L’anima perduta dell’Europa. Risanare l’Europa è molto più che stabilizzare l’euro
di Jonathan Sacks
(Traduzione di Gianni Mula)
Riportiamo qui di seguito, in una mia traduzione (il testo originale può essere trovato qui), la lezione tenuta il 13 gennaio 2012 da Lord Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito, presso la Pontificia Università Gregoriana.
L’anima perduta dell’Europa. di Jonathan Sacks Traduzione di Gianni Mula
I leader politici europei si riuniscono per cercare di salvare l’euro, e con esso lo stesso progetto di Unione europea. Credo sia giunto il momento per i leader religiosi di fare altrettanto, e voglio spiegare perché. Anzitutto spero di mostrare in questa conferenza che l’economia di mercato e il capitalismo democratico hanno radici religiose. Sono stati prodotti da una cultura imbevuta dei valori della tradizione giudaico-cristiana, e l’economia di mercato era originariamente intesa a promuovere questi valori. In secondo luogo vorrei dire che il mercato non raggiunge mai un equilibrio stabile. Al contrario è lo stesso mercato che, attraverso il processo di “distruzione creativa”, tende a minare i valori per i quali è nato. In terzo luogo dico che la salute futura dell’Europa, politicamente, economicamente e culturalmente, ha una dimensione spirituale. Perderla significa che perderemo molto altro ancora. Per parafrasare un celebre testo cristiano: Quale vantaggio avrà l’Europa se guadagnerà il mondo intero ma perderà la sua anima? L’Europa è in pericolo di perdere la sua anima. Voglio introdurre le mie osservazioni ringraziando Sua Eminenza il Cardinale Koch non solo per avermi invitato a tenere questa lezione, ma per la sua gentile disponibilità durante tutto il mio viaggio e l’udienza privata con Sua Santità. Voglio ringraziare Padre Francois-Xavier Dumortier, Rettore dell’Università Gregoriana, per le sue gentili parole di introduzione e Padre Renczes Philipp del Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici e il Dr. Ed Kessler dell’Istituto Woolf a Cambridge per aver ospitato questa conferenza e per tutto il supporto nell’organizzare questa visita. Queste due istituzioni rappresentano il meglio della saggezza e della spiritualità europea. La mia speranza è che, attraverso un lavoro in collaborazione, queste due istituzioni riescano a costruire una piattaforma europea che mostri e applichi le risorse che il ricco patrimonio di idee di questo continente ha da offrire per costruire un futuro migliore per il mondo. Sono anche onorato di vedere un certo numero di ambasciatori e molti altri ospiti illustri unirsi a noi qui stasera, vi ringrazio tutti moltissimo per essere venuti. Il Vaticano e gli ebrei Vorrei cominciare col dire una parola sul rapporto tra il Vaticano e il popolo ebraico. Il rapporto tra la Chiesa cattolica e gli ebrei non è sempre stato, nella storia, felice o facile. Troppo spesso è stato scritto in mezzo alle lacrime. Eppure qualcosa di straordinario è accaduto poco più di mezzo secolo fa, quando il 13 giugno 1960 lo storico francese Jules Isaac in un’udienza con Papa Giovanni XXIII gli consegnò un dossier con i materiali che aveva raccolto sulla storia dell’antisemitismo cristiano. Si mise così in moto il lungo viaggio attraverso il Concilio Vaticano II e la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, a seguito della quale oggi ebrei e cattolici non si incontrano come nemici, né come estranei, ma come cari e rispettati amici. Questa è una delle trasformazioni più drammatiche della storia religiosa dell’umanità ed ha acceso un faro di speranza, non solo per noi ma per il mondo. È stata una vittoria per il Dio dell’amore e del perdono, che ci ha creati nell’amore e nel perdono, e ci chiede di amare e perdonare gli altri. Spero che questa visita, l’udienza di questa mattina con Sua Santità, e questa conferenza possano in qualche modo, anche piccolo, segnare l’inizio di un nuovo capitolo nelle nostre relazioni. Per mezzo secolo, gli ebrei e i cristiani si sono concentrati sulla via del dialogo che io chiamo faccia a faccia. È giunto il momento di passare a una nuova fase di collaborazione per scopi comuni che io chiamo l’essere fianco a fianco. Perché ci attende un lavora da fare, non tra ebrei e cattolici, o anche tra ebrei e cristiani in generale, ma tra ebrei e cristiani da un lato, e dall’altro le forze crescenti, al lavoro oggi in Europa, che in maniera sempre più aggressiva cercano di sfidare e persino di ridicolizzare la nostra fede. Se l’Europa dimentica l’eredità giudaico-cristiana che le ha dato la sua identità storica e i suoi più grandi successi in letteratura, arte, musica, educazione, politica, e come vedremo, in economia, finirà col perdere la sua identità e la sua grandezza prima della fine di questo secolo. Quando una civiltà perde la sua fede, perde il suo futuro. Se recupera la sua fede, recupera il suo futuro. Per il bene dei nostri figli, e dei loro figli non ancora nati, noi – ebrei e cristiani, fianco a fianco – dobbiamo rinnovare la nostra fede e la sua voce profetica. Dobbiamo aiutare l’Europa a ritrovare la sua anima. Il capitalismo nasce all’interno della tradizione giudaico-cristiana Lasciatemi cominciare con una citazione molto significativa dal recente libro di Niall Ferguson (Civilization: The West and the Rest). In esso si racconta