La crisi, l’Europa, l’Italia. di Gianni Mula

Gianni Mula è professore ordinario di Fisica Teorica presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Cagliari. Ha pubblicato più di 50 lavori sulla Teoria della Materia Condensata, si è dedicato allo sviluppo di tematiche al confine tra fisica computazionale e informatica, con l’obiettivo di rendere utilizzabili per un pubblico non necessariamente di specialisti gli enormi progressi realizzati nel campo della fisica computazionale e del software engineering.

L’idea d’Europa sembra destinata a tramontare per sempre, segnata da una crisi economica e sociale inarrestabile più per l’evidente l’incapacità della classe politica dei paesi europei di farvi fronte che per oggettive difficoltà di gestione. Ma quest’incapacità, pur presente e mai abbastanza deprecata, impallidisce di fronte all’impotenza dell’intera cultura europea di darsi ragione della realtà. Le speranze dell’Italia e dell’Europa di sopravvivere a questa crisi passano inevitabilmente non per nuovi modelli di sviluppo ma per una rivoluzione culturale dal basso che travolga le pseudocertezze di una scienza economica che viene sempre più vissuta come il fato dell’antica tragedia greca.
Nel 2004 George Steiner, in un famoso discorso[1], parlava dell’Europa e della sua cultura, non di economia o di democrazia, ma disse parole che colgono le radici profonde dell’attuale crisi sociale ed economica europea. Disse: “Non è la censura politica che uccide: sono il dispotismo del mercato di massa, le ricompense di una fama commercializzata”. Oggi l’Europa ha gravissimi problemi economici perché il dispotismo del libero mercato l’ha ridotta a un’entità puramente geografica ed economica, senza cultura né anima comuni, quindi senza vita, incapace di reagire unitariamente alle sollecitazioni e alle trappole di una competizione globale. L’attuale crisi non è altro che una conseguenza particolarmente evidente di questo fatto.
Quest’incapacità culturale ha ramificazioni tanto interessanti quanto inaspettate. In un suo recente post sul sito del New York Times, Simon Critchley, noto filosofo inglese attualmente alla New School for Social Research di New York, ha paragonato la crisi dell’euro a una tragedia greca nella quale i popoli europei sono in qualche modo artefici attivi della propria sfortuna. Nella tragedia greca il fato ha bisogno della libertà della vittima per esercitare la propria azione; nella crisi attuale il ruolo del fato è svolto da un liberismo assunto da maggioranze e opposizioni come dogma di fede, intoccabile e non interpretabile.
Perfino le opposizioni ex-marxiste (quasi tutte) e le chiese cristiane considerano questo dogma come una legge di natura con cui fare i conti, magari sgradita ma ineluttabile, appunto come il fato. Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia fanno, o cercano di fare, tutto quello che la teoria economica corrente prescrive per superare i problemi di liquidità che ne frenano lo sviluppo, ma i mercati non si fidano e accettano con sempre maggiore esosità le loro richieste di credito. Nessuna di queste nazioni è apparentemente sfiorata dall’idea che è ormai abbondantemente provato che il liberismo lasciato a se stesso, e quindi considerato come fine e non come mezzo, genera società con al proprio interno disuguaglianze sociali superiori all’umanamente tollerabile. E che pertanto alla base della sfiducia dei mercati stia principalmente il fatto, ormai evidente, che società umanamente intollerabili non si possono reggere a lungo, non per problemi morali, ma per ragioni puramente economiche. La tollerabilità delle disuguaglianze può infatti variare da paese a paese, ma per ciascun paese esiste un limite al di là del quale l’economia smette semplicemente di funzionare.
Di conseguenza, esattamente come Edipo cerca disperatamente di scoprire le cause della peste che colpisce Corinto senza rendersi conto di essere lui la peste, la nostra classe politica si mobilita per cercare di combattere la crisi economica senza rendersi conto che è la sua stessa azione a precipitarci nel baratro. E come in Samarcanda, la fortunata canzone di Roberto Vecchioni, il protagonista galoppa a perdifiato per due giorni per sfuggire alla nera signora per poi ritrovarsela proprio lì a Samarcanda ad aspettarlo, così i governi europei, per sottrarsi al vaticinio delle agenzie di rating, fanno esattamente quelle manovre che porteranno i loro paesi a raggiungere quelle condizioni limite di disuguaglianza che faranno precipitare la crisi.
L’Europa che il progetto dell’euro voleva realizzare sarebbe dovuta essere una vera unità, sociale, economica e culturale. È finita con l’essere un’idra con tante teste che non possono più farsi guerra con mezzi tradizionali ma ci riescono benissimo con la finanza. Il risultato è la rovina economica di strati crescenti della popolazione, ovviamente a partire da quelli più deboli. E sino a quando non sapremo vedere le cose come un problema di crescita culturale complessiva non ne usciremo. Anche in Italia dovremmo smettere di dividerci tra maggioritari e proporzionalisti, tra liberisti e statalisti, tra garantisti e giustizialisti, tra postmoderni e nuovi realisti. Dovremmo invece renderci conto che queste divisioni sono quasi sempre una maniera di parlare d’altro, di evitare di scoprire che oggi neanche le scienze più “dure” possono essere considerate portatrici di verità assolute.
