GOVERNARE LA SARDEGNA COME UNO STATO, di Vindice Ribichesu
Occorre un’ osservazione preliminare sul titolo di questa relazione, titolo che può anche ingenerare qualche equivoco o suonare provocatorio. Prego perciò di notare le virgolette dell’ espressione “come uno Stato”. Ciò vuole significare più concetti. Il primo dei quali è che pur restando “regione a statuto speciale”, la ‘Sardegna è un soggetto giuridico che per la sua storia, le condizioni geo,grafiche, sociali ed economiche ha bisogno di autogoverno, e quindi di una classe dirigente capace di autonomia vera e cioè capacità di autonor. mazione su tutte le materie che è possibile ottenere da strutture statuali
più vaste e più articolate rispetto al recente passato. Vedremo più avanti qualche esempio.
In un mondo di interdipendenze, di globalizzazione dell’ economia, dell’informazione, etc., non si può dar adito a teorie indipendentiste vecchie (almeno quanto quelle sullo stato-nazione), che rischiano di diventare puro nominalismo. Si chiami Stato, si chiami Regione, la Sardegna non può più rinunciare ad un’azione politica che miri a ritagliare per sè quote di sovranità in materie gelosamente tenute strette dalla struttura centralista dello stato nazionale.
Secondo concetto dell’ espressione “come uno Stato” è che la Regione a statuto speciale già oggi, nel quadro costituzionale vigente, non è – come pure continuano a definirlo gli ambienti ministeriali e politici romani un “ente locale”, ma è un ente di governo complessivo di una ben determinata società, di un territorio, cioè di un popolo. Con tutte le implicazioni relative.
Terzo concetto implicito nel titolo è la “specialità” della Sardegna. La rivendicazione di specialità è necessaria non tanto e non soltanto in seguito ai tentativi di appiattimento della specialità che vi è stata in tanta parte del dibattito politico e nelle proposte fatte al Parlamento da parte della fallita Commissione Bicamerale per la revisione della seconda parte della Costituzione: ma soprattutto perchè si va verso strutture statuali di dimensione continentale e le ragioni per le quali fu concessa a suo tempo la specialità in Italia, non soltanto sussistono, ma vengono esaltate in un quadro europeo e di relazioni tra Europa e Stati che si affacciano nel Mediterraneo.
La ripresa della lotta politica per la riaffermazione della specialità si rende necessaria quindi per determinare meglio la natura e l’estensione dell’autonomia che può e deve avere la Sardegna, nell’ambito non soltanto della Repubblica Italiana, ma anche nell’ ambito dell’Unione europea.
Maastricht ha già strappato al governo dello Stato nazionale molte competenze in materia di finanze e di bilancio, la Conferenza di Barcellona e la conferenza di Amsterdam hanno dato una prima inquadratura ai rapporti di partenariato con gli stati terzi, soprattutto del Mediterraneo, ed ai rapporti interni all’Unione, assumendo l’insularità come titolo per le azioni di riequilibrio tra le varie regioni d’Europa per quanto attiene a condizioni di parità. Ciò finisce per toccare il campo dei “diritti di cittadinanza” e quindi allarga notevolmente il campo nelle capacità di autonomia (e quindi di autonormazione) su materie nuove per l’autonomia regionale come finora è stata intesa. Il nuovo assetto che sta assumendo l’Europa può e deve dare alla Sardegna un ruolo che legittima l’istanza di specialità non soltanto nei confronti di Roma, ma nei confronti di Strasburgo, Bruxelles, Parigi, nei confronti cioè dei centri decisionali europei, compresa quella Conferenza delle Regioni europee, oggi un organo puramente consultivo e senza un effettivo potere, dato che nemmeno il Parlamento europeo ne ha molto. In prospettiva, però, si potrà parlare di un Senato delle Regioni europee simile, per funzioni e condizionamenti, al potere esecutivo, al Bundesrat tedesco.
