IL CASO ALCOA E LA NOSTRA SOLITUDINE, di Salvatore Cubeddu
Salvatore Cubeddu (n. Seneghe 1945) sociologo, giornalista pubblicista, specializzato alla Scuola Superiore di Studi Sardi dell’Università di Cagliari. I suoi saggi principali: Sardisti, voI. I, 1993), voI. II, 1996), Il Sardo-fascismo (a cura di, 1997), L’ora dei Sardi (a cura di, 1999), Il quinto moro (con B. Bandinu, 2007), L’ultima battaglia, (2009). E’ il direttore della Fondazione Sardinia e amministratore di questo sito.
DOBBIAMO FARE DA SOLI, editoriale uscito su SARDEGNA24, il venerdì 20 gennaio 2012
Lo schianto della ‘Costa Concordia’ rappresenta l’insopportabile metafora di un’Italia governata da capitani ‘disastrosi’. Il paragone invade i media di ogni dove e non c’è bisogno della ‘vergogna’ dei corrispondenti italiani perché ciascuno non riconosca nel capitan Schettino un proprio capo, il presidente di un’istituzione e, su su, il progressivo dirottamento del berlusconismo negli scogli della crisi economica e nel degrado morale e politico. In Sardegna governano gli epigoni di esso. Epigono: “discepolo, di solito inferiore e decadente, senza capacità creativa né personalità”, è la realistica definizione del vocabolario. Neanche una flotta sarda è in grado di promuovere a veri capitani quei mozzi della politica sarda posti alla guida di un popolo da troppo tempo nella tempesta.
La terribile lezione, che l’immensa balena di ferro offre al dileggio degli avversari e allo sconcerto degli amici dell’Italia, fa da scenario drammatico alla situazione dei lavoratori dell’Alcoa e del Sulcis. E le altre emergenze? E Ottana, e Porto Torres? E l’insieme dell’Isola dei lavoratori autonomi, dei commercianti, dei pastori e degli agricoltori? E la situazione della scuola, con un giovane ogni cinque buttato nell’inedia del tempo senza speranza? E l’espropriazione in corso del nostro territorio per collocarvi torri per un vento che mai spirerà a nostro favore, per sostituire un’agricoltura che invece potrebbe nutrire la nostra gente, per esercitarvi truppe utilizzabili anche contro la nostra libertà?
I cronisti delle assemblee di Portovesme insistono nel prevedere lotte in procinto di esplodere. Chi, più della classe operaia del Sulcis, può raccontare come e cosa significhi lottare? La classe operaia sarda tutta ha fatto scuola, di arditezza e di originalità, di coraggio e generosità, ma pure di frustrazione e di inutilità. Ma oggi ad Ottana comanda Clivati, mentre a Porto Torres e a Sassari si fanno ponti d’oro ai nuovi padroni della Novamont. Nel Sulcis, un esito simile alla Portovesme srl dovrebbe farci riflettere e perfino inorridire: un’azienda che lavora le scorie peggiori delle industrie europee, quei fumi di acciaieria già scoperti con scorie radioattive; un’esigua occupazione a fronte di immensi investimenti; l’accaparramento delle concessioni di energia rinnovabile a spese dell’intera popolazione sarda che paga l’energia più cara d’Europa. E, soprattutto, una classe operaia che, per risolvere i propri problemi, sacrifica quelli di tutti. Non può finire così. I sardi vanno chiamati a lotte che non li riportino indietro, che li liberino, non che li rendano più servi. Ma, quale tipo di lotte, per che cosa, con quale taratura politica? A quali nuove condizioni?
Non è facile per la dirigenza del Sulcis costruire quella nuova strategia che ci allontani dagli scogli dove sono incagliate le altre zone industriali. Gli obiettivi e le motivazioni sono più importanti delle forme di lotta.
Sarà difficile che una nave e aerei pieni di lavoratori sardi – con l’accompagnamento di consigli, sindaci e presidenti – ottengano più ascolto dei taxisti coi loro cori bellicosi. Sono giorni dell’ira, questi che si concentrano a Roma. Nessuna ira è più irrazionale della rabbia dei privilegiati. Dietro ai taxisti e al loro dominio sulle strade si collocano ceti medio/alti inferociti dall’allontanarsi della stella di Berlusconi quale garante dei loro privilegi. Notai, avvocati e farmacisti si muovono come lobby nei palazzi e incoraggiano i rivoluzionari della loro reazione nelle piazze. Potremmo riprendere il vecchio concetto e dire al nostro amico metalmeccanico: è la lotta di classe, fratello! Dei ricchi contro i poveri!
E possiamo continuare: anche la tua ha a che fare con essa, ma, se vuoi vincere, devi farne una lotta di popolo, del popolo sardo. Che non puoi convincere affermando che l’economia italiana ha bisogno dell’alluminio (è vero; ma non dovrebbe sostenerlo il ministro italiano dell’industria?); né puoi credere che gli americani si preoccupino degli equilibri economici e sociali del Sulcis, se di esso già si disinteressa lo Stato italiano (in Sardegna è meglio ‘sbatterci’ di nuovo i peggiori delinquenti!); e, infine, non puoi perdere tempo con presidenti e prefetti sardi, che per te non hanno risposte.
La battaglia giusta è nella direzione che hai iniziato l’altro giorno andando all’aeroporto di Decimo, forse senza neanche rifletterci, come già altri avevano fatto. La battaglia operaia di oggi deve essere capace di fare accorrere in Sardegna i rappresentanti del governo italiano, anche sollecitato da pressioni internazionali. Quel ‘vogliamo che intervenga Obama!’, all’inizio appariva ingenuo e velleitario. Di giusto c’è, però, il messaggio. In Sardegna bisogna inter – nazionalizzare il confronto e, se è il caso, lo scontro. Continueremo presto il discorso. Bisogna innalzare la bandiere dei nostri veri interessi. Sapendo innanzitutto che potremo contare solo su noi stessi. Inter-nazionalizzare, allora: un confronto tra Nazioni, appunto.
