IL CONCILIO PLENARIO SARDO E LE DOMANDE DELLA SOCIETÀ SARDA di Don Mario Cugusi

 

Don Mario Cugusi svolge la sua relazione al Convegno/dibattito "Oggi parliamo di Chiesa" con Don Mario Cugusi e Don Ettore Cannavera, mercoledì 15 febbraio ore 18,00 presso l'ex Liceo Artistico di Piazza Dettori a Cagliari.

Don Mario Cugusi, fino al luglio del 3010  è stato il parroco di Santa Eulalia nel Quartiere di Marina in Cagliari. Ha completato i suoi studi teologici a Cuglieri e si è laureato in filosofia all’Università di Cagliari. E’ stato docente di questa disci­plina all’Istituto Magistrale Eleonora d’Arborea di Cagliari. La sua attività sacerdotale si è esplicata come collaboratore parrocchiale nei paesi di Senorbì, Guasila e Selargius. Dal 1980 è stato l’animatore spirituale e cultura­le del cuore storico della città di Cagliari. Al momento è l’assistente spirituale dell’associazione di laici cristiani sardi, Cresia.

(Nella  FOTO:  don Mario Cugusi interviene al Convegno/dibattito “Oggi parliamo di Chiesa” con  Don Ettore Cannavera, mercoledì 15 febbraio ore 18,00 presso l’ex Liceo Artistico di Piazza Dettori a Cagliari.)

L’iniziativa culturale, nata ad opera delle Associazioni di volon­tariato culturale e infine sponsorizzata e fatta propria anche dall’Ammini­strazione cittadina, intitolata “Monumenti aperti” ha riportato molti caglia­ritani ad appropriarsi del proprio patrimonio storico-artistico.

Sono convinto che la cultura si diffonde, cresce, facendola, non sem­plicemente proclamandola.

Si promuovono i beni culturali aprendoli alla comunità, consentendo­ne la fruizione, non semplicemente proclamando il diritto alla loro godi­bilità ma facendoli vedere li si tutela.

Sono del parere che la Chiesa non è qualcosa da proclamare, da enun­ciare come si enunciano delle definizioni, dei principi, delle categorie astratte; ma la Chiesa è un’esperienza, è un modo di vivere la propria vita; non è qualcosa di asettico o astratto, solo di proclamato.

Proprio il brano di Vangelo proclamato in una Messa domenicale mi aiuta ad esprimere la mia concezione di Chiesa: nel brano cui mi riferisco si racconta la guarigione di un lebbroso operata da Gesù.

Al tempo di Gesù Cristo il lebbroso era un malato diverso da tutti gli altri, doveva farsi riconoscere come separato, diverso, immondo e doveva andare urlando, qualora si fosse imbattuto in altre persone, la sua diver­sità, gridando “immondo, immondo”.

Gesù non si oppone a questa mentalità dicendo che non è giusto emar­ginare, non dice: “guai a voi se definite immondo questo lebbroso perché anche lui è un uomo, è solo un povero disgraziato, è un malato che dove­te aiutare”.

Non c’è dubbio che Gesù ci porta un messaggio di salvezza, ma la sua Parola però si fa azione, si fa salvezza, si fa libertà dalla schiavitù: nel caso del lebbroso è liberazione dalla malattia, nel caso del pubblicano presso il quale si reca a cena è libertà dai pregiudizi e dal perbenismo farisaici.

La chiesa non può limitarsi a proclamare messaggi, deve farsi segno efficace di liberazione, segno efficace di Gesù Cristo e del suo messaggio che per sua natura è salvante, perché la Parola fa ciò che enuncia.

Questa premessa teologica la credo importante per dire quello che mi aspetto dal Concilio plenario sardo e la ricaduta che vorrei avesse sulla società sarda cui è chiamato a riferirsi: la Chiesa di Sardegna riunita in un Concilio non è chiamata a interrogarsi in vista di se stessa, dato che dovrebbe sapere chi è e in che modo deve viversi come Chiesa, ma è chia­mata a chiedersi come può essere segno efficace di salvezza, di speranza per la società sarda cui è chiamata a riferirsi.

