resterà intrinsecamente ambigua e si muoverà tra integrazione e opposizione finché non verrà raggiunto uno status accetta­bile di espressione delle capacità soggettive dei Sardi. Sempre che, come è successo a taluni popoli, non si accetti di scomparire.

Sono stati gli intellettuali, meno toccati personalmente dalle sconfit­te, a proiettare nel futuro la speranza: è stato proprio Bellieni, frenato nel suo lavoro intellettuale nell’ultima parte della vita, a fungere ancora da rnentore e maestro dell’indipendentismo federalista di Antonio Simon Mossa.

Questo per quanto riguarda alcuni cenni a proposito del meglio della dirigenza sardista.

E i politici degli altri partiti? Ed i “ministeriali”? E gli oppositori?

Dei “minisreriali” si può dire solo che hanno ricevuto la propria ‘mer­cede’ in virtù della loro fedeltà allo Stato.

Negli ultimi cinquant’anni, le filiali locali dei partiti italiani in Sardegna sono state costrette in qualche modo a ‘sardizzarsi’: quando sono state al governo della Regione, pochissime volte il loro autonomismo è entrato pubblicamente in collisione con il governo dello Stato (ricordo i casi di Alfredo Corrias, nel 1957, e di G. Del Rio, nel 1967). Nonostante l’esempio di dignità personale, si è trattato di focherelli, mai di un incendio. Rivendicazionismo ce n’è stato, quasi di continuo, ma solo per  massimizzare i trasferimenti finanziari dello Stato che verranno poi gestiti per perpetuare la stessa classe dirigente.

Tuttavia in Sardegna si è fatto molto, in questo secolo. L’Isola, accompagnandosi alla modernizzazione italiana ed occidentale, ha usufruito di significativi benefici materiali (in termini di salute, allargamento dell’istruzione, risanamento di alcuni territori, ad esempio) e di un’appartenenza fondamentalmente positiva, soprattutto a paragone di altri popoli. Comunque si guardino le cose: essere in Italia e nell’Europa Unita è dto fondamentalmente diverso dallo starne fuori, come i casi di altri Paesi mediterranei ed europei dimostrano.

Ma, insieme a vecchi e nuovi problemi irrisolti e ad un’unità statale sostanzialmente svantaggiosa rispetto ad altre regioni, la Sardegna, per dirla proprio con Bellieni, non “ha trovato la propria anima”. Anzi, è proprio questa – “l’identità culturale e linguistica” dell’introduzione al volume sulla storia della Sardegna da cui è partito questo ragionare – che è all’ ordine del giorno.

Detto in linguaggio politico, si tratta della “questione nazionale  sarda”!”, cioè dell’esistere socio-politico dei Sardi nel mondo.

Su questo anche gli oppositori sardi ai governanti in Italia non  hanno molto di che gloriarsi.

Lo stesso autonomismo dei loro uomini migliori, se si osserva con attenzione, non fa che riprendere – con continue avvertenze e distinzioni – osservazioni che i teorici del sardismo hanno avanzato prima di loro e diverso coinvolgimento e consequenzialità personale.

In Sardegna, è vero che esiste un sardismo diffuso, così come esiste un vino doc e tanti vini più o meno annacquati. Resta semmai aperta la questione del sardismo che ci è ora e ancora “necessario”.

Il problema è, dunque, che, anche per il singolo dirigente, si dà Sardegna il passaggio tra l’opposizione e l’integrazione. E questo non riguarda solamente il ‘ministerialismo’, ma il punto di interessamento, la leva da cui muovere il proprio agire. Si può essere all’ opposizione in Italia senza diventare significativamente ‘utili’ alla Sardegna.

 

 

Gli altri tentativi.

 

Resta, quindi, quale fondamentale oggetto di riflessione, per la parte maggioritaria della classe dirigente sarda!”, l’orizzonte collettivo del suo agtre.

La situazione è irrisolta da duecento anni. Da quando, con il 28 apri­le 1794, la prima “carta autonomistica della Sardegna’” camminò sulle gambe del suo popolo.