. Prima conseguenza di questo ragionamento, e la più evidente, è che niente è stato fatto perché vengano ridisegnati i collegi elettorali e il Parlamento europeo. L’attuale condizione della Sardegna è quella della impossibilità quasi matematica (come hanno dimostrato le ultime consultazione elettorali europee) che abbia poi rappresentanti a Strasburgo. I tatticismi del dibattito sulle riforme costituzionali hanno fatto dimenticare il principio della rappresentanza, al di là delle dimensioni del collegio, che proprio m virtù della specialità di certi statuti regionali, viene data a realtà socio-politiche minori, come la rappresentanza della Valle D’Aosta nel Parlamento Nazionale. Altrettanto occorre fare per la Sardegna per quanto attiene i centri decisionali europei.
Dalle problematiche accennate derivano più articolate conseguenze. La crisi dello Stato nazionale è certamente di molto superiore al livello che emerge da un sistema di informazione esso stesso condizionato dalla sua dipendenza dai poteri politici e finanziari del Paese.
Il federalismo non può essere soltanto una risposta a Bossi o al partito dei sindaci (per quanto riguarda il federalismo interno), ma è una necessità determinata dal fallimento funzionale ed anche finanziario
dello Stato centralistico.
La corruzione non è la causa (almeno non è la sola causa) dell’ enormità
del debito pubblico che ha già compromesso la disponibilità di molte generazioni future, ma è patologia di un sistema di governo già divorato da un cancro che esso stesso si è costruito con una congerie di leggi, diventato ormai una giungla inestricabile. Si diceva, fino a poco tempo fa, che le fonti normatìve principali vigenti in Italia siano circa 150.000, alle quali occorre aggiungere tutte quelle di regolamentazione ministeriale e quelle delle regioni che hanno forza di legge. Circa 200.000 fonti norrnative. Il ministro Bassanini (lodevole perchè almeno sta tentando di mettere un po’ di ordine nella materia anche se raramente va al di là di un mero decentramento amministrativo) dice ora che in effetti le fonti .norrnative non sono 200.000, ma “soltanto” 68.000: un bel progresso di fronte alle 5.000; 6.000, 7.000 leggi di Gran Bretagna, Francia e Germania.
Il federalismo, in altri termini è anche – pur se non solo – la via di fuga per il fallimento dello Stato nazionale. Il fatto è, come ha dimostrato la bicamerale, che non si vuole un vero federalismo – che significherebbe divisione della sovranità – ma che si vuole un taglio delle spese per Regioni ed enti locali, lasciando i pesi dei servizi alle strutture locali per i quali è stato ritagliato un nuovo onere fiscale, con la libertà per gli enti locali di integrarlo con proprie sovratasse. Questo tipo di federalismo fiscale – d’altra parte già sperimentato il passato – ha poco a che fare con il vero federalismo dove alla struttura centrale dello Stato vengono riservate soltanto alcune materie: la moneta, la giustizia, la difesa, la politica estera.
Poiché alcune di queste materie sono, di fatto, demandate ad organismi comunitari (almeno per la normativa) si cerca di recuperare spazio a favore delle strutture centrali (non soltanto dello Stato, ma anche per le strutture centrali dei partiti), a spese delle competenze che dovrebbero andare agli organi di autogoverno regionale, quanto meno per la funzione di controllo.
Si pensi, per esempio, ai Beni Culturali: le riforme in atto mirano a
conservare alla struttura centrale dello Stato tutte le competenze che già ha, per cui i Nuraghi, simbolo della cultura sarda, appartengono allo Stato e non alla Regione e questo, si dice, perchè le Regioni hanno dimostrato di non saper tutelare i propri beni culturali, come dimostrano i palazzi costruiti nella Valle dei Templi ad Agrigento, o l’albergo sulla costiera amalfitana.
La verità è che è in atto un’ azione politica che mira soprattutto al “continuismo” tra il vecchio ed il nuovo centralismo e che l’evoluzione delle strutture statuali europee viene visto esclusivamente in funzione della salvaguardia del potere dello Stato (così come viene inteso a Roma) nei confronti degli “enti locali” sottoposti. Contrastare questa linea significa avere necessità di un personale politico molto diverso da quello che ha gestito l’autonomia regionale nei suoi primi cinquant’anni di vita e che l’ha ridotta ad una parvenza di autonomia.