che a uno studioso dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali fu dato il compito di scoprire come l’Occidente, pur essendo stato per secoli dietro alla Cina, alla fine l’abbia superata e si sia affermato in una posizione di preminenza mondiale. In un primo momento, ha detto lo studioso, abbiamo pensato che fosse perché aveva armi più potenti di noi. Poi abbiamo concluso che era perché aveva il miglior sistema politico. Poi abbiamo capito che era proprio il vostro sistema economico. “Ma negli ultimi 20 anni, ci siamo resi conto che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Ecco perché l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la nascita del capitalismo e la successiva transizione alla politica democratica. Non abbiamo alcun dubbio su questo. “ Lo studioso cinese aveva ragione. La stessa linea di ragionamento è stato seguita dallo storico dell’economia di Harvard, David Landes, nel suo magistrale The Wealth and Poverty of Nations.Anche lui ha sottolineato che la Cina era tecnologicamente molto più avanzata dell’Occidente fino al XV secolo. I cinesi hanno inventato la carriola, la bussola, la carta, la stampa, la polvere da sparo, la porcellana, le macchine per la filatura e la tessitura e gli altiforni per la produzione di ferro. Eppure non hanno mai avuto un’economia di mercato, la scienza, una rivoluzione industriale o una crescita economica sostenuta. Anche Landes conclude che queste differenze sono dovute all’eredità giudaico-cristiana che l’Occidente ha e la Cina no. Certo la frase “tradizione giudaico-cristiana”, che è di conio recente, elide le differenze significative tra le due religioni ed i vari elementi all’interno di ciascuna. Molti studiosi, con diverse sensibilità, hanno raccontato la storia economica dell’Occidente. Max Weber ha dedicato un libro famoso all’etica protestante e allo spirito del capitalismo, con particolare attenzione al calvinismo. Michael Novak ha scritto in maniera eloquente sull’etica cattolica. Rodney Stark ha evidenziato come gli strumenti finanziari che hanno reso possibile il capitalismo siano stati sviluppati nelle banche del XIV secolo, cioè prima della Riforma, a Firenze, Pisa, Genova e Venezia. Coloro che hanno sottolineato il contributo ebraico, da Karl Marx a Werner Sombart, tendevano a farlo in uno spirito di critica. Tuttavia non può essere pura coincidenza che gli ebrei, meno di un quinto dell’un per cento della popolazione mondiale, hanno vinto più del 30 per cento dei premi Nobel per l’economia, con contributi come l’invenzione della teoria dei giochi (John von Neumann, l’economia monetaria (Milton Friedman), l’economia dello sviluppo (Joseph Stiglitz), l’economia comportamentale e il modo non completamente razionale col quale facciamo le scelte di mercato (Daniel Kahneman e Amos Tversky). Il Giuseppe di cui si parla nella Torah potrebbe essere stato il primo economista del mondo, con la sua scoperta della teoria dei cicli commerciali – sette anni di abbondanza seguiti da sette anni di vacche magre. Lo stato finanziario dell’Europa, oggi sarebbe migliore se la gente riflettesse sulla Bibbia. C’è, tuttavia, sufficiente terreno comune per parlare, almeno qui, di valori condivisi. In primo luogo vi è il profondo rispetto biblico per la dignità della persona umana, indipendentemente dal colore, credo o classe, creata ad immagine e somiglianza di Dio. Il mercato offre alle scelte umane maggiore libertà e dignità di qualsiasi altro sistema economico. Poi c’è il rispetto biblico dei diritti di proprietà, contro l’idea prevalente nel mondo antico che i governanti avessero il diritto di trattare le proprietà della tribù o della nazione come proprie. Al contrario, quando Mosè trova la sua leadership sfidata dagli Israeliti durante la ribellione di Core, dice del suo legame con il popolo: “Non ho preso neppure un asino da loro e non ho fatto del male a nessuno di essi.” La schiavitù offende gravemente la dignità umana perché priva lo schiavo della proprietà della ricchezza che crea. Poi c’è il rispetto per il lavoro biblico. Dio dice a Noè che sarà salvato dal diluvio, ma è Noè che deve costruire l’arca. Il versetto “Sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio” significa che noi serviamo Dio sia attraverso il lavoro che il riposo. Nel giudaismo la creazione di occupazione è la più alta forma di carità perché dà alla gente la dignità di non dipendere dalla carità. “Scuoia carcasse al mercato,” disse Rav, Rabbi del terzo secolo, “e non dire: io sono un prete e un grande uomo ed è al di sotto della mia dignità“. Altrettanto importante è l’atteggiamento positivo dell’ebraismo verso la creazione di ricchezza. Il mondo è creazione di Dio, quindi è buono, e la prosperità è un segno della benedizione divina. Ascetismo e abnegazione hanno poco spazio nella spiritualità ebraica. Con il nostro lavoro e l’inventiva si diventa, nel modo di dire rabbinico, “partner con Dio nell’opera della creazione“. Per l’ebraismo la cosa più importante dell’economia di mercato è che ci permette di alleviare la povertà. L’ebraismo si rifiuta di idealizzare la povertà. Non si tratta, nel giudaismo, di una condizione beata. I rabbini hanno detto “è una sorta di morte” e “peggio di cinquanta piaghe“. D’altra parte credono anche che la ricchezza implichi responsabilità. Richesse