 

Infatti, il triennio rivoluzionario, 1794-96, esprime la piattaforma dei cinque punti. Decide di rivolgersi direttamente a Torino, saltando i rap­presentanti locali del re. Una volta respinta, fa muovere il popolo. Vince nel breve periodo, esprimendo episodi di eroismo esaltante, da parte dei capi come tra il popolo di città e campagne. Fallisce per le contraddizio­ni interne alla classe dirigente (gli stamenti). I capi che si erano spinti verso la rivoluzione francese pagheranno con l’esilio e la morte, gran parte della dirigenza si sottometterà nuovamente ai Savoia, chiedendo perdono e cercando di dimenticare. Qualche anno dopo anche in Europa avrebbe vinto la reazione.

 

I fatti del novembre 1847 verranno riassunti da Siotto Pintor, 30 anni dopo: “Errammo tutti, fummo presi da una follia collettiva”. Troppo tardi! La rinuncia all’ autonomia istituzionale, la richiesta della ‘fusione perfetta’ della Sardegna al Piemonte, verrà ‘sottomessa’ alla benevola accettazione del re, in un’ operazione di forzato mimetismo tra le proprie condizioni e quelle del continente. Essa conclude a livello istituzionale il feroce esito sociale della legge delle chiudende, del codice feliciano (che aveva sostituito la Carta de Logu nel 1827) e dell’ abolizione degli adem­privi. Viene deciso quasi clandestinamente, dopo un moto di popolo a Sassari e a Cagliari, da una piccola parte della classe dirigente. La Sardegna vuole inserirsi, anticipandolo quasi, nel moto risorgimentale italiano. Non sarà la prima volta che i Sardi vorranno dimostrarsi più realisti del re. A partire dalla riflessione di questi fatti, Giovanni Battista Tuveri teo­rizzerà il federalismo sardo.

 

Il movimento dei combattenti ed il P.5.d’A. nascono come organizzazio­ne di massa che colloca nell’ autonomia e nel federalismo i punti alti del suo programma istituzionale. Vennero chiamati “irlandisti” allorchè arrivarono in Parlamento. Erano contemporanei dell’irridentismo irlandese, quello che vinse: era più deciso e disposto a tutto. L’Italia virava in direzio ne di un più accentuato centralismo, verso la dittatura. Ai giovani dirigenti sardisti, una volta lasciata per incertezza la prima ipotesi (la resistenza armata al fascismo), non rimaneva che la trattativa: legazione a Roma, attesa di un proconsole fascista a Cagliari; promesse; trattativa; interne divisioni alla leadership sardista; confusione tra i quadri e gli iscritti, “entrismo” ed opposizione; iniziale parvenza di originalità del sardo-fascismo e sua sconfitta, mentre Lussu si avviava alla resistenza e tanti altri alla non-collaborazione.

Lo Statuto del 1948 – ed il consiglio regionale del 1949 – nasce con scarsi poteri, nessuna struttura per applicarli, alcuni nemici (dichiarati), taluni (in tutti i sensi) opportunismi. I ritardi delle norme di attuazione e gli sgambetti della burocrazia romana non impedirono una partenza ed alcune scelte tutt’altro che trascurabili. L’autonomia nasce indebolita, cresce povera, vuole vestirsi troppo in fretta delle vesti di fuori. Invecchiando, i suoi difetti si ingigantiranno. Ma non era bella già prima. I Sardi, poi, affideranno la sua gestione a partiti che, in non pochi casi, si comporteranno come obbedienze locali di centrali esterne, la cui testa, e soprattutto il cuore, erano altrove. Lo Stato, nelle sue varie espressioni, si è messo di traverso: nella costruzione della norma, nel suo completamento, nell’applicazione. Anche nel periodo democratico sono stati più che sperimentati i suoi comportamenti: debole con i forti e forte con i deboli.

 

 

Il tempo dei Sardi

Le nazioni forse sono immortali, ma non gli uomini. Il tempo viene, offre le occasioni al protagonismo degli individui e dei popoli e, poi, procede.

È da almeno trent’anni che, a ritmo continuo, profeti inascoltati spie­gano ai Sardi il ‘perché’ ed il ‘come’ le istituzioni, la cultura, l’economia ed il loro distribuirsi nel territorio necessitino di una verifica critica e di azioni conseguenti.