Certo! Non si può fare d’ogni erba un fascio e trascurare coloro che a questo tipo di indirizzi si sono opposti ed hanno operato in altro senso. Nel giudizio complessivo e nei risultati che oggi si possono trarre è che è necessaria una nuova stagione dell’ autonomia, con una nuova classe dirigente che sia all’altezza dei problemi che pone la società di oggi.
Oggi ci troviamo a dover riformare le Statuto Speciale pur avendo coscienza che non sono state utilizzate tutte le potenzialità dello statuto vigente. E sapendo anche che quello nuovo avrà meno forza del vecchio dal momento che questo è una legge costituzionale, mentre quello nuovo – stando alle proposte della Bicamerale – sarebbe una legge ordinaria, emendabile dunque con leggi altrettanto ordinarie.
Quando, oltre cinquant’anni fa, si elaborava lo Statuto d’autonomia era di moda il termine giuridico di ottriato che significa “graziosamente concesso” da un’autorità superiore. Un esempio storico può essere lo Statuto Albertino, concesso dal Re, non discusso e approvato da un Parlamento. Proprio per non avere uno statuto ottriato fu rifiutata l’estensione alla Sardegna dello statuto siciliano. Tutto ciò oggi è stato rimosso dalla memoria storica e si accetta, più o meno supinamente, che la Bicamerale archivi senza accusare ricevuta le proposte di modifica costituzionale inviate dal Consiglio regionale e che ciò non abbia alcuna ripercussione nè nelle istituzioni, nè nei partiti della Sardegna.
E ciò accade in un’ epoca in cui le classi dirigenti regionali dovrebbero prendere su di sè l’onere di gestire quei servizi che più da vicino toccano i diritti del cittadino: dal diritto alla libertà personale, a quello della salute, dell’istruzione, della libertà d’intrapresa, del lavoro, dell’ abitazione, della riservatezza, della corrispondenza, dell’informazione, etc .. A questi si
aggiungono i nuovi compiti derivanti dal dover agire nell’ ambito. di .strutrure sovranazionali, in un mercato diventato globale, con relazioni economiche fino a ieri impensabili, con la necessità di adeguarsi con estrema tempestività ai rapidi mutamenti imposti all’ accelerazione della propria storia di questa fine di millennio.
Ecco che cosa significa governare la Sardegna come uno stato: significa gestire le risorse, poche o molte che siano, per costruire un tipo di società più giusta di quella attuale, cogliendo tutte le possibilità che può . offrire l’essere in una posizione strategica nel Mediterraneo Occidentale, situata tra Europa e Africa, ma in Europa.
Le idee-forza che hanno guidato le classi dirigenti dei primi cinquant’ anni di autonomia, anche quelle più legittime di rivendicazione di diritti conculcati per secoli, non bastano più senza indirizzar1i verso i .nuovi traguardi ai quali chiama il tempo presente.
Per questi motivi le prossime elezioni regionali hanno .una particolare importanza perchè si tratta di eleggere chi dovrà dirigere la Sardegna verso
futuro millennio, quando molte delle condizioni in cui ora ci troviamo saranno cambiate. Perciò è auspicabile che, accanto al Consiglio regionale, venga eletta contestualmente anche un’Assemblea costituente, con sistema proporzionale, per dare in un tempo determinato – massimo un anno – un testo di revisione dello Statuto Speciale che poi il Consiglio regionale dovrebbe approvare come proposta di legge costituzionale ed imporre con forza ai partiti ed alle istituzioni centrali la rapida approvazione ed entrata in vigore. Più volte si è parlato di legislature del Consiglio regionale come di “legislature costituenti”, ma nessuna lo sarà quanto quella che stà per essere eletta.
L’alternativa è di avere non soltanto uno statuto “ottriato”, ma di avere ottriate tutte le altre condizioni economiche e sociali.