IL CASO ALCOA E LA NOSTRA SOLITUDINE, editoriale uscito su SARDEGNA24, il venerdì 13 gennaio 2012
L’ultima speranza degli operai di Portovesme risiede nel dossier di Fabrizio Barca, forse alla prima vera prova di quella coesione sociale che dà nome al suo nuovo ministero. Gli scenari del momento sono oscuri. Alcune domande accompagnano l’importante incontro di oggi a Roma, dopo la chiusura totale dell’azienda: si chiude e basta? Si intravedono nuovi acquirenti o si tenta una nuova industrializzazione? Avremo la stessa fabbrica con identica produzione o altro da essa? E per quanti lavoratori: tutti o solo quelli lontani dalla pensione? Questi interrogativi non troveranno subito una risposta, ma quelle saranno le domande.
Questa Alcoa, intanto, chiude. Perdite d’esercizio, paura delle multe europee, dimensionamento e usura degli impianti, calo del mercato: elementi oggettivi che si uniscono al fatto generale e più grave, l’Italia è il Paese più sputtanato dell’Occidente. Non temono di affermarlo i dirigenti italiani dell’Alcoa nel tavolo delle trattative. Una politica esposta alla vergogna si unisce a un’economia che a tanti nel mondo fa comodo sorpassare e mungere. Il berlusconismo è una colpa da espiare, per gli italiani tutti, immaginiamoci per gli operai! In molti ricordano i lavoratori dell’Eurallumina quando si erano fidati delle promesse elettorali di Berlusconi.
Non si poteva immaginare un momento peggiore per difendere questi lavoratori. Dopo avere perso le battaglie di Ottana e di Porto Torres dovremmo adottare una differente strategia per impedire lo smantellamento di Porto Vesme. Quale non si sa, ma occorre sicuramente imparare la lezione del passato. Il sindacato sardo è unito (in controtendenza con l’Italia, e con la storia dei sardi), i suoi dirigenti comprendono la posta in gioco, non possono non sapere che la taratura politica dello scontro non si misurerà solo nelle autostrade e negli aeroporti occupati. La Sardegna è abbandonata senza essere stata sedotta. La nostra classe dirigente ha lasciato che ci espropriassero la banche e che perdessimo i finanziamenti europei. Gran parte del commercio è passato in mano a società straniere. Allo Stato non interessa la Sardegna se non come servitù militare e carceraria, abuso del territorio e feroce prelievo fiscale. Disonesto e bugiardo, abbandona al loro destino i trasporti aerei, navali e ferroviari. Non rispetta gli accordi né le sue stesse leggi. Ci vuole ben altro che le barricate, di una notte o di un mese, per uscire da questa situazione! Abbiamo bisogno di verità, innanzitutto e soprattutto. Siamo soli, tiriamone le conseguenze. Da qui bisogna partire a ragionare, a progettare e a lottare.
L’Alcoa è (era?) il vero santuario dell’industria di Portovesme. La fabbrica nasce come Alsar (Alluminio sardo) agli inizi degli anni ‘70, si trasforma in Alluminio Italia dieci anni dopo e passa alla multinazionale americana con la chiusura della partecipazioni dello Stato in Italia. Nella mutazione del nome è inscritto il mutamento di proprietà con gli interessi di riferimento.
L’alluminio era governato dall’Efim, il più debole – rispetto ad Eni ed Iri – degli enti economici dello Stato italiano. Invano i politici sardi più attenti alle cose industriali, negli anni ‘60/’70, si erano battuti per ottenere a Portovesme la presenza dell’Iri con il quinto centro siderurgico. Inutilmente il deputato sardista Titino Melis aveva litigato con l’amico Ugo La Malfa perché l’Ersae, la società dell’elettricità in mano alla Regione sarda, non passasse all’Enel. Lo Stato aveva le sue priorità nel Mezzogiorno e Taranto era la prescelta, anche da parte dell’opposizione di sinistra e dei sindacati.
L’alluminio è arrivato a Portovesme dopo la lotta operaia nella difesa delle miniere. La città di Carbonia è il problema lasciato ai sardi dal fascismo e dalla sua politica autarchica. Finito il fascismo, l’economia e la società sarda hanno avuto il problema di trovare un senso a questa città, artificio recente nell’urbanistica ma crogiuolo sociale e laboratorio politico di un melting pot culturale sempre presente.
Le pensioni dell’Enel e l’industria a Portovesme sono state le risposte dello Stato alla continuità di Carbonia nei primi due decenni della Regione autonoma. Oggi gli operai, ormai provenienti da varie parti del Sulcis, interrogano attraverso i media la politica sarda su quali alternative al loro licenziamento abbia approntato. Niente: e la risposta la conoscono anche loro. E, probabilmente, conoscono anche il seguito: l’assistenza, come a Ottana e a Porto Torres. A Ottana oggi spadroneggia un certo Clivati sostenuto da ‘innocenti’ politici locali. A Portotorres è arrivata la signora della Novamont che vuole prendersi le pianure sarde per coltivarci i cardi per le sue industrie. La possibilità di impossessarsi del nostro territorio offerta a questi signori – l’Eni che lascia l’industria ma si impadronisce delle centinaia di ettari del polo industriale, insieme al porto – è inconcepibile e inaccettabile. Le lotte operaie, a motivo delle scelte di trenta-quarant’anni fa, non possono diventare il cavallo di Troia del nuovo sfruttamento. Ci giochiamo anche il futuro. E’ ora di dire: basta!