È stata, ancora una volta, la Sardegna, all’inizio degli anni ’80, a riprendere la via dell’identificazione etnica quale fondamento del proprio esistere nel mondo. La delusione per come è stato gestito quel moto di risveglio è parte non secondaria dell’ attuale scoramento.

Ma il tempo non appare del tutto trascorso. Dunque, si può ricominciare.

 

Tre punti appaiono subito individuabili come utili: ‘chi’ e ‘come’ costruisce, ‘cosa’, ‘perché’?

Si parla di Assemblea Costituente Sarda, di distribuzione territoriale della popolazione, di neo-comunitarismo.

a) L’Assemblea costituente sarda riunisce i rappresentanti del Popolo Sardo eletti secondo il metodo proporzionale per decidere le proprie leggi fondamentali. Queste resterebbero valide per i tempi a venire, finchè una simile assemblea non deciderà di cambiarle. Essa viene convocata dal Consiglio regionale, al cui interno è maturata la convinzione che i Sardi sono capaci di darsi le proprie leggi e di decidere, con serenità ed accor­tezza, dei loro diritti ed interessi nel rapporto con l’Italia, l’Europa ed il contesto mondiale.

Tenendo conto dei tentativi compiuti sia a Cagliari che a Roma per riscrivere lo Statuto e la Costituzione, gli attuali consiglieri della Sardegna concorderebbero con la gran parte della pubblica opinione, o per lo meno con la più consapevole, per dare inizio ad una fase di totale rinnovamen­to della vita pubblica nell’Isola. A questa impresa invitano ad associarsi tutti i cittadini capaci ed onesti.

Dovrebbe essere più o meno questo l’atteggiamento sottostante alla con­vocazione dell’Assemblea di cui si discute ed in vista della quale si costitui­scono comitati. Di essa bisogna cogliere i pregi e prevederne i problemi. L’accordo delle principali forze politiche sarde e la collocazione della Sardegna nella presente crisi italiana rappresentano i dati più problematici.

Il centro-destra sardo, firmando la proposta di legge sull’Assemblea costi­tuente, è sembrato aver tagliato il nodo scegliendo questo originale percorso.

Il centro-sinistra ha taciuto, forse attendendo un qualche sblocco da una nuova bicamerale romana. Procedendo così le cose, la situazione presente­rebbe il paradosso della sinistra che non sceglie una soluzione autonomista alla crisi sarda.

La proposta di legge sull’Assemblea Costituente Sarda, in verità, appa­re del tutto interna alla tradizione sardista. Lo è nei fatti, prima che nel percorso. Essa arriva dopo almeno tre anni di tentativi di mettere insieme i Sardi, di tutte le opinioni politiche e di ogni condizione sociale, per discutere e decidere del proprio comune destino. La “casa comune dei Sardi”, il “forum”, le varie “costituenti” e la recente iniziativa del “con­gresso dei Sardi” non vanno tutte nella-direzione di un momento istituzionale  unitario per andare a re-iniziare? Una volta depurate da tentativi egemonici o da strumentalità elettoralistiche, fatta propria dalla parte rile­vante dei gruppi politici regionali, la legge fondamentale che uscirebbe dall’Assemblea costituente sarda nobiliterebbe tutti pur permettendo l’e­spressione delle posizioni di ciascuno.

Essa allargherebbe il dibattito, stimolando le migliori energie intellet­tuali. Il coinvolgimento delle esperienze estenderebbe il numero e l’area di interesse della classe dirigente, recuperando al protagonismo energie anco­ra disponibili. La consapevolezza delle responsabilità apporterebbe valida iniziativa alla necessaria nuova cultura autonomistica.

Il percorso della legge non è breve né semplice. Per arrivarci si è imboc­cata la strada più lunga. Si sono raccolte le diecimila firme. La proposta, salvo passaggi preferenziali, dovrebbe essere esaminata dalla commissione “autonomia”, prima di venire votata in aula. Dopo il consenso della Sardegna essa passerebbe nella sede deputata dalla Costituzione italiana: l’approvazione nei due rami del Parlamento da parte della maggioranza assoluta dei legislatori italiani. Ma avrebbe potuto saltare il Consiglio regionale se un solo deputato o senatore, o ventimila elettori, avessero pre­sentato la proposta a Roma. Però, come pretendere il consenso del Parlamento se esso non si realizza nell’ attuale Consiglio sardo?