oblige. Dagli uomini (e dalle donne) d’affari di successo ci si aspettano esempi di filantropia e la disponibilità a ruoli di responsabilità nelle comunità. Il lusso ostentato non è mai stato visto di buon occhio, e periodicamente proibito attraverso “leggi suntuarie” locali. La ricchezza è una benedizione divina, e perciò porta con sé l’obbligo di usarla per il bene della comunità nel suo complesso. I rabbini favoriscono il commercio e la concorrenza perché generano ricchezza, prezzi più bassi, aumentano le possibilità di scelta, riducono i livelli assoluti di povertà, ed estendono il controllo dell’umanità sull’ambiente, riducendo la misura in cui siamo vittime passive delle circostanze e del destino. La concorrenza libera energia, creatività ed è al servizio del bene di tutti. I limiti del capitalismo e la Bibbia Così l’economia di mercato e il capitalismo moderno sono emersi nell’Europa giudaico-cristiana e non in altre culture come quella cinese pure per altri versi più avanzate. L’etica religiosa è stata una delle forze trainanti di questa nuova forma di creazione di ricchezza. Tuttavia questa stessa etica ha spiegato i limiti del capitalismo. Potrebbe essere il mezzo migliore che conosciamo per la generazione di ricchezza, ma non è un sistema perfetto per la distribuzione di ricchezza. Alcuni guadagnano molto più di altri, e alla ricchezza si affianca il potere sugli altri. Una distribuzione ineguale significa che alcuni sono condannati alla povertà. E la povertà non è solo un disastro fisico per chi non ha i mezzi per sostenersi. È un disastro psicologico. La povertà umilia. I poveri possono anche essere costretti a entrare in un ciclo di dipendenza. Possono essere costretti a chiedere prestiti. Al tempo della Bibbia si poteva essere costretti a vendersi in schiavitù. La Bibbia ebraica rifiuta di vedere come legge naturale inesorabile una lotta darwiniana in cui, come dice Tucidide “i forti fanno quello che possono e i deboli subiscono ciò che devono.” Questa è l’etica della Grecia antica, non l’etica dell’antico Israele. E così troviamo nella Bibbia un’intera struttura di legislazione sociale: l’angolo del campo, i covoni dimenticati, e altre parti del raccolto, lasciati per i poveri, in certi anni insieme con la decima; l’anno sabbatico in cui tutto il prodotto è disponibile per tutti, i debiti cancellati e gli schiavi liberati, e l’anno giubilare nel quale la terra degli antenati è restituita ai proprietari originali. È un sistema altamente sofisticato, volto a due scopi: primo, che i poveri debbano disporre di mezzi di sostentamento, e, secondo, che ci dovrebbero essere, ogni sette e cinquanta anni, periodiche redistribuzioni per correggere gli squilibri del mercato e ristabilire condizioni di parità. E ciò che è stato fatto in tempi biblici in un’economia prevalentemente agricola è stato fatto in tempi post-biblici attraverso una vasta estensione della tzedakah, parola che di solito traduciamo come carità, ma che significa anche giustizia. Nel Medioevo ogni comunità ebraica aveva un elaborato sistema ditzedakah che equivaleva in pratica a un mini-stato sociale. C’era lachevra, un’organizzazione per raccogliere e distribuire fondi per ogni scopo pensabile: per doti alle spose povere, per gli ammalati, per l’istruzione, per la sepoltura, in modo che nessuno fosse privato dei mezzi per un’esistenza dignitosa. Ciò che ha reso questa struttura notevole, anzi unica, non era solo che fosse la prima del suo genere, precorritrice del moderno stato sociale, ma anche che fosse una decisione collettiva, del tutto volontaria, di una comunità senza potere governativo e spesso senza diritti legali. Recentemente, in un importante studio, Eric Nelson, filosofo politico di Harvard, ha dimostrato che la Bibbia ebraica, come era letta dagli ebraisti cristiani nel XVI e XVII secolo, fu la fonte dell’idea, che oggi diamo per scontata, che fosse parte dei compiti di una società impegnarsi nella redistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione per garantire il benessere dei poveri. Quest’idea non c’era nei classici greci o romani che hanno ispirato il Rinascimento. Il concetto di benessere come risultato di una giustizia distributiva rispetto alla giustizia legale o retributiva è di origine giudaica e nasce in ultima analisi dallo stesso principio generatore del libero mercato stesso, l’idea che la dignità di ogni individuo è anch’essa immagine di Dio e che è nostro compito sviluppare le strutture sociali che onorano e rafforzano questa dignità. Pertanto l’etica giudaico-cristiana ha prodotto non solo il mercato, ma anche un acuto senso dei suoi limiti e della necessità di integrarlo con un sistema di welfare finanziato dal mercato stesso. Il mercato come ideologia Tuttavia, come i critici del capitalismo hanno sottolineato, il mercato non crea un equilibrio stabile, perché l’innovare comporta anche una distruzione creativa, o, come Daniel Bell ha detto, il capitalismo contiene contraddizioni culturali. Esso tende a erodere le fondamenta morali su cui è stato costruito. In particolare, come è evidente nell’Europa contemporanea, erode l’etica giudaico-cristiana che gli ha dato origine. Invece di essere, secondo la visione di Adam Smith, un mezzo per indirizzare l’interesse personale al bene comune, il mercato può diventare