Ora parliamo di Concilio plenario sardo, di che cosa esso è e come è nato.

Un Concilio, in generale, è un’assemblea ecclesiale, non sempre costituita solo da Vescovi, che si propone di orientare il comportamen­to dei membri appartenenti alla Chiesa o definire le verità cui questa si deve riferire.

Il Concilio è un momento molto peculiare e di grande spessore della vita ecclesiale, momento critico e stimolante.

Spetta ai Vescovi decidere sui pronunciamenti dell’assemblea concilia­re, ma un concilio particolare o sinodo (che vuol dire camminare insieme) non può essere condotto senza attenzione e ascolto della Chiesa che cele­bra questo momento.

Parafrasando metodologie pastorali latino-americane direi che il Concilio non va fatto per la Chiesa che è in Sardegna, ma con la Chiesa che vive la sua esperienza di fede in Sardegna.

Non c’è dubbio che la Chiesa non è una democrazia, ma è ancor più vero che la Chiesa non è una monarchia: la Chiesa è una Comunità mini­steriale, con la vocazione al servizio non al potere (sono consapevole che la storia della Chiesa troppo spesso è una smentita della vocazione alla ninisterialità talvolta tradita e altre quanto meno annacquata di gestione ) strizzate d’occhio al potere).

Il Concilio plenario sardo è stato richiesto, come vuole il Codice di Diritto Canonico, alla Congregazione dei Vescovi dal presidente della Conferenza Episcopale Sarda nel 1985 e da detta Congregazione romana concessa l’indizione nel 1987.

Undici anni or sono!

Fu annunciato in tutte le cattedrali delle diocesi sarde durante la Messa crismale del Giovedì Santo del 1987 e non è stato ancora celebrato.

Appena dopo l’annuncio fatto nel 1987 incominciò un lavoro ante­preparatorio che durò diverso tempo e consistette nel mandare question­ari, tramite gli organi diocesani, nelle varie parrocchie della Sardegna: ricordo di avere letto che da parte di diverse diocesi non ci furono nep­pure risposte e che qualche diocesi nel frattempo si era fatto un suo con­cilio o sinodo diocesano.

 

Credo che sia anche comprensibile questa scarsa risposta e ritengo che sia addebitabile anche al fatto, oltre altre possibili componenti, che tutto il lavoro avveniva con criteri troppo verticistici, direi quasi privatistici, senza un autentico coinvolgimento delle comunità, come si sarebbe potu­to fare attraverso magari i settimanali diocesani o gli stessi quotidiani regionali, mai coinvolti in un dibattito che credo li avrebbe visti parteci­pi, se motivati.

 

Perché queste affermazioni non risultino gratuite ricordo che personal­mente intervenni nel settimanale diocesano cagliaritano sperando di provo­care dibattito sul problema della lingua sarda nella liturgia, sperando di dare la stura ad una esigenza sentita in larghe fasce delle comunità ecclesiali sarde: lo sberleffo iniziale e poi la sordità successiva mi fecero desistere.

 

Purtroppo lo scopo di Nuovi Orientamenti non è certo quello di provo­care e stimolare dibattiti e favorire il formarsi di comunità sempre più responsabili e presenti nella società ma di autoconservarsi, magari adulando.

Anch’io mi sono chiesto, come tanti altri spero, del perché si sia volu­to, da parte dei Vescovi, questo Concilio Sardo.

 

Senza troppi giri di parole rispondo che la Comunità Ecclesiale sarda era tale che non ne sentiva il bisogno (non sto affermando che non ce ne fosse il bisogno).

 

Qualcuno ha scritto che questo concilio fu chiesto per motivi consi­mili a quelli che sessant’anni prima portarono al Concilio che si celebrò ad Oristano tra il 18 e il 25 maggio del 1924.

 

È stato detto che questo Concilio plenario è stato voluto per attuare il nuovo Codice di Diritto Canonico, allo stesso modo in cui sessant’anni prima si riunì un Concilio per dare attuazione al vecchio Codice.