Le comprensibili difficoltà del percorso potrebbero legittimare il dub­bio che, anche tra i consenzienti, proprio l’impossibilità dell’impresa ne abbia favorito l’appoggio. Pare che questa costituisca una delle remore di alcuni, pur volenterosi ma ancora defilati, componenti del centro-sinistra.

E allora? “La Regione Autonoma della Sardegna vive oggi una crisi epocale e straordinaria. Eccezionale deve essere dunque lo sforzo inventi­vo e creativo … per progettare la Regione del 2000, quella attraverso la quale i Sardi si dovranno confrontare con l’Europa. Per raggiungere que­sto storico obiettivo serve uno strumento straordinario: l’Assemblea Costituente del Popolo Sardo”. La citazione proviene dalla brevissima relazione dei proponenti. Dopo che si è d’accordo, cosa si fa?

 

b) Mettiamo che il progetto italiano del cosidetto federalismo fiscale preveda, come sarebbe naturale, che le tasse dei Sardi, invece che a Roma, vengano raccolte a Cagliari; come reagirebbero i 2/3 dei cittadini nel dover pagare al capoluogo gli stipendi della burocrazia regionale (che pare sia percentualmente doppia rispetto addirittura ai numeri dello Stato), i suoi sprechi (che dire dei circa 500 miliardi previsti per nuovi uffici?), le sue inefficienze, la sua auroreferenzialità ed il suo autoriprodursi attraver­so figli e parenti?

Si ha presente il traffico cagliaritano di ogni mattina, dalla via Roma fino a Pirri, ed i trasferimenti a Quartu, etc … , e, quindi, le nuove esigen­ze della metropolitana leggera, ed il passaggio sotterraneo sotto la via Roma, la sopraelevata sopra Tuvixeddu per proseguire l’asse mediano ed … i finanziamenti relativi?

Il cuore del problema: 1/3 degli abitanti della Sardegna, negli anni del­l’autonomia, si è spostato a Cagliari e, dopo aver esaurito le scorte di ter­ritorio urbano, va occupando i comuni limitrofi. Questi si sono trasfor­mati ormai in periferie-dormitorio da cui muovono quotidianamente migliaia di persone, che si aggiungono alle altre migliaia che vi si recano per motivazioni funzionali.

Tutta la classe politica locale si sposta, per consultazioni e pratiche, verso il capoluogo, in tanti casi coprendo in tempo di viaggio più di quan­to spenda in impegno.

Ogni anno quasi quarantamila studenti universitari stazionano nella città da cui attendono soluzioni e spazio alle attese della loro professiona­lità. La diaspora delle future generazioni e dei potenziali dirigenti conti­nua nel suo flusso urbano a svantaggio del restante territorio.

La pressione di queste forze giovanili sul mercato del lavoro – che sot­tintende una richiesta del giovane alla famiglia per procurargli uno sti­pendio – rappresenta la spinta alla moltiplicazione dell’impiego pubblico. Qualche anno fa una forza politica aveva immesso in quattro cooperative “urbane” centinaia di giovani destinati all’impiego nei parchi naturalisti­Cl. Questa burocratizzazione delle campagne, che rappresenta l’aspetto “materiale” dell’ideologia ambientalista, è il filo sotteso all’infinita nor­mazione sul “vivere in campagnà’.

La risoluzione del problema burocratico – tema vastissimo, premessa dell’ efficacia di qualsiasi innovazione vera alla Regione sarda – risulta for­temente legato allo snodo popolazione/territorio.

Già vent’anni fa, nel sindacato sassarese, era nata l’ipotesi di riconside­rare il ruolo di capoluogo di Cagliari. Recentemente una simile proposta arriva dal Nuorese, presentata nella dimensione storico-politica ma pru­dentemente evocata più come “possibilità” che come obiettivo immedia­tamente importante.