un mezzo per potenziare l’interesse personale a scapito del bene comune. Allora, invece di un mercato incardinato su principi morali, abbiamo un mercato come sostituto dei principi morali. Se potete comprare, negoziare, guadagnare, permettervi qualcosa, allora avete diritto ad essa – come dicono i pubblicitari – perché la valete. Il mercato cessa di essere semplicemente un mezzo e diventa una ideologia a sé stante. Il mercato ci dà la possibilità di scegliere, quindi la moralità stessa diventa un insieme di scelte in cui giusto o sbagliato non hanno alcun significato al di là della soddisfazione o della frustrazione del desiderio. Diventa inutile quella caratteristica unica della persona umana che è la capacità di fare valutazioni di secondo ordine, non solo cioè di sentire un desiderio ma anche di chiedersi se debba essere soddisfatto. Per noi è sempre più difficile capire come ci possano essere cose che vogliamo fare, possiamo permetterci di fare, abbiamo il diritto legale di fare, e che tuttavia non dobbiamo fare perché sono ingiuste, vergognose, sleali o umilianti. Quandol’Homo economicus prende il posto dell’Homo sapiens è il mercato che detta le regole. C’è un detto americano che dice: mai sprecare una crisi. L’attuale crisi finanziaria ed economica ci offre la rara opportunità di fermarci a riflettere sulla strada che abbiamo percorso e sul dove stiamo andando. La moralità e la crisi Cominciamo con la crisi attuale e con ciò che ad essa ci ha condotto. In primo luogo gli strumenti finanziari coinvolti nei mutui subprime e nella cartolarizzazione dei rischi, che erano talmente complessi che per molti anni la loro vera natura è sfuggita alle società di certificazione. Infatti esse hanno continuato a dare alle imprese coinvolte la tripla A della massima affidabilità, nonostante già nel 2002 Warren Buffett avesse descritto questi strumenti come armi di distruzione finanziaria di massa. I governi, e talvolta anche gli stessi banchieri, non compresero bene né i rischi, né il modo in cui un fallimento in qualsiasi parte del sistema bancario avrebbe potuto causare il collasso dell’intero sistema. C’è stata una chiara violazione dei principi di trasparenza e responsabilità. Il libro dell’Esodo dedica uno spazio imponente alla descrizione dettagliata di tutte le spese fatte per la costruzione del Tabernacolo, per stabilire il principio che i responsabili dei fondi pubblici devono essere trasparenti al di sopra di ogni sospetto. In secondo luogo, molte persone, specialmente in America ma anche in Europa, sono state incoraggiate a stipulare mutui, spesso con bassi tassi iniziali di rimborso, proprio da chi avrebbe dovuto sapere che non avrebbero mai potuto rimborsarli se non nei più ottimistici e improbabili scenari di persistenza di bassi tassi di interesse e di una continua salita dei prezzi delle case. La legge ebraica vieta questo comportamento in base al divieto biblico: “Non porrai una pietra d’inciampo davanti al cieco“. In terzo luogo, gli stessi banchieri non solo si sono attribuiti stipendi eccessivamente alti, ma anche generosi “paracadute d’oro”, con i quali si sono protetti proprio da quei rischi ai quali esponevano sia i propri clienti che i propri azionisti. Quasi duemila anni fa i rabbini stabilirono una serie di precetti proprio per evitare la possibilità che qualcuno potesse trarre vantaggio dall’impossibilità altrui di far fronte ai propri impegni. Quarto, a nessuno che legga i precetti biblici di remissione dei debiti ogni sette anni può sfuggire quanto sia importante dal punto di vista morale impedire l’accumulo di debito, l’ipotecare la libertà di domani per la libertà di oggi. I livelli senza precedenti del debito privato e pubblico in Occidente avrebbero dovuto segnalare per tempo che un tale stato di cose sarebbe stato insostenibile nel lungo periodo. I vittoriani sapevano quello che abbiamo dimenticato, che la spesa oltre i nostri mezzi è moralmente pericolosa, per quanto attraente possa essere, e il sistema non dovrebbe incoraggiarla. Ci sono problemi anche più gravi. C’è la questione fondamentale di chi controlla le multinazionali e verso chi è responsabile. In epoca medievale, per quanto i proprietari di terreni abusassero di coloro che lavoravano per loro, c’era un legame organico tra il proprietario del terreno e i propri dipendenti, perché questi avrebbero lavorato meglio se fossero stati in buone condizioni e ragionevolmente felici. Allo stesso modo nel XIX secolo, gli industriali possono aver creato condizioni di lavoro terribili, ma almeno alcuni datori di lavoro illuminati, come Robert Owen o i Cadbury e i Rowntree, sapevano che i dipendenti soddisfatti avrebbero prodotto un buon lavoro. Il loro esempio, insieme all’impegno dei grandi riformatori sociali del XIX secolo, ha portato alla fine a condizioni di lavoro più umane. A chi rispondono le multinazionali? Spesso non assumono direttamente lavoratori ma affidano il lavoro ad aziende in paesi lontani. Se in un certo luogo i salari aumentano, esse possono, quasi istantaneamente, trasferire la produzione altrove. Se il regime fiscale in un paese diventa più pesante, possono trasferirsi in un’altro. A chi, poi, devono rendere conto? Da chi sono controllate? Di chi hanno la responsabilità? A quali gruppi di persone diverse dagli azionisti devono