Oggi la nostra civiltà tecnologica è in grado di produrre quanto è necessario per una vita pienamente soddisfacente della sua popolazione con una quantità di lavoro umano molto inferiore a quella che ci viene imposta dal dogma della concorrenza e della crescita illimitata. Il problema vero è quindi perché in questa società la miseria aumenta e le condizioni di lavoro si fanno sempre più opprimenti. Se davvero vogliamo realizzare un tipo di società diverso dobbiamo smettere di riferirci a ideali astratti ai quali ispirarci e su cui dividerci, e invece definire un cammino concreto da percorrere, di cui verificare ad ogni tappa, con tutti, gli effettivi progressi ottenuti. Questo è il senso di ciò che altrove ho chiamato acquisire una cultura della transizione. Perché le rivoluzioni culturali di lungo periodo, come quella di un’Europa davvero unita e di un euro gestito nell’interesse di tutti, non si fanno per decreto e seguendo un manuale di istruzioni, ma con un lavoro di lunga lena, cercando in ogni situazione soluzioni rispettose dei diritti fondamentali di tutti, e ricordando che spesso il meglio è nemico del bene. Non voler vedere questa realtà ci lascia in balia delle multinazionali che si fanno la guerra per miopi ragioni di profitto a breve termine, ignorando ogni prospettiva di lungo periodo e ogni interesse generale.
George Steiner chiudeva il suo discorso immaginando un futuro nel quale “l’Europa darà il via a una rivoluzione contro-industriale, pur avendo dato essa stessa inizio alla prima rivoluzione industriale. Alcuni modelli di uso del tempo libero, di individualismo anarchico, ideali ormai quasi soffocati dalla società dei consumi e dalle omologazioni dei modelli americano e asiatico-americano, forse riusciranno trovare la loro funzione naturale in un contesto europeo, anche se questo contesto porterà con sé un certo impoverimento. Chi ha conosciuto l’Europa dell’Est nel corso dei suoi decenni desolati, o la Gran Bretagna nel periodo dell’austerità post-bellica, sa che la solidarietà e la creatività possono sbocciare in condizioni di relativa miseria”.
Sono parole di un grande umanista, e potremmo essere tentati di considerarle tanto belle quanto utopistiche e quindi poco o per nulla rilevanti. Ma esprimono la direzione giusta e ci invitano a vedere che è soltanto nella cultura che possiamo e dobbiamo trovare la creatività necessaria per uscire da questa crisi e per uscirne nella maniera giusta, privilegiando il lavoro e la qualità delle condizioni di lavoro, anziché autodistruggerci con manovre controproducenti. In Italia l’unico atteggiamento coerente con questa prospettiva è quello di andare subito a nuove elezioni. Perché, come ha detto benissimo Paolo Flores d’Arcais, “si voterà con il sistema “Porcata”, inutile farsi illusioni. E allora tanto vale andare al voto il più presto possibile battendosi per creare una coalizione vincente, con liste autonome di società civile, legate alle tematiche e alle passioni di dieci anni di lotte. E nessuna sirena centrista”. Certo non c’è la garanzia di vincerle, ma sarà sempre meglio della situazione attuale, e costruire la coalizione può essere un’occasione importante per cominciare superare la cultura autolesionista della subordinazione a un mitico mercato.
Si dirà che questo è un momento di emergenza, e che dobbiamo lasciare al governo tecnico il compito di salvare l’euro, perché qualunque diversione da questo compito sarebbe esiziale. Si potrebbe anche concordare con questa posizione, ma allora il governo tecnico dovrebbe mostrare tutta la sua perizia nel trovare le risorse per riforme economiche che ci avvicinino, e non ci allontanino, alla società che vogliamo realizzare. Non ci sono i soldi? Si trovino introducendo una tassa patrimoniale e una Tobin tax. Queste tasse non funzionano perché la loro introduzione dovrebbe essere simultanea globalmente, altrimenti i capitali fuggono? Si preveda il pagamento anticipato o si introduca qualche forma di prestito forzoso. E perché no? Il governo tecnico avrebbe la forza politica per realizzare operazioni di questo genere, se davvero volesse farle, perché ricaverebbe il consenso sociale necessario dalla sostituzione contemporanea della macelleria sociale che ha già fatto con riforme che aggravano la recessione. Sarebbe forse meglio lasciare che si arrivi al punto di un ammutinamento collettivo?
Note
[1] George Steiner – Una certa idea d’Europa – Garzanti 2006

Condividi su:

    1 Comment to “La crisi, l’Europa, l’Italia. di Gianni Mula”

    1. By carla casiroli, 27 gennaio 2012 @ 10:26

      L’analisi del prof. Gianni Mula è molto convincente. Mi trova d’accordo soprattutto là dove afferma che il liberismo dispotico del libero mercato ha ridotto l’Europa ad un’entità puramente geografica ed economica; oppure quando critica le opposizioni exmarxiste e le chiese cristiane che considerano il liberismo come una legge di natura; mentre il liberismo considerato come fine e non come mezzo genera disuguaglianze sociali insopportabili. Abbastanza inquietante la previsione che le potenze europee , per sottrarsi al vaticinio delle agenzie di rating, fanno quelle manovre che porteranno i paesi a quelle condizioni di disuguaglianza che li porteranno nel baratro. Convincente è anche la critica all’attuale governo che non impone la patrimoniale o non inserisce la Tobin Tax. Carla casiroli