La prudenza è giustificata. Il fatto grave ed evidente è che, per chi ragioni in termini di avanzamento della soggettività nazionale della Sardegna, ogni mutamento capace di scatenare polemiche ed interne divi­sioni non può non essere visto con sospetto e prudenza. Infinite volte i padroni esterni dell’Isola hanno attizzato diffidenze e contrasti tra i due ‘capi’ per dominarli entrambi. Troppo mediocri ed immaturi appaiono taluni settori della classe politica locale per non approfittare di una simi­le polemica per acquisire legittimazione verso i propri rappresentati a svantaggio del progresso di tutti.

Ancora: a parere di chi scrive, il moto che, dopo quasi mille e cinque­cento anni, riporta i Sardi verso le proprie coste contiene aspetti estrema­mente positivi (al di là dell’inevitabilità del processo), se motivato e cor­retto nei limiti gravi che pure vi sono compresi.

Esso segnala, insieme alla risoluzione dei secolari problemi della salu­brità e sicurezza delle coste sarde, un’ apertura al mondo esterno che è pure volontà di protagonismo.

Tra questi, vista nella prospettiva del periodo lungo, il fatto che final­mente i Sardi si sono reimpossessati delle città. Delle sette città “regie”, ancora presenti a metà dell”SOO, infatti, quattro (Cagliari, Alghero, Castelsardo, Bosa) non erano altro che castelli che, soprattutto simbolica­mente, rappresentavano il rinchiudersi in difesa dei ceti dominanti ester­ni nei luoghi dove era risuonato l”‘a foras sos sardos!”. Delle rimanenti tre città, fortificate (Iglesias, Sassari, Oristano), solo l’ultima era nata su fon­damenta solamente locali. Ebbene, oggi, queste e le altre cittadine della Sardegna sono totalmente in mano ai Sardi!

Cagliari è stata conquistata dalla regione autonoma. E’ una citta tra le più belle del Mediterraneo per natura e per storia. Coi vantaggi della sua posizione istituzionale ha costruito ed integrato una classe dirigente venu­ta dall’interno della Sardegna che oggi mira a confrontarsi positivamente nel mondo.

Cagliari deve ora contribuire al benessere di tutti i Sardi dirigendo un riequilibrio che interessa innanzi tutto se stessa.

Le decisioni che le classi dirigenti sarde devono compiere avranno effetti nei prossimi decenni: ma occorre decidere oggi! Dovremmo ragio­nare avendo presenti tempi non brevi (così come l’attuale situazione è frutto delle scelte degli ultimi cinquant’anni).

Abbiamo bisogno di immaginarci il nostro futuro.

Esiste nel centro occidentale dell’Isola, baricentrica in termini orografici e geografici, un insieme di colline che degradano dal Monte Arei (la mon­tagna dell”’oro nero” del felice tempo neolitico) verso un porto ed un aero­porto. Da quell’acropoli naturale, dove potrebbero trovare la loro sede le nostre nuove istituzioni – quelle della rappresentanza politica, della cultura, della! e religione e delle associazioni – una serie di strade rinnovate, comode e veloci, potrebbero condurre in un’ ora a tutti i comuni dell’Isola. In essi risiederebbero gli ‘impiegati’ della nuova regione: collegati via rete attraver­so il tele-lavoro, essi raggiungerebbero il centro solo per funzioni di indiriz­zo e di controllo, ma resterebbero residenti nei paesi. La non facile gestione di questo processo – ipotizzabile in qualche decennio, ma non certo ecce­zionale se si consideri solo quanto avviene, e continuerà ad avvenire, nelle riconversioni industriali – prevederebbe la scelta volontaria degli attuali addetti, l’incentivo e l’intervento progressivo solo per i nuovi assunti.

Per i finanziamenti: dovrebbero utilizzarsi le centinaia di miliardi già previsti per costruire quello di cui abbiamo parlato alla periferia dell’hin­terland cagliaritano!