fedeltà? L’estrema mobilità, non solo dei capitali ma anche della produzione e della manutenzione, può creare istituzioni che hanno potere senza responsabilità, come una classe sociale, l’elite globale, che non ha alcun legame organico con altri gruppi al di fuori di se stessa. Per quanto riguarda la responsabilità morale, sembra che anch’essa possa essere esternalizzata. È un problema di qualcun altro, non mio. Questo ha profonde conseguenze morali. George Soros scrive di come nei suoi primi anni come investment manager ha dovuto dedicare una quantità immensa di tempo ed energia a mostrare le sue credenziali, il suo carattere e la sua integrità, prima che la gente facesse affari con lui. Al giorno d’oggi, dice, gli accordi sono transazioni, non coinvolgono le persone. Non si ha fiducia nelle persone, ma si chiede agli avvocati cati di includere nel contratto clausole di salvaguardia. Questo è un passaggio storico da un’economia basata sulla fiducia ad un’economia basata sul rischio. Ma la fiducia non è un lusso superfluo. È la base stessa della nostra vita sociale. Molti studiosi credono che il capitalismo abbia radici religiose perché solo il sentirsi responsabili davanti a Dio può permettere alla gente di fidarsi dell’onestà degli altri nel mondo degli affari. Un mondo senza fiducia è un luogo solitario e pericoloso. È stato proprio un crollo di fiducia la prima causa dell’attuale crisi finanziaria. Talvolta facciamo l’errore di pensare che il mercato sia un santuario del materialismo, dimenticando che le sue parole chiave sono profondamente spirituali. “Credito” deriva dal latino “credo” “io credo”. “Fiducia” deriva dal significato latino “fede condivisa”. “Trust” è una parola che ha una risonanza profondamente religiosa. Provate a condurre una banca, un’impresa o una economia in assenza di fiducia e scoprirete che non si può fare. In definitiva noi non riponiamo la nostra fiducia nei sistemi ma nelle persone responsabili di tali sistemi, e senza moralità, responsabilità, trasparenza, affidabilità, onestà e integrità, i sistemi non funzionano. E quando questo accade, i sistema crollano. Siamo forse alla verità più profonda dell’etica giudaico-cristiana. Quest’etica, basata su giustizia, compassione e rispetto della dignità umana, ha portato i freni morali da “là fuori” a “qui dentro”. La buona condotta non dipendeva da governi, leggi, polizia, ispettorati, organismi di regolamentazione, tribunali civili e sanzioni penali. Dipendeva dal suono dolce e sommesso della voce di Dio nel cuore dell’uomo. Faceva parte del carattere, esprimeva virtù e senso del dovere interiorizzato. Ebrei e cristiani hanno dedicato energie immense ad avviare i giovani sulle strade della bontà e giustizia. Una visione morale, un chiaro senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, era presente nelle storie che raccontavano, nei testi che leggevano, nei riti ai quali partecipavano, nelle preghiere che dicevano e nelle aspettative della comunità circa il comportamento dei suoi membri. Se foste ebrei, sapreste che cosa si prova ad essere schiavi in Egitto, mangiare il pane della sofferenza e le erbe amare della schiavitù. Sapreste che cosa si prova ad essere senza casa per 40 anni e dover vagare nel deserto. Sapreste della chiamata di Isaia a “Imparare a fare il bene, cercare la giustizia, rimproverare gli oppressori, difendere gli orfani, soccorrere le vedove.” Avreste la giustizia sociale incisa nei vostri circuiti neurali. Quando ho chiesto allo specialista di economia dello sviluppo Jeffrey Sachs che cosa lo avesse spinto nel suo lavoro, mi ha risposto subito Tikkun Olam, l’imperativo ebraico di guarire un mondo malato. I cristiani fecero altrettanto. Non servivano organismi di controllo per essere sicuri che lavorassero per il bene comune. Sapevano di essere moralmente responsabili, anche se non lo erano legalmente, per le conseguenze delle loro decisioni sulla vita degli altri. Gli economisti chiamano questo capitale sociale, ma non è un dato di fatto della condizione umana. Società nelle quali l’interesse personale la vince sul bene comune sono condannate a disintegrarsi. È per questo che le società al culmine del benessere di solito hanno già iniziato a declinare. Il pensatore islamico del quattordicesimo secolo Ibn Khaldun sosteneva che quando una civiltà diventa grande, la sua élite si abitua a lussi e comodità, e il popolo nel suo insieme perde in asabiyah, solidarietà e integrazione sociale. Giambattista Vico ha descritto un ciclo simile: “La gente all’inizio capisce che cosa è necessario, poi prende in considerazione ciò che è utile, quindi pensa alle comodità, più tardi a deliziarsi nei piaceri, a immergersi nelle dissolutezze e nei lussi, e infine impazzire sperperando i propri beni”. Lo ha detto per primo e con maggiore forza Mosè, tanto tempo fa. Il tema dei suoi grandi discorsi nel Deuteronomio è che il vero banco di prova non sono i disagi ma la ricchezza. La ricchezza ti rende sazio nel corpo e vuoto nello spirito. Non è più necessario fare i sacrifici necessari per la difesa della libertà. Le disuguaglianze crescono. I ricchi diventano auto-indulgenti. I poveri si sentono esclusi. Ci sono divisioni sociali, risentimenti, ingiustizie. La società non è più unita. Le persone non si sentono tenute assieme da vincoli di responsabilità