 

È stato detto anche che il Concilio sia stato voluto come tentativo tar­divo di dare attuazione al messaggio del Vaticano II non ancora passato nella Chiesa di Sardegna.

 

Personalmente credo che almeno in qualche Vescovo sardo ci fosse il sincero intendimento di interrogare la Comunità ecclesiale sarda sui gravi problemi che continuavano ad affliggere la società sarda, a prescindere dai riferimenti al Codice o al Vaticano II.

Mi preme dire qualcosa sul distacco con cui le comunità parrocchiali hanno vissuto e stanno vivendo i lavori del Concilio.

Il limite di questo Concilio Plenario, oltre il mancato coinvolgimento elle comunità ecclesiali, è forse anche la scarsa o quanto meno solo epi­sodica fiducia dimostrata dalla “organizzazione” del Concilio nella classe intellettuale sarda, soprattutto laica.

I nostri più attenti intellettuali e le stesse Università isolane avrebbero potuto dare, oltre un valido contributo nella fase dell’analisi (come pare l avvenuto), anche un apporto valido nella stesura delle bozze finali.

Mi pare di poter dire che non si ha grande e sincera stima del laicato cat­tolico, e ancor meno dei “laici” tout court, e che, comunque, “le cose di Chiesa” vanno affrontate dagli uomini di chiesa, i soli veri esperti dei pro­emi.

Mi pare di poter dire che la nostra Chiesa di Sardegna soffre ancora di areato clericalismo.

La cosa che soprattutto mi lascia sconcertato e mi intristisce, ancor ima di questa scarsa fiducia nel laicato, è stato il mancato coinvolgi­mento dello stesso clero sardo in una “cosa” che certo non gli può calare sul capo e alla quale non può certo restare esterno e distaccato, pena l’a­borto degli stessi lavori o comunque la non efficace traduzione di questi nella vita delle comunità, cui il Concilio ovviamente deve riferirsi.

Non è mai stata indetta un’assemblea, un convegno ecclesiale ad hoc, :i seminari in cui fosse data 1′opportunità ai presbiteri (mi riferisco a quelli della maggiore delle diocesi, quella cagliaritana) di esprimersi sulle problematiche e le attese delle nostre comunità ecclesiali.

Nonostante tutto questo il lavoro anti-preparatorio di dieci commis­sioni, pur condotto in modo verticistico, fece un buon lavoro riassu­mendo e proponendo le tematiche fondamentali da dibattere nelle sessio­ni finali del Concilio.

Però quanta lentezza e burocrazia!

Il lavoro delle Commissioni è stato poi riassunto in questi quattro temi:

la Chiesa di Dio in Sardegna, sacramento di comunione con Dio e tra . uomini;

.a missione evangelizzatrice della Chiesa in Sardegna;

.a missione santificatrice della Chiesa mediante la liturgia e i sacramenti; .a missione della Chiesa di servire gli uomini della Sardegna, testimoniando il Vangelo della carità.

Soprattutto il primo tema mi vede molto interessato e, osservando le cose che “trapelano” dai lavori conciliari, mi pare sia stato il tema su cui è profuso il maggior sforzo di indagine e di elaborazione da parte dei “padri conciliari”. Mi piacerebbe guardare con molta attenzione a come la Chiesa si rapporta ai problemi della nostra terra.

Vorrei vedere esaminato e discusso il modo in cui va vissuto il mini­stero presbiteriale: è il problema dell’identità del sacerdote sardo oggi.

Vedo con preoccupazione e sofferenza un clero sardo sempre più depresso e demotivato, financo nei suoi momenti più “religiosi”, come in quello “liturgico-catechistico” e soprattutto improntato e supportato da un sotto fondo culturale inconsistente.

Mi preoccupa non poco lo scarso spessore culturale del clero, molto sclerotizzato nelle fasce di età più alte, seppure almeno in queste dotato di una sufficiente cultura teologica di base, anche se diffidente e distaccata rispetto alla cultura “laica”.