 

Una classe burocratica diffusa nel territorio apporterebbe reddito, conoscenza, vitalità e senso agli ampi spazi interni della Sardegna. Insieme ad una agricoltura, alla pastorizia e ad un artigianato dai prodotti ‘doc’ renderebbe autosufficiente ed appetibile anche ai forestieri la permanenza nei nostri piccoli comuni. Ne risulterebbe valorizzato quel patrimonio abitativo che invano si cerca di salvare, altrettanto spazioso e gradevole, nelle periferie suburbane di Cagliari. Tutto ciò offrirebbe un’occasione di lavoro anche ai giovani dei piccoli paesi.

Il ritorno alle coste – che, congiuntamente al calo della natalità, sta intaccando anche la demografia della stessa Nuoro e Sassari – ha bisogno di uno sforzo ulteriore di creatività. Tutti i Sardi hanno il diritto di gode­re del proprio mare. Il turismo attuale, gestito prevalentemente dal capi­tale straniero, nei finanziamenti come negli approvvigionamenti, non ci riporta convenienze. Esso ha senso se a gestirlo siamo noi. È possibile comprendere nell”‘albergo diffuso” anche alcuni insediamenti program­mati per offrire una ‘casa al mare’ ai cittadini sardi che siano disponibili

ad uniformarsi ad alcune condizioni?        •

Decidere sul destino del proprio territorio resta uno dei compiti essenziali di questa “ora” della Sardegna.

 

 

c) Si è già detto della delusione succeduta al risveglio etnico degli anni Ottanta: insieme ai sequestri di persona, essa rappresenta il senso di fru­strazione più immediatamente tangibile dell’attuale psicologia collettiva.

L’approfondimento delle motivazioni di questo scoramento – general­mente affermato tra la gente sarda in questa fase della sua vita collettiva, anche nella classe dirigente – dovrebbe indirizzarsi ad individuare i tentativi falliti delle ultime risposte offerte ai nostri problemi.

Nell’ economia permane la difficoltà ad ottenere risultati sicuri in ter­mini di reddito e di occupazione generalizzati attraverso gli imprenditori sardi e le risorse locali. La politica vede una classe dirigente generalmente non stimata, poco preparata, atomizzata al proprio interno secondo appartenenze subalterne a logiche esterne, salvo eccezioni, senza una bus­sola che non sia l’immediato interesse personale. Si aggiunga che il buio di un’ alternativa, dopo il progressivo ritiro di fiducia da parte dei Sardi nei confronti del tradizionale riferimento locale – il partito sardo, comunque lo si interpreti – rappresenta un blocco al fare meglio. Uniti nella manca­ta promessa delle ultime esperienze governative, si capisce il senso di fru­strazione che questa situazione rimanda.

Né, d’altra parte, la società sembra esprimere episodi edificanti e segni di incoraggiamento. Il sequestro di Silvia Melis (la risonanza nei mass­media, la mobilitazione popolare, i dubbi sulla risoluzione) ha conferma­to, se mai ce ne fosse stato bisogno, i sentimento di vergogna di sé che non da poco accompagna i Sardi nel contatto con gli altri.

L’inspiegata (inspiegabile?) uccisione di don Graziano Muntoni – per il suo ruolo, il luogo e le modalità dell’ atto – conferma un modo di essere in cui appare giustamente impossibile riconoscersi.

Non tira aria buona, di questi tempi, in Sardegna!

Eppure ci sono segnali, sembrano aprirsi dei percorsi, è forse. possibile l’indicazione di un cammino non impossibile. Ci si riferisce al bisogno ed all’offerta di “comunità”.

Il movimento neo-comunitario è per i sociologi l’ orizzonte. salvifico nell’ attuale disgregarsi di molte istituzioni. Esso rappresenta la risposta ai fallimenti storici che in questo secolo hanno realizzato le ideologie dell’Ottocento nel loro tentativo di affrontare l’esito finale della rivolu­zione industriale ed urbana allorchè si sono rivelate incapaci di mantene­re al livello diffuso le loro promesse: valorizzazione piena delle capacità individuali ed eguaglianza delle opportunità e degli esiti collettivi. Il fallimento arriva da destra e da sinistra: la prima bara tentando di forzare con l’autoritarismo la dissoluzione della società tradizionale; la sinistra, sia che parta dall’individualismo, sia che abbia fatto riferimento ad un comuni­smo inevitabile, non sa più cosa proporre alla crisi di senso che permea l’Occidente.