collettiva. L’individualismo prevale. Diminuisce la fiducia. Il capitale sociale diminuisce. Quando questo accade, si finisce sconfitti. Coloro che credono che la democrazia liberale e il libero mercato possano essere difesi con la sola forza delle leggi e delle regole, senza un senso interiorizzato del dovere e della morale, si sbagliano tragicamente. La civiltà dei consumi mina la nostra forza morale Per dirla nel modo più semplice, la civiltà dei consumi sta fiaccando la nostra forza morale. Ha prodotto una società ossessionata dal denaro: stipendi, indennità, costo delle case, e lussi costosi di cui potremmo fare a meno. Quando il denaro comanda, ricordiamo il prezzo delle cose e dimentichiamo il loro valore, e questo è pericoloso. La crisi finanziaria è stata causata, almeno in parte, dalle banche e dagli operatori finanziari che hanno prestato tanto denaro per comprare case, a tassi di interesse tanto bassi che i prezzi delle case sono aumentati rapidamente fino a quando investire in una casa sembrava la migliore cosa che si potesse fare. Più persone si indebitavano per comprare case e più i prezzi delle case salivano, e tutti si credevano più ricchi. Ma in termini reali non era vero. Ignorando i valori e concentrandoci sui prezzi, abbiamo ipotecato il nostro futuro per alimentare una fantasia. Come altre bolle storiche, è stato un momento di follia collettiva, nella convinzione essenzialmente magica che ci possano essere guadagni senza perdite; dimenticando che maggiore è il guadagno, più grande il rischio, e che il prezzo spesso finisce con l’essere pagato da coloro che meno possono permetterselo. In generale, i debiti personali si sono accumulati perché la civiltà dei consumi ha incoraggiato la gente a prendere in prestito il denaro che non aveva, per comprare cose di cui non aveva bisogno, per raggiungere una felicità che non sarebbe durata. I saggi del mondo antico dicevano: Chi è ricco? Uno che si contenta di quello che ha. La civiltà dei consumi dice il contrario. Chi è ricco? Uno che può comprare ciò che ancora non ha. Concentrarsi costantemente su ciò che non abbiamo e che altri hanno, incoraggia sentimenti di inadeguatezza che dobbiamo placare con l’acquisto di un prodotto che ci rende felici fino al giorno dopo, quando arriva qualcosa di meglio e ci sentiamo nuovamente inadeguati. Non è un caso che, nonostante il fatto che fino a poco tempo fossimo ricchi al di là dei sogni di generazioni precedenti, non eravamo più felici in maniera misurabile. Abbiamo trasformato i bambini in mini-consumatori, dando loro telefoni cellulari al posto del nostro tempo. Il risultato, in Gran Bretagna, è una generazione di bambini più infelici, più inclini a depressione, stress, disturbi alimentari, abuso di droghe e alcol di quanto non lo fossero quelli di cinquant’anni fa. La civiltà dei consumi si rivela un sistema molto efficiente per creare e distribuire l’infelicità. Ma c’è di più. Noi sappiamo – è stato misurato in molti esperimenti – che i bambini con un forte controllo degli impulsi crescono più equilibrati, più affidabili, ottengono voti più alti a scuola e all’università e hanno più successo degli altri nelle loro carriere. Il successo dipende dalla capacità di ritardare la gratificazione, il che è precisamente ciò che una cultura consumistica mina. In ogni fase, l’enfasi è sulla gratificazione immediata dell’istinto. Nelle parole del gruppo pop Queen, “lo voglio tutto e lo voglio adesso”. L’intera cultura regredisce verso comportamenti infantili. Il mio defunto padre, che venne in Gran Bretagna a sei anni, fuggendo dalla persecuzione in Polonia, conosceva la povertà e l’aveva vissuta. Ma lui e i suoi contemporanei avevano una ricca vita culturale, comunitaria e spirituale. Gli piaceva la musica classica e i grandi pittori. Amava la sinagoga e la sua fede ebraica. Le comunità ebraiche dell’East End, come alcune sotto-comunità asiatiche di oggi, avevano famiglie forti, reti di sostegno, e alte aspirazioni, se non per se stessi per i loro figli. Erano ricche in maniera imbarazzante dei doni dello spirito. Possiamo davvero dire che questo mondo di marchi e di status symbol, di ciò che si possiede piuttosto che di ciò che si è, sia meglio? Che ne sarà del futuro, se davvero siamo destinati ad anni di recessione? Che cosa significheranno questi anni per una cultura nella quale la felicità è definita dal possesso di beni materiali? Vorrà dire avere il massimo della delusione con il minimo della consolazione. Che le nostre strutture sociali siano abbastanza forti da sopravvivere è tutt’altro che sicuro. Come il giudaismo si è protetto Una buona società ha una sua propria ecologia, che dipende da molteplici sorgenti di significato, ognuna con la propria integrità. Voglio attirare l’attenzione brevemente su cinque caratteristiche del giudaismo, in gran parte condivise dal cristianesimo, il cui ruolo nel corso dei secoli è stato quello di preservare uno spazio libero dall’etica del mercato. La prima è il sabato, il confine che il giudaismo traccia attorno all’attività economica. Il sabato è il giorno in cui ci si concentra sulle cose che hanno valore ma non hanno prezzo, quando non lavoriamo, né impieghiamo altri per fare il nostro lavoro, quando non compriamo né vendiamo, in cui è vietata ogni manipolazione della natura per fini