Anche in gran parte del clero ultra-quarantenne noto fenomeni di “arroccamento” che sono segni e di fragilità teoretica e di depressione cul­turale-psicologica.

Il rifugiarsi nel liturgismo, in gruppi-comunità molto catechizzati e “preparati”, ma anche “separati” rispetto alla società civile giudicata ‘mondo’ (nell’accezione negativa di luogo del relativo, del falso, del peccaminoso), mi sembra risposta non evangelica e comunque uno schema di difesa che snatura la vocazione originale della Chiesa che è la ministerialità.

Il clero quaranta-sessantenne è quello che sta più in attesa di qualcosa, è quello potenzialmente più ricco (sono consapevole che è un punto di vista smaccatamente soggettivo, essendo lo scrivente un cinquantenne !): ritengo sia un autentico impoverimento per la Chiesa di Sardegna e per la società sarda nella sua globalità che non si riesca a rendere efficaci le potenzialità di cui è carico.

Credo che un maggior ‘protagonismo’ ecclesiale di questa parte di clero sardo risulterebbe particolarmente benefico.

Sempre per quanto riguarda il clero della Chiesa che è in Sardegna guardo con preoccupazione alla fascia più giovane e giovanissima di que­sto, ivi compresi i giovani del Seminario maggiore che si preparano al sacerdozio.

Per quanto riguarda il giovane clero si è di fronte ad un problema di insufficienza culturale nello specifico (mi riferisco agli studi prettamente teologici), a fortissime carenze di base causate da corsi di studi pre-teolo­gici raffazzonati e non congrui (spesso latino, greco e filosofia sono inesi­stenti o fatti in dopo-scuola rabberciati che danno una preparazione di base troppo povera per seguire un corso di studi teologici di livello).

 

Da parte degli educatori nel seminario e anche da parte dei Vescovi non si incoraggia nè si favorisce il proseguimento degli studi sia nell’am­bito delle discipline teologiche e ancor meno in discipline ‘laiche’.

 

Troppo spesso, anziché la cultura e la crescita culturale, i teologi e i gio­vani sacerdoti curano tonache e pizzi diffondendo un modo di essere pre­sbiteri che è misto di devozionismo, di pseudo-spiritualismo molto caren­te di virtù umane, che porta anche ad atteggiamenti di intolleranza e di aristocratico distacco dalle comunità, e non solo da quelle meno “colte”.

 

Il fenomeno del formarsi di ‘sacerdoti organizzati’, peraltro giovanissi­mi, che dichiaratamente si allineano su posizioni preconciliari e in atteg­giamento di rifiuto e di chiusura rispetto a qualsiasi altra scelta che non sia quella propria, non può non preoccupare.

 

Voglio proprio augurarmi che il nodo di questo tipo di impostazione teoretica, che pare vada sempre più allargandosi e arruolando nuovi sim­patizzanti sia nel giovane clero che tra i seminaristi-teologi, venga bene al pettine del Concilio (come in parte è già avvenuto nella prima sessione di lavori ad Oristano) e venga affrontato con chiarezza.

 

Credo che ne vada di mezzo la possibilità o meno di vedere la Chiesa di Sardegna sempre più attenta e impegnata “nell’adempimento del suo munus propheticum, allineata alla frontiera sempre nuova della storia, pronta a dare risposte ai problemi sempre nuovi dell’uomo”, per citare la relazione fatta da Mons. Piseddu al Concilio sulle bozze dei documenti finali.

 

Per concludere, direi che se il Concilio non ha visto purtroppo tanti sacerdoti coinvolti e partecipi nella fase di analisi e di proposta, l’auspicio è che ci veda attenti lettori e traduttori intelligenti e audaci nelle nostre comunità dei messaggi che il Concilio ci affiderà per rendere il nostro ministero del Vangelo sempre più efficace in una società sarda che dispe­ratamente chiede a tutti i suoi figli di essere aiutata a crescere.

 

(Questo testo riporta la conferenza tenuta da don Mario Cugusi, esponente della Fondazione Sardinia, a un seminario di giovani e universitari nel 1998).

 

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