I Sardi sono in mezzo al guado nel percorso dalla tradizione alla modernità e rischiano di perdere quella e di non raggiungere questa. Eterni pagani al seguito di dei stranieri, essi rischiano di inseguire gli ulti­mi simulacri che l’imbecille di turno abbandona sul mercato. Un certo melting pot culturale oggi è un dato universale, facies accettata della comunicazione globale e prodotto forse inevitabile, e per certi versi posi­tivo, dei rapporti inter-etnici. Ma l’abbandono di sé, quel terribile buttarsi via che appariva la meta di taluni mediatori intellettuali così di moda in tempi recenti, questo sì che si è rivelato disastroso.

Possiamo parlare oggi di questo perché molto sappiamo di noi. La coscienza infelice dei Sardi ha spinto ad una creatività nuova: quella di immaginare se stessi come diversi. Però, non come una fuga vergognosa da sé, l’uccisione di quella natura che è frutto di un percorso di secoli. Ma intraprendendo un viaggio più profondo nel proprio intimo, nelle radici del collettivo agire che, nel bene e nel male, esprime quello che si è.

I Sardi oggi sanno di sé come non mai. In verità più dei propri vizi che delle proprie virtù. L’autocritica può risultare utile se trasforma in meglio, non se diviene depressione rovinosa.

Dal proprio dolore nasce una speranza: la possibilità di farcela insieme.

Se il moderno traguardo delle scienze sociali diventa la costruzione comu­nitaria, si apriranno nuovi traguardi ad un’ economia che abbia il nostro target, potremo formare una cultura che agisce il nostro sentire (il sardo “su sentidu”) e offrirci istituzioni rispettabili ed utili.

 

l Sul tema si è già intervenuti in 1; Unione Sarda, 30 gennaio 1998, Autonomia, storia di una promessa tradita; ibidem, 6 aprile 1998, Le opere e i giorni di un’autonomia che in Sardegna è cre­sciuta debole.

 

2.(a c. di L.BERUNGUER e A. MATTONE), La Sardegna, G. Einaudi Editore, Torino 1998.

 

3 EGIDIO PILIA, L’autonomia sarda. Basi, limiti e firme. In “Il movimento autonomistico in Sardegna (1917-25)”, (a c. di S.SECHI), Fossataro, Cagliari 1975.

 

4 Per l’approfondimento di queste considerazioni si rimanda al discorso commemorativo dei 70 anni della fondazione del Partito sardo d’Azione tenuto ad Oristano il 17 aprile 1991 e pub­blicato sul periodico “Il Solco, n° 4, marzo 1991, col titolo” Una riflessione sull’ieri per parlare del­l’oggr, e nel n° 5, maggio 1991, “Dalla memoria un grande impegno per domani’,

 

5 S. CUBEDDU, Sardisti, Edes, Sassari, voI. I, pago 172 ss,

 

6 Due anni più tardi, introducendo il secondo congresso del P.S. d’A. ad Oristano (29 gen­naio 1922), egli definirà l’autonomia come “completo possesso della nostra anima che da secoli ci sfugge e che di lontano ci appare come un oscuro simbolo egizio” (in Sardisti, cito pago 533).

 

7 È’ il caso di ricordare che in occasione di un dibattito provocato sul quotidiano sardista “Il solco”, Bellieni, che aveva precedentemente richiamato il concetto di “nazione mancata”, si vide accusare da un sassarese di nome Farris.

 

8 E. PILIA, cito

 

9 Sul tema dell’utilità dello stare a Roma era intervenuto al 111° Congresso sardista di Nuoro (29 ottobre 1922) il deputato Umberto Cao : “I sei mesi che si passano a Roma non parranno spre­cati in confronto all’opera di organizzazione che si potrebbe e dovrebbe fare nella massa dei Sardi? I quattro sardisti ( N.del R) perduti nella folla di più di 500 energumeni – di là del Mediterraneo silenzioso – non possono mettere a profitto quell’ energia che nel paese sarebbe più efficacemente impiegata” (Sardisti, cito pago 548).