creativi e tutte le gerarchie di potere o di ricchezza sono sospese. È il punto fermo in un mondo che non si ferma, nel quale rinnoviamo il nostro attaccamento alla famiglia e alla comunità, viviamo la verità che il mondo non è interamente a nostra disposizione ma qualcosa che dobbiamo conservare per le generazioni future, e nel quale le disuguaglianze di un’economia di mercato sono controbilanciate da un mondo dove il denaro non conta e siamo tutti cittadini uguali. Lo scrittore ebreo Achad Ha-am ha detto che è stato il sabato a conservare gli ebrei più che gli ebrei a conservare il sabato. È il giorno su sette nel quale smettiamo di guadagnarci da vivere e semplicemente viviamo. La seconda: il matrimonio e la famiglia. L’ebraismo è una delle grandi tradizioni familiari. Molti dei suoi momenti religiosi supremi si svolgono in casa tra marito e moglie, genitori e figli. Il matrimonio è dove l’amore e la fedeltà si uniscono per portare nuova vita nel mondo. Ho il sospetto che se gli ebrei sono sopravvissuti alle tragedie, hanno trovato la felicità, e contribuito più della loro parte al patrimonio culturale dell’umanità, è stato per la santità che attribuiscono al matrimonio e per il loro modo di considerare la genitorialità come il compito più sacro. Terza: l’istruzione. Fin dai tempi di Mosè gli ebrei hanno fondato la loro stessa sopravvivenza sull’educazione. Sono stati i primi a costruire, duemila anni fa, una scuola universale obbligatoria, finanziata dalle comunità, per assicurare che tutti avessero accesso alla conoscenza. Hanno anche detto che lo studio è più santo della preghiera. Gli ebrei sono il popolo i cui eroi sono gli insegnanti, le cui cittadelle sono scuole e la cui passione è la vita della mente. Sergey Brin, co-fondatore di Google, ha detto una volta che è venuto da una di quelle famiglie ebree russe nelle quali ci si aspettava che anche l’idraulico avesse un dottorato di ricerca. Gli ebrei non hanno lasciato l’educazione ai capricci del mercato, ma hanno fatto sì che il mercato servisse la causa dell’educazione. Quarta: il concetto stesso di proprietà. Nella mente ebraica è profondamente radicata l’idea che in ultima analisi noi non siamo veri proprietari di ciò che è in nostro possesso. Tutto appartiene a Dio, e quello che abbiamo, l’abbiamo in affidamento. Ci sono delle condizioni per l’affidamento. Come disse il grande filantropo vittoriano Sir Moses Montefiore, “Valiamo quello che siamo disposti a condividere con gli altri”. Da qui la lunga tradizione di filantropia ebraica che spiega come l’ebraismo abbia incoraggiato la creazione di ricchezza senza dar luogo a risentimenti di classe. Infine, vi è la tradizione ebraica della legge. È stato William Rees-Mogg per primo a richiamare l’attenzione su una connessione tra la legge ebraica e l’economia a cui non avevo mai pensato prima. In un libro che ha scritto sull’inflazione, The reigning error: the crisis of world inflation, dice che l’inflazione – come gli alti livelli di debito – è un disordine che ha bisogno di essere controllato. Accade quando ci si dimentica che l’energia ha bisogno di vincoli per poter fluire ordinatamente. È stata la costante disciplina della legge, dice, che ha fornito i confini entro i quali la creatività ebraica ha potuto fiorire. Ha insegnato agli ebrei l’autocontrollo, perché è proprio quando la società non riesce più ad autolimitarsi che l’inflazione si forma o il debito diventa insostenibile. Così il sabato, la famiglia, il sistema educativo, il concetto di proprietà come amministrazione fiduciaria, e la disciplina della legge religiosa, non sono stati costruiti sulla base del calcolo economico. Al contrario, sono stati i modi in cui l’ebraismo dice al mercato: fin qui e non oltre. Ci sono ambiti in cui non puoi sconfinare. Il concetto di sacro è proprio delle cose il cui valore non è giudicato non dipende dal prezzo di mercato o dal valore di scambio. Questa intuizione fondamentale del giudaismo e del cristianesimo è tanto più sorprendente dato il loro rispetto per il mercato. La loro forza è che hanno resistito alla tentazione di credere che il mercato governi la totalità delle nostre vite, anziché solo una parte limitata di esse, quella che riguarda le merci prodotte e scambiate. Ci sono cose fondamentali per la vita umana che noi non produciamo, ma riceviamo da coloro che ci hanno preceduto e da Dio stesso. E ci sono cose che non possiamo scambiare, per quanto sia elevato il prezzo. Quando tutto ciò che conta può essere comprato e venduto, quando si può venir meno agli impegni perché non sono più a nostro vantaggio, quando la salvezza consiste nel poter comprare e le nostre litanie sono fatte di slogan pubblicitari, quando il nostro valore è misurato da quanto guadagniamo o spendiamo, allora il mercato distrugge i valori da cui in definitiva dipende. Questo è il pericolo che le economie avanzate ora si trovano davanti. In questi momenti abbiamo bisogno di ascoltare le nostre grandi tradizioni religiose, che ci insegnano a diffidare di dei che divorano i propri figli, e di riflettere sul messaggio che ci viene dalle rovine di edifici una volta maestosi ma ora relitti di civiltà che si sono credute invincibili. Minoranze creative Ho sostenuto che l’economia di mercato è nata in Europa in un ambiente i cui valori giudaico-cristiani si accordavano col lavoro sodo, il darsi da fare, la frugalità, la diligenza, la pazienza, la disciplina e il senso del dovere. Il capitalismo è stato visto dai suoi primi sostenitori come una convinzione profondamente morale. Ha generato ricchezza e buone maniere, addomesticato passioni sregolate, e diminuito le minacce di guerra. Due nazioni vicine possono combattere o commerciare. Se combattono perdono entrambe. Se commerciano guadagnano entrambe. La “mano invisibile” del mercato ha trasformato il perseguimento di interessi personali nella ricchezza delle nazioni, e la proprietà intellettuale ha stimolato l’inventiva. Il capitalismo ha migliorato la dignità umana, lasciandoci con più scelte e più lunga aspettativa di vita di tutte le generazioni che ci hanno preceduto. Ma non esiste un equilibrio stabile negli affari umani. C’è una tendenza naturale per le istituzioni in ascesa di invadere territori non propri, parzialmente o completamente, con conseguenze disastrose. In epoche religiose, le colpe erano di solito della religione, che a volte ha cercato il potere politico ed è diventata nemica della libertà, altre volte cercato di controllare la diffusione delle idee diventando così nemica della libera ricerca collaborativa della verità. Oggi, in un’Europa più laica di quanto sia mai stata dagli ultimi giorni della Roma pre-cristiana, le colpe sono di un aggressivo ateismo scientifico sordo alla musica della fede, di un materialismo riduttivo cieco al potere dello spirito umano, di multinazionali incontrollabili da parte, e a volte più potenti, dei governi nazionali, di una finanza così complessa da superare la comprensione degli organismi incaricati della loro regolamentazione, di un’economia guidata da un bisogno di consumare che svuota l’orizzonte dell’immaginazione dei nostri figli, e di un logoramento di tutti i legami sociali, dalla famiglia alla comunità, che una volta portavano conforto e liberazione dalla solitudine, e oggi sono sostituiti sempre più spesso da reti virtuali mediate da smartphone, il cui risultato è quello di lasciarci ” tutti assieme soli”. Che cosa possiamo fare, noi che, perché abbiamo fede in Dio, abbiamo fede nella fede di Dio nel genere umano? C’è una frase significativa che Papa Benedetto XVI ha usato spesso: minoranza creativa. Se c’è una cosa che gli ebrei sanno essere è una minoranza creativa. Quindi la mia proposta è che gli ebrei e i cattolici dovrebbero cercare di essere insieme minoranze creative. Un duetto è più potente di un a solo. Rinunciando a qualsiasi aspirazione di potere, dovremmo cercare di incoraggiare la fonte di energia più trascurata in una società orientata al consumo e alla massimizzazione dei profitti, cioè il potere dell’altruismo. Dobbiamo arruolare uomini d’affari per aiutarci ad insegnare che i mercati hanno bisogno di moralità, che senza una forte etica ci può essere successo a breve termine, ma non redditività a lungo termine, e che la coscienza non è per debosciati, ma la base della fiducia da cui dipendono il commercio, le istituzioni finanziare, e l’economia nel suo complesso. Dovremmo approfittare di questo momento di recessione per ripristinare al loro giusto posto nella società le cose che hanno valore ma non un prezzo: il matrimonio, la famiglia, la casa, il tempo dedicato al rapporto tra genitori e figli, gli incontri in amicizia che costituiscono la comunità, la celebrazione di ciò che abbiamo e non la ricerca inquieta di ciò che non abbiamo, un senso di gratitudine e di ringraziamento, e la volontà di condividere alcune delle benedizioni di Dio con coloro che hanno di meno. Queste sono le vere sorgenti della felicità duratura, com’è stato empiricamente dimostrato. Dovremmo cercare di recuperare il mondo alternativo creato dal sabato, un giorno su sette in cui fissiamo dei limiti al potere del mercato di asservirci con le sue sirene, e invece dare ai nostri rapporti la possibilità di maturare e alle nostre anime l’aria pura di cui hanno bisogno per respirare. Dovremmo sfidare il relativismo che ci dice che il giusto e lo sbagliato non esistono, quando ogni istinto della nostra mente sa che non è così, ed è un semplice pretesto per permetterci di indulgere in quello che crediamo di poter fare senza pagar dazio. Un mondo senza valori diventa presto un mondo senza valore. Le superpotenze economiche hanno un breve periodo di vita: la Spagna nel XV secolo, Venezia nel XVI, l’Olanda nel XVII, la Francia nel XVIII, la Gran Bretagna nel XIX, l’America nel XX. Nel frattempo il cristianesimo è sopravvissuto per duemila anni, e l’ebraismo per un tempo doppio. L’eredità giudaico-cristiana è l’unico sistema che io conosca in grado di sconfiggere la legge di entropia che dice che tutti i sistemi perdono energia nel tempo. Stabilizzare l’euro è una cosa, guarire la cultura che lo circonda un’altra. Un mondo in cui i valori materiali sono tutto e i valori spirituali niente non è né uno stato stabile, né una buona società. È giunto per noi il momento di recuperare l’etica giudaico-cristiana della dignità umana a immagine di Dio. Quando l’Europa recupererà la sua anima, recupererà la sua capacità di creare ricchezza. Ma prima si deve ricordare: l’umanità non è stata creata per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’umanità. Mercoledì 25 Gennaio,2012 Ore: 14:51 |