 

lO Ma l’atteggiamento di delusione dei leaders sardisti nei confronti dei propri compatrioti non toccò solo Lussu e non è una caratteristica dei soli sardisti: per gli altri casi si veda Sardisti, voI. II, cir., pago 659-672.

 

Il (a C. di R BARBAGALLO), Storia dell’Italia Repubblicana, Einaudi, Torino 1998.

 

12 GIUSEPPE FIORI, Il cavaliere dei Rossomori. Vita diEmilio Lussu, Torino 1985.

 

13 Lettera di A. Simon Mossa ad Anselmo Contu dell’Il novembre 1967, in Sardisti, II, cit., pago 481 ss. Afferma, tra l’altro, l’architetto sassarese : “E infatti è proprio su Bellieni che un “indi pendentismo federalista razionale si può basare, opposto e contrario al “sentimentalismo separati­sta” di quei gruppi o di quegli individui incapaci di porre il problema (la Questione Sarda) in ter­mini concreti” (ivi, pago 484).

 

14 GIANFRANCO CaNTU, La Questione Nazionale Sarda, Alfa editrice, Quartu S. E. 1990.

 

15 Parte di questo paragrafo riproduce quasi integralmente il pezzo centrale dell’articolo usci­to su L Unione Sarda il 6 aprile 1998.

 

16 Si intende qui per ‘classe dirigente’ l’insieme di coloro che hanno responsabilità nella poli­tica, nell’ economia, nella cultura, insomma nella società sarda. Per un approfondimento del tema, si veda: AA. w., Elise politiche nella Sardegna contemporanea, F. Angeli, Milano 1987, pago 21 ss,

 

17 La definizione, di ITALa BIROCCHI (La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moder­no. Le “leggi fondamentali” del triennio rivoluzionario (1793-96)”, Torino 1992, viene ripresa da L. BERLINGUER ed A. MATTONE in Sardegna. cit., pago xxv. Gli stessi autori riportano l’opinione di Girolamo Sotgiu a proposito dell’individuazione nei moti politici di fine Settecento del momento originario di formazione dell’istanza autonomistica” (pag. XLV).

 

18 Scrive GIANFRANCO PINTORE (in La sovrana e la cameriera, cit., pag 82 ss.) : “Una rortura di continuità con un passato che ha fatto di Cagliari una città altrettanto lontana di Roma (basti pensare che, anche visivamente, fisicamente, il parlamento sardo è rivolto non all’interno della Sardegna ma al mare, proiettato verso l’esterno) può passare anche attraverso la costituzione della capitale sarda in un luogo diverso dall’attuale capoluogo. Una capitale piccola, funzionale ai poteri di coordinamento di cui si diceva, non subordinata e non compradora, non congestionata dalla buro­crazia. Questo non solo avrebbe l’effetto di suscitare un simbolo riconoscibile da tutti i sardi, auto­nomo dalle scelte fatte dall’esterno, ma restituirebbe a Cagliari la funzione di città della Sardegna rendendola vivibile e gradevole”.

SuI ruolo di Cagliari esiste una letteratura contradditoria. Ma lo stesso IlARIO PRINCIPE, nel­l’introdurre la sua fondamentale monografia su Cagliari (editore Laterza, Bari 1988) avvertiva che ” … Cagliari, allo sbocco della fertile pianura dei Campidani, ben attestata su ricche saline e pesco­si stagni, da sempre insediata attorno al suo sicuro approdo e non lontana dalle ricche regioni minerarie dell’ ovest, non è mai stata in grado di assolvere non solo ad una funzione di guida per tutta la regione, ma neppure a organizzare intorno a sé un apparato produttivo capace di spingersi oltre le anguste mire del predatore di turno” (pag. 3).

 

NOTA. Questo saggio è stato pubblicato nel 1999 in “ L’ORA DEI SARDI”,  (a cura di Salvatore Cubeddu, Edizione della Fondazione Sardinia, Cagliari, 1999, pag. 323 ss.). Il libro è scaricabile da questo sito in PUBBLICAZIONI/MONOGRAFIE.

 

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